martedì 26 maggio 2015

La tratta delle nuove schiave nel brindisino e nel tarantino

DALLA REPUBBLICA Così metà paga finisce al caporale di RAFFAELLA COSENTINO TARANTO – Alle tre di notte le donne del Brindisino e del Tarantino sono già in strada. Indossano gli […]

DALLA REPUBBLICA
Così metà paga finisce al caporale
di RAFFAELLA COSENTINO

TARANTO – Alle tre di notte le donne del Brindisino e del Tarantino sono già in strada. Indossano gli abiti da lavoro e hanno in mano un sacchetto di plastica con un panino. Nei punti di raccolta, agli angoli delle piazze, alle stazioni di benzina, aspettano il caporale che viene a prenderle con l’autobus gran turismo per portarle sui campi, dove lavorano sfruttate e ricattate, a volte anche con la richiesta di prestazioni sessuali. Sono soprattutto italiane, più affidabili, ma soprattutto più “mansuete” delle lavoratrici straniere, protagoniste in passato di proteste e denunce.
Per costringere le italiane al silenzio non servono violenze fisiche. Basta la minaccia “domani resti a casa”. “I proprietari dei pullman sono i caporali. È a loro che ci rivolgiamo per trovare lavoro in campagna o nei magazzini che confezionano la frutta”, racconta Maria, nome di fantasia, che ha 24 anni e lavora sotto i caporali da quando ne aveva 16. Secondo le stime del sindacato Flai Cgil, sono 40mila le braccianti pugliesi vittime dei caporali italiani, che in molti casi hanno comprato licenze come agenzie di viaggio, riuscendo così ad aggirare i controlli.
Il reclutamento. “Nei paesi ci sono delle persone, generalmente sono delle donne, che fanno da tramite tra chi vuole lavorare e il caporale. Raccolgono i nominativi per lui – racconta Antonietta di Grottaglie – Il caporale decide dove mandare a lavorare le braccianti e quello che deve essere dato come salario. Cercano di non avere uomini, anche per i lavori pesanti, perché le donne si possono assoggettare più facilmente”. Antonio, altro nome di fantasia, è ancora più esplicito: “Non vogliono stranieri, il motivo è che loro si ribellano e gli italiani no: ci sentiamo gli schiavi del terzo millennio, ci hanno tolto la dignità”.
Le italiane sfruttate per la fragola “top quality”. “La donna si presta di più a un lavoro piegato di tante ore – spiega un produttore agricolo che assume circa 60 operaie nelle sue serre di Scanzano Jonico – Io ho quasi tutte italiane, andiamo a prendere la manodopera in Puglia, perché quella locale non basta. In tutta Scanzano esistono 600 ettari di coltivazioni di fragole. A 6 donne a ettaro fanno 3600 braccianti donne”. Ci sono rumeni che si propongono per la raccolta, ma non vengono quasi mai presi in considerazione. “La fragola è molto delicata  –  dice Teresa  –  facilmente si macchia e diventa invendibile, per questo servono le donne a raccoglierla nelle serre, con la temperatura che raggiunge i 40 gradi”. Tra Scanzano, Pisticci e Policoro si produce la fragola Candonga, brevettata in Spagna e diventata un’eccellenza molto apprezzata sul mercato perché è più grande e ha una lunga durata. Spesso vengono “trattate” con ormoni come la gibberellina, come vediamo dalle scritte sui tendoni “campo avvelenato”.
Caporali tour operator. Da aprile a settembre centinaia di grossi pullman si spostano carichi di lavoratrici tra le province di Brindisi, Taranto e Bari per la stagione delle fragole, delle ciliegie e dell’uva da tavola. Grottaglie, Francavilla Fontana, Villa Castelli, Monteiasi, Carosino, sono solo alcuni dei nomi della geografia del caporalato italiano che sfrutta le donne. Il nome del caporale è scritto in grande, stampato sulla fiancata dei bus, insieme al numero di cellulare. “È per questo che nessuno li ferma”, dice Teresa, altro nome di fantasia.

Donne e italiane, le nuove vittime del caporalato agricolo

Il potere del caporale si misura dal numero di pullman che possiede, perché questo è indice anche della quantità di lavoratori che riesce a controllare. Si va dalle cinquanta alle oltre 200 persone. Il caporale prende dall’azienda circa 10 euro a donna e sui grandi numeri guadagna migliaia di euro a giornata. “Nel magazzino per il confezionamento dell’uva da tavola dove lavoro ci sono mille operaie italiane, portate lì da più di dieci caporali diversi”, racconta Antonio, bracciante della provincia di Taranto. In questi giorni i pullman percorrono quasi cento chilometri, dalla Puglia fino alle aziende agricole che producono fragole nel Metapontino, tra Pisticci, Policoro e Scanzano Jonico, in provincia di Matera.
Questi proprietari conferiscono il prodotto a dei consorzi di commercianti con sede nel nord Italia che hanno magazzini in loco. L’intermediario prende una percentuale variabile, almeno del 2%, poi si aggiungono i costi delle cassette e la tariffa del 12% pagata al “posteggiante”, il personaggio che la espone in vendita ai mercati generali. Alla fine si arriva a un prezzo al consumatore anche di 7 euro al chilo nei supermercati di Milano.
Sfruttate come lavoratori immigrati. Gli orari di lavoro e la paga variano a seconda del tipo di raccolta. Ma la regola sono impieghi massacranti e sottosalario. Alle fragole si lavora per sette ore, ma se sono mature e vanno raccolte subito si arriva anche a 10 ore. Nei magazzini di confezionamento si arriva anche a 15 ore. Ogni donna deve raccogliere una pedana di uva pari a 8 quintali. Se ci mette più tempo la paga resta uguale, per cui alla fine il salario reale è meno di 4 euro l’ora. “C’è il pregiudizio che le donne iscritte negli elenchi agricoli siano false braccianti  –  spiega Giuseppe Deleonardis, segretario della Flai Cgil Puglia  –  invece vivono una condizione di sfruttamento pari agli immigrati. Nel sottosalario, a parità di mansioni con gli uomini, c’è un’ulteriore differenza retributiva: se la paga provinciale sarebbe di 54 euro e all’uomo ne danno in realtà 35, la donna non va oltre 27 euro”.
Ricatti ed estorsioni. Il salario ufficiale è di 50-60 euro. Ma vengono segnate la metà delle giornate di lavoro effettivamente lavorate. Le braccianti vengono costrette a firmare buste paga che rispettano i contratti, perché le aziende hanno bisogno di dimostrare che sono in regola per poter accedere ai finanziamenti pubblici. Di fatto continuano a pagare un terzo o al massimo la metà del salario dovuto, richiedendo indietro i soldi conteggiati in busta paga.
“In provincia di Taranto, con inquadramento minimo, posso avere una busta paga ‘ufficiale’ di 47 euro lordi, però in realtà me ne arrivano 27, massimo 28 a giornata – racconta Antonietta –  L’azienda ci dà il foglio di assunzione, noi dobbiamo portarlo con noi tutti i giorni nel caso ci dovesse essere un controllo. L’autista del pullman risulta essere un dipendente dell’agenzia di viaggio”. I datori di lavoro mettono la paga del caporale sull’assegno che percepiscono le lavoratrici, le quali riscuotono e danno al caporale la sua parte in nero.
Sotto gli occhi della fattora. Nei campi italiani succede di tutto, approfittando della disperazione e della crisi economica. C’è chi aspira a diventare una “fissa” della squadra del caporale come se fosse una specie di nota di merito in graduatoria. Chi subisce molestie sessuali o la richiesta di prostituirsi per poter lavorare. Ci sono donne caporali che sono anche proprietarie di pullman. Ma la figura più ambigua è quella che tutti chiamano “la fattora”, una sorta di kapò al femminile con una funzione di ricatto. È lei la persona di fiducia del caporale che controlla le lavoratrici sul campo. “Il suo ruolo è di subordinare psicologicamente le braccianti, garantendo loro assunzioni se rinunciano ai diritti”, spiega Deleonardis. “Alla minima protesta, rimostranza o insubordinazione si resta a casa per punizione – dice Teresa – Anche se ti lamenti perché non vuoi viaggiare nel cofano del pulmino”.
Né denunce né ispezioni. Emerge il quadro di un sistema di produzione basato su ricatti, soprusi, omertà e conoscenza personale. “Non ho mai visto un pullman essere fermato da una pattuglia della polizia, anche se ne incontriamo molte”, continua Antonio. Secondo Deleonardis questo è un sistema di caporalato legalizzato. “È una situazione conosciuta da tutti sul territorio. Qui c’è una tolleranza di un sistema di illegalità, non si vuole colpire il caporalato  –  dice il sindacalista – Abbiamo chiesto al prefetto di Taranto di fare dei controlli, ma possibile che non ci sia mai una verifica se i pullman hanno le autorizzazioni a trasportare persone e in quali aziende vanno?”.
I dati ufficiali del ministero del Lavoro dicono che ci sono state 1818 ispezioni in Puglia in tutto il 2014. Quelle che hanno riscontrato irregolarità sono state 925, circa il 50%, per un totale di 1299 lavoratori coinvolti, pari a 1,4 lavoratori ad azienda. Un numero davvero esiguo se paragonato ai datori di lavoro che assumono anche mille braccianti per volta servendosi dei caporali.
Sessantamila sfruttate in tre regioni
di VALERIA TEODONIO

ROMA – Amina indossa un vestito leggero e scarpe sporche di terra. Ha 25 anni, ma ne dimostra dieci di più. È diventata mamma sei mesi fa e ha lasciato il suo bambino in Romania per venire a lavorare in Italia. La pelle cotta dal sole, gli occhi grandi e scuri. E gonfi di paura. Li tiene bassi, incollati al pavimento. Sta raccontando a due operatrici della Caritas di Foggia che è appena scappata, che l’hanno costretta a stare piegata sui campi dei padroni italiani dall’alba alle dieci di sera, che non l’hanno mai pagata, che le hanno preso i documenti. E che per riprenderseli, e andarsene, è stata costretta ad avere dei rapporti sessuali con il suo caporale romeno. Adesso non ha neanche i soldi per il biglietto dell’autobus.
Il fenomeno del caporalato in Italia è una piaga sempre più profonda. E la novità è che negli ultimi due anni c’è stato un aumento costante della manodopera femminile: donne ghettizzate, violentate e sfruttate che vanno lentamente a sostituire i braccianti di sesso maschile: oggi – dicono i dati che sta raccogliendo la Flai Cgil e che pubblichiamo in anteprima – le straniere schiavizzate in agricoltura sono 15mila (contro i 5mila uomini). Sono quasi sempre giovani mamme, ricattabili proprio perché hanno figli piccoli da mantenere. Un dato impressionante, che si somma ad un altro elemento preoccupante: il numero sempre crescente delle lavoratrici italiane, che, se non schiavizzate, sono comunque gravemente sfruttate: sempre secondo le stime del sindacato, in Campania, Puglia e Sicilia, le tre regioni a maggiore vocazione agricola, sono almeno 60mila, in proporzione crescente rispetto alle straniere. Vengono pagate 3-4 euro l’ora, ma anche meno in alcuni territori, e costrette a turni massacranti.
Ad Amina hanno raccontato che tutti i soldi guadagnati in un mese servono per pagare il viaggio, gli spostamenti, l’acqua, il vitto. E che, anzi, è lei ad essere in debito. E che deve continuare a lavorare fino a quando non sarà saldato. Altrimenti niente paga e niente documenti. “Fai quello che ti diciamo, oppure ti ammazziamo”. Si è dovuta anche prostituire in cambio della libertà. Molte altre restano a spezzarsi la schiena fino a 14 ore al giorno, cercando in tutti i modi di portare qualcosa a casa a fine stagione. Hanno bambini piccoli e un bisogno disperato di soldi. E tornare a mani vuote non è pensabile. Anche se le condizioni sono disumane.

Catania, ‘caporalato’ agricolo: le condizioni disumane delle vittime

Restano per l’estate o anche solo per qualche settimana, e poi se ne vanno. Rientrano in Italia dopo qualche mese o l’anno successivo. Quando va bene e hanno saldato il “debito” (i caporali trattengono soldi anche per l’affitto delle baracche dove le fanno dormire), vengono pagate 3 euro l’ora come gli uomini schiavizzati, ma spesso anche meno. Vengono preferite alla manodopera maschile proprio perché non si ribellano e sottostanno a tutto, anche ai ricatti sessuali. Una pratica frequente in Puglia, nel Brindisino e nel Tarantino, e in Campania, nel Casertano. E in Sicilia, in particolare nella provincia di Ragusa, dove è stato documentato il caso di donne romene “vendute” dai caporali ai padroni italiani, con cui vengono costrette ad avere rapporti sessuali, anche nel corso di festini a cui partecipano diversi uomini..
Ragazze reclutate in Romania. I caporali che operano in Puglia vanno a reclutare le ragazze soprattutto nelle zone agricole della Romania, nelle campagne intorno a Timisoara o a Iasi, zona al confine con la Moldavia. Le imbarcano su pullman da 50 posti. Il viaggio dura un giorno e una notte. “Organizzano viaggi verso il sud Italia – racconta Concetta Notarangelo, coordinatrice del progetto Caritas in Puglia – ma sappiamo per certo che arrivano anche in Emilia Romagna. Ma nessuno ha il coraggio di denunciare. Qui non si tratta di caporali e basta, si tratta di organizzazioni criminali. Malavita. Il caporale è solo un anello della catena. Gli annunci per questi lavori escono addirittura su un giornale romeno. Non è solo un passaparola. E le donne hanno paura. Ma senza denunce nessuno viene punito. In tre anni che seguo il progetto Caritas abbiamo raccolto in tutto 15 denunce. E poi è comunque difficile provare il reato, ci sono alcuni processi in corso, ma per ora nessuna condanna”.
In Campania ad essere schiavizzate sono le donne africane. “Se non accettano di avere rapporti sessuali con il datore di lavoro (quasi sempre italiano, ndr) non vengono pagate – spiega Cinzia Massa, responsabile immigrazione Flai Campania – Non hanno permesso di soggiorno, ed essendo clandestine sono le più ricattabili”.
Tutto il Sud coinvolto. Secondo i dati della Flai Cgil solo in Puglia sono tra le 30 e le 40mila le donne gravemente sottopagate, a cui vanno aggiunte diverse altre migliaia in Campania e in Sicilia. A volte partono alle tre di notte e tornano a casa di pomeriggio. I caporali intascano 12 euro per ogni donna che hanno “procurato”. Anche se hanno un regolare contratto, vengono pagate 20-25 euro al giorno. Mentre sulla busta paga ne risultano 45. Succede soprattutto nel Casertano e nel Salernitano. “Mentre lavorano – denuncia ancora il sindacato – le donne vengono controllate da un guardiano, che  grida continuamente di non distrarsi e di essere più veloci. Per andare in bagno hanno 10 minuti a turno. E se qualcuna si rifiuta di andare sui campi in un giorno di festa, come il 15 agosto, viene ‘punita': per qualche giorno non la fanno lavorare”. E se una ragazza è considerata troppo ribelle non viene scelta. Le donne selezionate vengono caricate sui furgoni o ammassate – anche in 30 – in camion telonati. Per questo trasporto bestiame ogni lavoratrice paga fino a 7 euro a viaggio.
Gli addetti all’agricoltura in Italia sono un milione e 200 mila. Nel 43 per cento dei casi – è il dato dell’Istat – si tratta di lavoro sommerso. E il giro d’affari legato al business delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro all’anno. “Il caporalato – spiega Stefania Crogi, segretario generale Flai Cgil nazionale – è stato riconosciuto come reato penale solo nell’agosto 2011, ed è punibile con l’arresto da 5 a 8 anni. Prima era prevista solo una sanzione pecuniaria. Ma non sempre si riesce a provarlo, anche a causa delle difficoltà che incontrano le vittime nel denunciare. Serve un percorso di protezione”.
Amina è alla Caritas di Foggia. Ha fatto 50 chilometri a piedi per arrivarci. Ora è seduta davanti a Concetta e le chiede i soldi per l’autobus. Ma quando le chiedono di denunciare i suoi sfruttatori, finalmente alza lo sguardo dal pavimento, gli occhi scuri fissano quell’italiana che vorrebbe aiutarla. Forse pensa a suo figlio, e all’uomo che le ha rubato tutto quello che poteva. Si alza. E scappa via.
Ci manca il coraggio del camerunense Sagnet
di RAFFAELLA COSENTINO

ROMA – A pochi giorni dall’apertura dell’Expo le Ong del commercio etico di Norvegia e Danimarca hanno scritto al governo Renzi una lettera apertachiedendo di agire contro il caporalato ed esprimendo la preoccupazione dei consumatori dei loro paesi per l’illegalità che vige nel sistema di produzione agricolo italiano. Si rischia il boicottaggio dei prodotti italiani a causa dello sfruttamento dei braccianti, italiani e stranieri.
Dal 2011 il caporalato è un reato penale sulla carta. Ma si fatica ad applicare la legge, a vedere i caporali dietro le sbarre e a punire le aziende agricole che si servono di loro. I processi sono lunghi e dall’esito incerto. Questa mancanza di giustizia rafforza la tendenza all’assuefazione a un sistema di soprusi da parte dei lavoratori, soprattutto di quelli italiani.
Se il caporalato è diventato un reato penale lo si deve allo sciopero dei braccianti africani di Nardò che nell’estate del 2011 rifiutarono di obbedire all’ennesimo ordine del caporale che chiedeva un supplemento di lavoro sui pomodori per la stessa paga di 3 euro e 50 centesimi a cassone. Una protesta spontanea, guidata dal giovane camerunense Yvan Sagnet, oggi sindacalista in quelle stesse terre con la Flai Cgil e minacciato di morte per le sue denunce.
Il processo “Sabr” che vede Sagnet e altri braccianti testimoni al tribunale di Lecce contro imputati italiani e stranieri, accusati di essere i caporali e i mandanti dello sfruttamento, è ancora in corso.  La Regione Puglia e la Cgil si sono costituite parte civile, mentre il comune di Nardò ha rifiutato di farlo, una spia della difficoltà ad affrontare questo problema sul territorio.
“La protesta era sacrosanta perché le condizioni di lavoro degli stagionali non erano coerenti con le nostre leggi e neppure con i principi di civiltà”, ammette il sindaco e avvocato Marcello Risi. Secondo il primo cittadino però, grazie ai controlli degli ispettori del lavoro, il caporalato “si è di molto ridimensionato ed è diventato residuale”. Eppure basta andare d’estate a Nardò per vedere le tendopoli in cui alloggiano i migranti sfruttati e i ruderi in cui sono costretti a vivere gli altri, sottomessi ai caporali. “Non ci siamo costituiti parte civile perché il processo è fondato su intercettazioni e indagini effettuate quando il reato non esisteva”, spiega Risi. Insomma, sul territorio ci si aspetta che i datori di lavoro locali coinvolti nel processo, come i Latino, vengano assolti. Il Comune non si costituisce parte civile in un processo simbolo perché, afferma Risi, “per l’amministrazione comunale di Nardò la costituzione repubblicana è il simbolo più alto di tutti”.
Anche a Rosarno, cittadina calabrese teatro della famosa rivolta dei braccianti africani che nel 2010 si ribellarono alla ‘ndrangheta e allo schiavismo, le istituzioni non hanno pensato di costituirsi parte civile nel processo contro Antonio Pititto, condannato a 13 anni e 10 mesi di carcere in primo grado per avere ridotto in schiavitù il ghanese Joseph Biribi. Dopo essere fuggito durante gli scontri, Biribi ha denunciato il suo schiavista. L’unica a costituirsi parte civile è stata l’associazione anti-tratta abruzzese “On the road” che ha dato assistenza legale al bracciante. Biribi era costretto a vivere in un rudere distante diversi chilometri dal paese di Cessaniti (VV), insieme agli animali del ‘padrone’, senza bagno, energia elettrica e senza copertura, per cui quando pioveva lui dormiva sotto l’acqua. Lavorava con orari massacranti, sette giorni su sette, accudendo le pecore, raccogliendo arance e mandarini, con una paga pattuita di 20 euro al giorno in nero. Parte del lavoro non gli fu pagato e Pititto gli consegnò anche 100 euro falsi come salario. Biribi era costretto a lavarsi con l’acqua avanzata dall’abbeveraggio degli animali, gli era vietato usare la bombola del gas per scaldarsi. I giudici hanno stabilito che c’è stato sfruttamento mediante violenza, inganno e approfittandosi della situazione di necessità del lavoratore.
Pititto arrivò a picchiare e ferire Biribi con un pezzo di legno in testa perché non obbediva al suo ordine di gettare via il cellulare che squillava durante il lavoro e che era il suo unico mezzo di collegamento con il resto del mondo. Dopo due anni, quando le forze dell’ordine andarono a fare accertamenti sul datore di lavoro calabrese, trovarono altri lavoratori stranieri segregati nello stesso rudere e ridotti alla fame, costretti  a mangiare gli avanzi dei cani di Pititto. Il processo di appello è previsto per il 9 giugno in Corte d’Assise d’Appello a Reggio Calabria.
Il ruolo ambiguo delle agenzie interinali
di RAFFAELLA COSENTINO

ROMA – “Il nome Quanta l’ho letto solo sulle buste paga e sui Cud che arrivano a casa. Ma io non mi sono mai rivolta all’agenzia interinale, lavoravo sempre e solo con il solito caporale”. È la testimonianza di Maria, lavoratrice di Brindisi impiegata nelle raccolte agricole stagionali attraverso l’agenzia interinale Quanta di Rutigliano, in provincia di Bari. Sono migliaia le storie come la sua. Per mascherare di legalità il caporalato, l’intermediazione illecita avveniva usando la filiale barese di un’importante agenzia di somministrazione del lavoro. “Non solo l’uso di caporali ma anche falsi part time, sottosalario ed evasione – spiega il segretario della Flai Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis – Abbiamo fatto le segnalazioni ai carabinieri e all’Inps e sono scattate le ispezioni e le sanzioni”.
Quanta ha azzerato il gruppo dirigente locale e ha avuto penali di “centinaia di migliaia di euro”. Il 23 aprile ha firmato un protocollo d’intesa con i sindacati (Cgil, Cisl e Uil) per contrastare il caporalato. Nel documento c’è scritto che si ricorrerà a liste di prenotazione e che “sarà garantito gratuitamente e secondo quanto previsto da contratto, il trasporto per il raggiungimento del posto di lavoro”.
Vincenzo Mattina, vice presidente del gruppo Quanta, ex sindacalista ed ex parlamentare italiano ed europeo con i socialisti, conferma che la filiale di Rutigliano è stata “commissariata” e che le sanzioni dall’Inps sono state pari a “parecchie centinaia di migliaia di euro”. A suo avviso la responsabilità è interamente dei due ex responsabili della sede barese che sono stati licenziati. Il vice presidente li definisce “dipendenti infedeli” che hanno avuto “comportamenti anomali”. “Non avevamo nessuna percezione che potessero essere usati caporali”, spiega Mattina elencando le contromisure prese dal gruppo: filiale commissariata, ravvedimento all’Inps, pagamento delle sanzioni, regolarizzazione dei lavoratori che avevano avuto trattamenti inadeguati, esclusione dai clienti delle aziende colluse con i dipendenti infedeli, accordo con i sindacati per una condotta legale.
“Questi due dipendenti – precisa ancora il vice presidente di Quanta – per semplificarsi la vita si facevano fare le squadre dai caporali, non posso definirli altrimenti, invece la nostra presenza doveva servire a regolarizzare situazioni off limits”. “Da questa vicenda abbiamo avuto solo danni  – continua Mattina – delle migliaia di lavoratori coinvolti, nessuno ci aveva segnalato una qualsiasi anomalia e forse questo ha determinato una falla nei nostri sistemi di controllo. Si è scoperto che i caporali sono proprietari di pullman, ma per questo devono avere delle autorizzazioni, è strano che queste persone siano tutte immacolate e abbiano potuto avere le licenze”.

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