venerdì 30 novembre 2012

Antonio sospeso sulla gru

 
 
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di ALESSANDRA CAVALLARO E’ rimasto paralizzato per due minuti. Interminabili. «Dio aiutami» è stato l’unico disegno in bianco e nero che ha prodotto la sua mente. Era su una gru semovente Antonio Laudati, operaio dell’appalto, quando la furia del vento, mercoledì mattina, si è abbattuta sull’Ilva. Lavorava da poche ore nella zona delle batterie insieme a sei colleghi. Tutti miracolosamente salvi. A tre metri da lui è crollata la torre di cemento. Un tonfo assordante. Intorno lamiere, vetri, distruzione. Antonio doveva tirare su una valvola, un lavoro di routine, un intervento ordinario, ma la pioggia e la violenza di una folata anomala, devastante, hanno generato il panico. D’improvviso tutto è diventato nero, il cielo, l’aria, i pensieri. Lui è rimasto bloccato sulla gru e ha incominciato a pregare, paralizzato, immobile nel terrore di quell’incognita chiamata tornado. «Io non potevo far altro che rimanere fermo, vedevo i miei colleghi scappare, si sono riparati sotto una tettoia. E’ stata la loro fortuna - afferma Antonio Laudati - perché se si fossero rifugiati dentro al furgone parcheggiato lì vicino sarebbe stata la fine». Lo stesso furgone che in pochi secondi è stato schiacciato dalla torre crollata.

E’ lucido, tremendamente lucido Antonio, nel raccontare come la morte gli sia passato davanti agli occhi. «Io mi sono salvato - dice - perché manovravo la gru dietro ad un serbatoio che mi ha riparato, ecco perché il mezzo non si è ribaltato» . In quei velocissimi istanti in cui la furia del tornado ha tagliato l’Ilva, ha preso forma un ricordo, quello di un suo collega schiacciato proprio da una gru. Lo ha cancellato in un nano secondo, doveva cancellarlo, ed ha imboccato l’unica strada percorribile: invocare quel Dio a cui Antonio è devoto, oggi più di ieri. Passata la furia del tornado Antonio è riuscito a scendere a terra e nel correre si è ferito ad un ginocchio. Tra colleghi si sono chiamati, si sono cercati, l’appello più difficile che abbiano mai fatto. Al buio, a causa un blackout momentaneo. Erano tutti li, ancora attoniti e spaventati. Sopravvissuti.

Vengono raggiunti prima da un responsabile del reparto e poi dalla notizia che è meglio lasciare lo stabilimento. Antonio prima si reca nell’infermeria, stracolma di dipendenti con tagli evidenti sul corpo. «Guardavo le persone con forti dolori al petto e pensavo che il paura a volte gioca brutti scherzi». L’aria rarefatta e satura di disperazione ha indotto Antonio a chiedere un certificato per essere trasferito e medicato altrove. La sua contusione verrà curata all’ospedale di Grottaglie. Poi a casa. Dalla sua famiglia. Ma il silenzio delle stanze fa male, quando un soffio pesante a 200 chilometri orari sfiora la vita, strappandole la pace. Si cambia e si riveste Antonio, e alle 18 raggiunge l’oratorio a Paolo VI dove fa il volontario. Sente il bisogno di confondersi tra quei volti che conosce. Appartenere ancora alla storia. Raccontare quell’avventura che per tanti è stata solo pioggia e vento. Per Antonio è il segno che è tutto già scritto». Quasi una strada tracciata quella tormenta mai vista prima in città. Chiude l’operaio dell’appalto: «Lo stabilimento è devastato. Avranno bisogno degli operai per rimettere tutto in ordine».
In fondo spesso è così, le sciagure portano il deserto, uno spazio vuoto sul quale ricostruire.


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