mercoledì 5 dicembre 2012

Ilva di Taranto, le tappe e le toppe da Salute pubblica

Salute Pubblica

Salute Pubblica riunisce un gruppo di studio permanente che vuole mettere in luce il significato reale di Salute. La Salute è Pubblica perchè diritto fondamentale di tutti. Diritto che deve essere tutelato nella realtà lavorativa, sociale e ambientale in cui ciascuno di noi vive ed opera. La Salute è determinata non solo dalla conoscenza tecnico-scientifica ma soprattutto dal sapere delle persone, di tutti noi, in quanto titolari della Salute stessa.
Salute Pubblica, pertanto, si propone di raccogliere e dare voce ai saperi soggettivi che provengono dal vissuto concreto sì da portarli a livello di sapere ufficiale. Sapere ufficiale oggi fin troppo conformato alle logiche liberiste dominanti.
L’analisi della vicenda dell’Ilva di Taranto, per la sua complessità, deve essere trattata facendo riferimento a fatti e dati scientifici.

I fatti.
Il 26 luglio del 2012, il Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) della Procura di Taranto preso atto della grave situazione sanitaria e ambientale, per tutelare la vita e la salute umana, beni che non “ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta”, impone il sequestro preventivo e senza facoltà d’uso dell’area a caldo. L’accusa che viene mossa ad Emilio Riva, al figlio Nicola e ai vertici dell’Ilva è di disastro ambientale doloso, rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, avvelenamento di acqua e sostanze alimentari.
Secondo il GIP Ilva ha inquinato con coscienza e volontà per “la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”.
La decisione del giudice scaturisce da un percorso giudiziario assolutamente garantista per l’azienda: l’incidente probatorio, praticamente un pezzo di dibattimento anticipato alla fase delle indagini preliminari. Un luogo in cui esperti, epidemiologi e chimici, indicati dal giudice si sono potuti confrontare con i periti delle parti in causa, fra questi l’Ilva e gli allevatori. Sì: i pastori. Uomini e donne due volte vittime dell’industria: come persone che a seconda di come tira il vento respirano gli inquinanti di quella fabbrica e come proprietari di greggi che, contaminati da diossina, finiscono per essere abbattute.


I dati.

In due lunghe ed elaborate perizie i consulenti del giudice, scienziati con competenze di livello internazionale, dipingono con figure e tabelle un quadro arcinoto all’uomo e alla donna della strada, un quadro di vittime e di carnefici.
Le vittime sono le persone, 386 in 13 anni di osservazione, che muoiono  per l’inquinamento industriale.
Le vittime sono le persone, 237, che si ricoverano per tumore maligno o le 937 che si ricoverano per malattie respiratorie causate dall’inquinamento.
Le vittime sono le bambine e i bambini, 17 secondo i periti, che si ricoverano a causa di una diagnosi di tumore maligno e le bambine e i bambini, oltre 600, che si ricoverano per infezioni delle vie respiratorie.
E le vittime sono anche i pastori e i 2271 capi di bestiame abbattuti perché contaminati da diossina che, sostengono i chimici, è “riconducibile alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento ILVA di Taranto”. Giudizio che è basato sull’analisi dei “profili dei congeneri “fingerprints” dei contaminanti”: le impronte digitali delle sostanze emesse dall’Ilva sono le stesse delle rinvenute nei tessuti degli animali.
Non è un mistero per alcuno e gli scienziati lo riportano in perizia che dallo stabilimento ILVA si diffondono sostanze pericolose per la salute dei lavoratori e per la popolazione di Taranto e dintorni.
L’Ilva, ovviamente, nega la paternità del degrado ambientale sanitario e il 20 novembre chiede il dissequestro degli impianti.
Il 26 novembre, la procura sequestra l’intera produzione, giacché è “profitto di reato”, ossia un profitto che è maturato nonostante il divieto di produrre.
Il 26 novembre è anche il giorno della formalizzazione dei risultati dell’indagine “ambiente venduto” che ha portato all’arresto di dirigenti Ilva, funzionari pubblici e politici. In questo caso, le accuse sono di costituzione di associazione a delinquere, disastro ambientale aggravato, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque e sostanze alimentari, concussione e corruzione in atti giudiziari.
Ci sono anche indagati illustri tra cui il sindaco Stefàno, indagato per omissioni in atti d'ufficio in relazione alle prescrizioni a tutela dell'ambiente cittadino.
Nelle ordinanze si parla inoltre di misure urgenti che il Presidente della Regione non avrebbe imposto all'azienda, di tentativi politici di frenare le autorità preposte ai controlli anche attraverso la minaccia di non rinnovare incarichi direzionali.
Queste in sintesi le tappe della vicenda giudiziaria. Un capitolo a parte meritano le azioni delle istituzioni democratiche: gli atti di intesa sottoscritti negli anni da regione provincia comuni ARPA e sindacati, atti definiti come “la più grossolana presa in giro compiuta dai vertici Ilva”.
Un quadro che non può che definirsi sconfortante se si pensa anche all’intercettazioni in cui l’avvocato Perli riferisce di una discussione con membri della commissione che hanno rilasciato l’Autorizzazione Integrata Ambientale del 2011, una discussione in cui l’avv. Perli afferma che l’AIA “ve l’abbiamo scritta noi. Vi tocca soltanto di leggere le carte, metterle in fila e gestire un po’ il rapporto con gli enti locali”. Enti, quali la regione la provincia e il comune, che quell’AIA avevano poi sottoscritto.
La volontà del Governo di superare il blocco imposto dalla Magistratura con un decreto legge, anche con un atto legislativo (e con “gli avvertimenti” alla magistratura, a latere di quest’ultimo, dell’ineffabile ministro Clini) che calpesta i più elementari principi della separazione dei poteri e, dunque, dello Stato di diritto, mostra chiaramente che non il lavoro é più importante della salute bensì il profitto.
Un decreto nel quale la sostanza di un’invasione di campo, Costituzionalmente intollerabile, dell’Esecutivo in un ambito evidentemente di competenza dell’Autorità Giudiziaria, ma soprattutto di una vera e propria autorizzazione ad inquinare, e quindi, per quanto sopra esposto, di uccidere, non resta minimamente occultata dalla cortina fumogena della “confisca”, che, se non stessimo parlando di una materia nella quale ci sono centinaia di vittime innocenti, a partire dai bambini, sarebbe in grado di suscitare irrefrenabili risate, sol che si pensi che, mentre si agita il macchiettistico spettro dell’esproprio, si toglie lo stabilimento di Taranto dalle mani dei custodi giudiziari nominati dalla magistratura e lo si restituisce pienamente, per legge, alla famiglia Riva.
Con la perla, estetica prima che etica, per cui, tra le ragioni per le quali “la società ILVA S.p.A. di Taranto è immessa nel possesso dei beni dell’impresa ed è in ogni caso autorizzata, [….] alla prosecuzione dell'attività produttiva”, vi è “la nota dell’Ilva S.p.A. del 6 novembre 2012 n. Dir. 207/12 con la quale la predetta società dichiara la propria disponibilità a dare applicazione alle disposizioni contenute nella precitata l’Autorizzazione Integrata Ambientale”.
D’altronde, come non prendere sul serio da parte di un Governo tecnico una dichiarazione di disponibilità del genere che proviene da una Società per il cui amministratore delegato “due tumori in più sono una minchiata”?
É sin troppo evidente che neppure il disastro ambientale e sanitario consentito al siderurgico di Taranto in questi anni dagli enti autorizzatori, sembra in grado di suscitare le domande  più ovvie: conviene ancora produrre acciaio? Produrlo così? Che cosa produrre in alternativa? Si può produrre di meno a scapito del profitto senza intaccare il reddito del lavoro?

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