Un articolo che condividiamo |
La campagna pubblicitaria "cancella" la città-fabbrica: un errore
di OSCAR IARUSSI «Questa è Taranto». Ed è sottolineato due volte in rosso «questa». L’annuncio orgoglioso e festoso campeggia sulle fotografie e nel video di una campagna pubblicitaria della Regione Puglia, appena varata dall’assessorato e dall’ente che si occupano di turismo. Le immagini propongono spiagge «caraibiche » con un giovanotto disteso al sole come un naufrago felice, un’allegra tavolata nei pressi di un trullo, passeggiate assolate nella città dei due mari... Ogni volta una chiosa specifica: «Il mare che non ti aspetti», «La natura che non ti aspetti», «La città che non ti aspetti». L’obiettivo dichiarato, in vista dell’estate e con il consueto ricorso agli anglicismi della comunicazione istituzionale, è quello «di lanciare il territorio di Taranto quale prodotto del brand of experience Puglia, nella situazione di crisi generata nell’a re n a mediatica dalla controversa vicenda della vicina Ilva». Invero, l’Ilva è talmente «vicina » da non scorgersi affatto in tali fotografie. Forse committenza e comunicatori la pensano come Il Piccolo Principe: «L’essenziale è invisibile agli occhi». O forse, più prosaicamente, s’è ritenuto che le ciminiere e i fumi, ma anche l’Arsenale, i cantieri marittimi, gli operai, insomma i segni e le facce della città-fabbrica dell’ac - ciaio e delle navi che costituiscono l’essenza stessa di Taranto non dovessero essere esibiti per non turbare il turista. N aturalmente, gli scorci ionici mostrati nelle fotografie sono tutti veritieri e per i tarantini come per molti pugliesi tutt’altro che «inaspettati». E naturalmente, almeno immaginiamo, la campagna è destinata a colpire l’attenzione del potenziale turista proveniente da altre regioni e nazioni, per stemperarne l’eventuale suggestione negativa causata dalle cronache riguardanti l’Ilva (che nel frattempo non si placano sul versante giudiziario). Ma, ecco il punto, non si può scontornare l’Ilva dal paesaggio, dalla cultura, dall’antropologia di Taranto, non meno di quanto la si possa eliminare dalla storia, dalla economia, dalla società tarantine. Le politiche per il turismo sono una funzione pubblica, non finzione pubblica. È singolare che questa rimozione e l’approdo all’«ultima spiaggia» si concepiscano nella Puglia «meridiana » la cui immagine frontaliera, traumatica, innovativa, coraggiosa corrispose una decina di anni fa a una nuova stagione di governo e contribuì a determinarla. L’icona della «Vlora» con i ventimila albanesi giunti nel 1991 nel porto di Bari non fu ritagliata e scartata in favore del pur fascinoso lungomare del capoluogo. Anzi, divenne un nostro simbolo nel mondo. Parimenti l’Ilva non è «vicina» a Taranto, è dentro Taranto, è Taranto quanto il ponte girevole, quanto l’Arsenale, quanto l’isola della città vecchia, quanto la Villa Peripato: la include e ne è inclusa; bisogna ingegnarsi per trovare una visuale che non la mostri. Nell’ormai nutrita letteratura e saggistica sul caso-Taranto, le riflessioni più recenti, nelle librerie in questi giorni, si possono leggere in Fumo sulla città di Alessandro Leogrande (Fandango ed.) e nel capitolo sui «Mezzogiorni» di Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi di Aldo Bonomi (Einaudi ed.). Il primo così conclude il suo reportage: «Il rapporto tra il lavoro, l’industria, la città, il suo territorio, la vita di ogni singolo uomo, di ogni singola donna, di ogni singolo bambino, la salute mentale e fisica di chi è operaio e di chi operaio non è, può trovare un punto di equilibrio solo all’interno di un’alchimia molto complessa. La lotta contro lo stagno inizia da qui...». Il secondo non lesina elogi alla Puglia contraddistintasi negli ultimi anni «per coscienza di luogo» e «tracce di sviluppo dolce » grazie al mix di turismo e cultura. Nelle stesse pagine Bonomi ammonisce: «Occorre non cedere alla tentazione di pensare che ciò che si perde con la deindustrializzazione possa essere recuperato con una riedizione meridionale delle Langhe di Slow Food. Non si può pensare che azzerando la storia industriale del Mezzogiorno si recuperi occupazione nel turismo e nella creatività. Oggi, di fronte al caso Fiat e al dramma dell’Ilva, è forse il caso che si torni a ragionare sulle strade che possono essere percorse per rendere compatibili l’industria del Mezzogiorno e la metamorfosi della green economy». Entrambi gli autori ribadiscono la complessità della questione Taranto: un groviglio che nessun Alessandro potrà recidere come il nodo gordiano, una metafora di tutto il Sud, nonché, diremmo, di una condizione umana e sociale molto più larga. Taranto muore e vive di un dilemma della globalizzazione e della necessità di superarlo facendo coesistere sviluppo e lavoro con ambiente e salute. Finora sono stati intesi come elementi alternativi, a mo’ di maschere di una tragedia greca irriducibili l’una all’altra, espressioni di un maleficio: «scegliete se morire di fame o di veleni». Non più aut aut, bensì et et. Questo «sincretismo possibile», come lo definisce lo stesso Bonomi riponendo una speranza nel progetto di Taranto come smart area, ha dalla sua certamente il mare pulito, le verdi colline, la cultura del passato con i magnifici ori (a che punto è il rilancio del museo archeologico?) e la convivialità, oltre agli arcaici riti religiosi. Purché non si faccia finta di niente sull’Ilva e sul resto, sapendo oltretutto che il turista quell’acqua cristallina potrà trovarla anche in altre zone dell’Italia, mentre soltanto qui può conoscere l’unicità di una città magnifica la cui crisi parla del futuro di tutti. Come a Itaca, qui nessuno è straniero. Questa è Taranto. |
Nessun commento:
Posta un commento