Ilva, niente archistar per i parchi minerali |
di Mimmo Mazza TARANTO - Visti con l'occhio elettronico di Google Earth, il sistema satellitare utilizzato dal più noto motore di ricerca per rendere tutti i posti della terra a portata di mouse, paiono un enorme buco, una immagine che rappresenta una porzione di Marte piuttosto che 78 ettari posti a ridosso del rione Tamburi. I parchi minerali dell'Ilva da anni sono fonte di pericoli per la salute di quanti hanno la sventura di abitarci a poche centinaia di metri, divenendo vittima di vere e proprie bufere di polvere in occasione delle giornate con vento di tramontana, ora ribatezzate wind day dall'Arpa, segno che non si trattava di una invenzione dei residenti alle case parcheggio. E da anni e anni procurano all'Ilva, a proprietari e dirigenti, condanne per quello che il codice penale e tante sentenze, ormai, definiscono il continuo e costante getto pericoloso di cose. La copertura dei parchi minerali dell’acciaieria più grande d’Europa era stata prevista già nell’Autorizzazione integrata ambientale rilasciata all’Ilva il 4 agosto del 2011, senza che però nessuno degli enti competenti si sia preoccupato di verificare se quell'Aia fosse rispettata o meno. Nella nuova autorizzazione integrata ambientale rilasciata al gruppo Riva nell'ottobre del 2012 la copertura dei parchi primari è la prima prescrizione e va rispettata entro 36 mesi dal rilascio del provvedimento, ovvero entro l'ottobre del 2015, con un investimento stimato in 6-700 milioni di euro. Nell'ultima relazione presentata all'Ispra, al ministero per l'Ambiente e al Garante dell'Aia, l'Ilva ha comunicato che «con nota del 26 aprile 2013 sono stati trasmessi quattro progetti possibili per la realizzazione della completa copertura dei parchi redatti dalle società, Paul Wurth, Cimolai, Semat e Anmar», allegando «una relazione contenente le indicazioni relative ai terreni interessati dall’intervento». In realtà il gruppo ha chiesto già a gennaio al Comune di Taranto il permesso a costruire al Suap (Sportello unico attività produttive) diretto dal funzionario comunale Marcello Vuozzo, utilizzando modalità peraltro oggetto di contestazione da parte dell’associazione «Impatto zero» in quanto non sarebbero state rispettate le procedure previste. Alla fine del 2012 erano arrivati nello stabilimento Ilva i tecnici del gruppo Paul Wurth, accompagnati dal vicepresidente del gruppo in Italia, Fabio Fabiola, per studiare il progetto di fattibilità della copertura dei parchi minerali. Aspetti burocratici-amministrativi a parte, la copertura dei parchi minerali oltre a rappresentare l'adempimento di una delle più importanti e ambientalmente rilevati prescrizioni comprese nell'Aia, poteva costituire anche un segnale dell'azienda, del gruppo Riva, verso la città di Taranto tanto che il presidente Bruno Ferrante, dopo aver compreso che proprio sui parchi minerali e sugli effetti che hanno sulla popolazione tarantini, si giocava parte importante della battaglia giudiziaria, cominciò a pensare di dover ricorrere ad un archi-star, ad un progettista famoso in grado di realizzare un progetto non solo funzionale ma anche di richiamo. Iniziarono a circolare anche alcuni nomi: lo spagnolo Santiago Calatrava, l'italiano Renzo Piano, il britannico Norman Foster, l’olandese Rem Koolhaas. L'azienda iniziò a contattare alcuni affermati studi italiani, sollecitando proposte e soluzioni. Molto bella, ambientalmente sostenibile e assai simbolica, fu - come la Gazzetta è in grado di rivelare - la proposta presentata dall'Atelier dell'Architettura e dallo studio Zoppini associati di Milano. Con il gruppo guidato dall'architetto Alessandro Zoppini ci furono degli incontri a Taranto, alla presenza dell'allora direttore dello stabilimento Adolfo Buffo, e si arrivò ad una fase avanzata, tanto che fu chiesto dall'Ilva di esplicitare la proposta graficamente da presentare eventualmente alle istituzioni competenti. Lo Studio Zoppini Associati e l'Atelier di Architettura, in collaborazione con lo studio Wilkinsoneyre di Londra, non si tirarono indietro ed elaborarono una copertura che prevedeva un parco sul parco, un parco della ricerca sostenibile realizzato sulla copertura del parco minerali, una struttura, nella quale avrebbero potuto essere collocati impianti eolici e fotovoltaici. Tale copertura avrebbe anche favorito il problema del recupero dell'acqua piovana (aspetto tecnico che su una copertura così estesa rappresenta un problema enorme), zone dedicate alle biodiversità autoctone, raccordata direttamente con il quartiere Tamburi. Un grande parco urbano (grande perché l'area dei parchi minerali dell’Ilva occupa lo stesso spazio di Villa Borghese a Roma) dove ora c'è polvere rossa e desolazione. Quel progetto, che segnava un vero spartiacque col passato è però rimasto senza alcun seguito, perché poi l'Ilva ha scelto un'altra strada. Quella della copertura classica, con quattro arcate, almeno a guardare il disegno presentato dalla Paul Wurth, senza alcun segnale ambientale e architettonico nei confronti della città. Una scelta sicuramente legittima (anche se i costi maggiori derivante da una soluzione come quella del parco sul parco sono trascurabili rispetto all'importo globale per le opere richiesta dall'Aia), una ulteriore occasione persa per unire e rinsaldare due realtà – la grande fabbrica e la città dei due mari – così vicine, così distanti. Ammenocché chi dovrà esaminare il progetto non decida di chiedere all’Ilva uno sforzo in tal senso. |
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