giovedì 7 marzo 2013

la cassa integrazione è già partita... ma non lo dicono, vogliono rassicurare gli operai Ferrante e sindacati confederali. Ma gli operai tranquilli non sono e hanno ragione. Perchè i sindacati confederali non fanno una assemblea generale prima che parta qualcosa e si firmi tutto?







di Tiziana FABBIANO

TARANTO - La cassa integrazione è di fatto già partita anche se non c’è ancora l’accordo nero su bianco. Ma, nonostante i messaggi rassicuranti dell’azienda sul fatto che non si tratterà di esuberi strutturali e che tutti i 6500 operai saranno reintegrati al termine del periodo di fermo, la tensione in fabbrica resta altissima.

L’Ilva, nelle stesse ore, era al ministero del Lavoro proprio per definire la procedura per il ricorso alla cassa integrazione straordinaria per un massimo di 6417 unità dello stabilimento di Taranto. Ammortizzatori richiesti fino a tutto il 2015 per effettuare i lavori previsti dall’Autorizzazione integrata ambientale che comporteranno la fermata di diversi impianti dell’area a caldo. L’accordo non è ancora stato sottoscritto ma sono già partite le lettere ai primi dipendenti interessati dalle fermate. L’attuale periodo sarà comunque coperto dall’intesa, che avrà effetti retroattivi. Il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, l’altro ieri a Roma, aveva manifestato disponibilità a vagliare anche la possibilità di sostituire la cassa integrazione con i contratti di solidarietà, proposti da Fiom e Fim.

Ieri pomeriggio intanto dirigenti aziendali e sindacati hanno continuato il confronto tecnico a Taranto. Nel pomeriggio i responsabili dello stabilimento, in vista del nuovo incontro al ministero del Lavoro fissato per giovedì prossimo, si sono incontrati con le Rsu e segretari provinciali. Le organizzazioni dei metalmeccanici provano a ridurre i numeri, spostare operai da un reparto all’altro, per evitare il più possibile che i lavori di ambientalizzazione dell’Ilva si trasformino in un boomerang contro i dipendenti. «Al danno si aggiunge la beffa», dicono molti operai. Serpeggia il malumore perché dopo aver respirato polveri e fumi adesso saranno sempre loro a dover “pagare” la fermata per rendere gli impianti ecocompatibili con la mannaia degli ammortizzatori sociali, ben al di sotto delle retribuzioni. Preoccupazioni importanti, concrete, che si intrecciano ai conti da pagare tutti i giorni e che fanno divampare i focolai di tensioni mai spente.
La riunione di ieri pomeriggio ha stabilito il metodo da seguire. I delegati sindacali avvieranno un confronto per cercare di abbassare il tetto massimo della cassa integrazione al di sotto dei 6417. Con l’azienda si farà una verifica minuziosa, area per area, in tre giornate: venerdì, lunedì e martedì. Mercoledì ci sarà poi un incontro di sintesi con i tre segretari di Fim-Fiom e Uilm per arrivare a giovedì, a Roma, con le idee chiare sui numeri e anche sugli strumenti da adottare. La Uilm, ad esempio, ha manifestato perplessità sullo strumento dei contratti di solidarietà rispetto agli altri due sindacati e punta a spostare la trattativa sul raggiungimento di una soglia minima mensile da garantire ai lavoratori che resteranno a casa. Nel 2009 i sindacati riuscirono ad ottenere dall’Ilva un’integrazione economica della cassa integrazione. Adesso i tempi sono cambiati e l’azienda ha già fatto capire di non potersi accollare questo impegno finanziario, visti gli importanti costi della ristrutturazione impiantistica e la crisi di mercato mai cessata.

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