di Fulvio Colucci TARANTO - La cassa integrazione all’Ilva ha il volto di Franco Conte, tarantino di 45 anni, moglie e due figli, un mutuo da pagare bloccato in banca; da ieri mattina alle 5,30 in sciopero della fame davanti alla portineria A dello stabilimento siderurgico. Conte porta sulle spalle il peso di 25 anni dentro la fabbrica: prima operaio di una ditta dell’appalto nell’area “a caldo”; poi, dal 2004, dipendente diretto del Gruppo Riva. Il lavoratore ha scelto una forma di protesta non inedita: lo sciopero della fame fu proclamato anche dai precari Ilva nel 2010. Da allora, però, di acqua, sotto i ponti, ne è passata. Basta leggere uno dei due cartelloni «fai da te» sui quali Conte spiega, per iscritto, le ragioni della protesta; basta leggere l’ordine in cui pone i diritti per i quali rivendicare «tutela» ai sindacati: prima «la salute» e poi «il lavoro». «Siamo 750 i cassintegrati in deroga per i quali - racconta l’operaio del reparto laminatoio a freddo - l’ammortizzatore sociale è diventato un miraggio. Lavoriamo a singhiozzo dal 2008. Abbiamo consumato le ferie. La cassa integrazione è scattata, ufficialmente, il 13 dicembre». L’ammortizzatore sociale, però, non è stato finanziato dalla Regione. L’Ilva paga permessi retribuiti. Del futuro nessuna certezza. I dipendenti in cassa integrazione sono 2mila 600, ma si attende una nuova ondata. Tutto dipenderà dall’esito dello scontro con la magistratura sul dissequestro dei prodotti bloccati il 26 novembre scorso dai giudici che indagano sul reato di disastro ambientale. Se il milione e 700mila tonnellate d’acciaio rimarrà sotto sequestro è quasi certo che il Gruppo Riva ricorra - lo ha già detto il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante - alla cassa integrazione per 8mila lavoratori negli stabilimenti di Taranto, Genova e Novi Ligure. A motivarla la scarsa liquidità finanziaria. |
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