Diagnosi tardiva di tumore, operaio ex Ilva curato con fermenti lattici: la chiamata per l'intervento arriva dopo due anni, ma lui è già morto
Antonio S., 45 anni, si è spento a febbraio 2024. Pochi giorni fa Cristina, sua moglie, mamma di due figli, riceve una telefonata dall'ospedale, e ha deciso di raccontare questa storia assurda e dolorosa a TarantoToday

TARANTO - Un tumore curato con i fermenti lattici. È solo l’inizio di una storia dolorosa, assurda, finita in tragedia. Cristina, una donna tarantina di 35 anni e mamma di due figli, decide di raccontare tutto a Taranto Today
Sotto accusa c'è il sistema sanitario in Puglia, la diagnosi tardiva, le liste d'attesa infinite. Qualcosa non ha funzionato: "Solo per le visite, in un anno, abbiamo speso 2mila euro", racconta con rabbia Cristina.
"Tutte visite intramoenia, riuscite a prenotare solo grazie a conoscenze. Altrimenti nemmeno quelle avremmo potuto fare. Ma come si fa a curare un tumore con i fermenti lattici? Come si fa a prenotare un intervento salvavita e sentirsi rispondere: 'Questo lo possiamo fare tra due anni'? Questo è il nostro sistema sanitario".
Pochi giorni fa, per di più, è arrivata un'altra mazzata atroce: "Ero incredula. Per un attimo ho pensato fosse uno scherzo. Dall’ospedale mi hanno chiamato per avvisarmi che l’intervento di mio marito poteva essere effettuato. Ma mio marito è morto lo scorso anno. E quell’intervento doveva essere fatto nel 2023. Mi hanno chiamata nel 2025".
Cristina fa una pausa, prende fiato, poi continua con gli occhi lucidi: "Gli ho detto: ‘Ma quale intervento, scusi?’. Dall’altra parte del telefono mi hanno risposto: ‘Quello per il signor Antonio S. Avete risolto?’. Io ho detto: ‘Guardi, mio marito non ha più bisogno di quell’intervento, grazie’. E l’operatore: ‘Signora, quindi ha risolto! Meglio così’. ‘Sì, certo. Mio marito è morto nel 2024’".
Un calvario iniziato con una cura sbagliata
Antonio S., 45 anni, operaio dell’ex Ilva, ha iniziato il suo calvario molto prima, nel 2023, quando ha iniziato ad avvertire forti dolori allo stomaco. Il medico curante, senza visitarlo, gli ha prescritto fermenti lattici.
"Sei mesi dopo abbiamo scoperto che aveva un tumore aggressivo al duodeno. Quei fermenti lattici, attenuando i sintomi, hanno solo ritardato la diagnosi. Se fosse stato visitato seriamente, sarebbe bastata una palpazione per capire che c’era qualcosa che non andava", spiega Cristina.
A marzo 2023, dopo mesi di dolori, Antonio si sottopone a un'ecografia addominale. L’esito lascia pochi dubbi: serve una TAC con contrasto. Viene eseguita in una struttura della provincia di Taranto, in regime di intramoenia."Già dal referto si capiva che c’era qualcosa di grave. Ma il medico ci disse che loro non trattavano linfomi e che dovevamo rivolgerci a un ematologo a Taranto. Senza ulteriori spiegazioni. Senza aiutarci. Solo un ‘non è di nostra competenza’. Ci siamo trovati soli, spaesati".
La stessa sera Cristina e Antonio si rivolgono a un ematologo privatamente che, intuendo la gravità del caso, li riceve in casa e li mette di fronte alla realtà: "Ti hanno detto che è un linfoma? Ma che tipo di linfoma? Che cellule? Senza una biopsia non sappiamo nulla. Ti hanno rimandato a casa senza una diagnosi completa", ricorda Cristina.
L’ematologo indirizza la coppia a un radiologo interventistico, che dovrebbe prelevare un campione per capire il tipo di tumore. Ma anche qui, un altro ostacolo. "Abbiamo pagato un'altra visita, ma il radiologo ha guardato la TAC e ci ha detto subito: ‘Io qui non posso fare niente. Serve un chirurgo’".
Cristina è costretta a cercare un altro specialista, pagando un’altra visita. "A quel punto siamo andati da un medico a Taranto. L’unico che non ci ha chiesto soldi. Mi ha detto: ‘Signora, non si preoccupi. Lunedì ricoveriamo suo marito’. Era il mercoledì della settimana prima".
Antonio viene ricoverato al Santissima Annunziata e sottoposto a un intervento chirurgico per prelevare un campione. Il problema, però, è già grave. "Il primo medico sapeva già che non si poteva entrare con un ago. Avrebbe potuto dircelo subito, risparmiandoci tempo prezioso. Invece ci hanno fatto perdere mesi".
La diagnosi definitiva arriva dopo due mesi di attesa: linfoma non Hodgkin a cellule T, un tumore raro e molto aggressivo. "La dottoressa che lo ha seguito al Moscati ci ha detto chiaramente che si trattava di un tumore ambientale. Mio marito lavorava all’Ilva. Lei mi disse: ‘Dopo di lui sono arrivati altri dieci pazienti con lo stesso tumore’".
Antonio inizia la chemioterapia. La speranza si alterna alla paura, mentre il tempo scorre inesorabile. Dopo 12 mesi di cure devastanti, il suo corpo non regge più.
L’ultima beffa: la chiamata dell’ospedale
Un anno dopo la sua morte, arriva la telefonata dalla prima struttura ospedaliera nella quale si era recato. "Mi chiamano e mi dicono: ‘Suo marito è in lista per un intervento’. Ho pensato a uno scherzo. Ho risposto: ‘Mio marito è morto da un anno. Mi state chiamando dopo due anni per operarlo?’. L’operatrice non sapeva cosa dire".
Antonio era stato messo in lista per un intervento che aveva già fatto privatamente, a pagamento. "La cosa assurda è che il medico che ci aveva detto che non poteva fare nulla è lo stesso che poi lo ha messo in lista. Dopo due anni. Se avessimo aspettato il servizio sanitario, mio marito non avrebbe mai avuto una diagnosi in tempo."
Malasanità e dignità calpestata
"Se ci mettono due anni a chiamare una persona per un tumore, cosa dobbiamo aspettarci? È questa la nostra sanità? Io ho pagato due chirurghi perché con l’ASL non ci sarebbe stato nulla da fare. Se non avessi avuto conoscenze, Antonio sarebbe morto senza nemmeno sapere di cosa".
Cristina però non dimentica il medico che aveva realmente compreso il caso: "A lui e al reparto di chirurgia devo almeno la dignità di aver fatto tutto il possibile. Ma per il resto? Abbiamo perso tempo, soldi, speranze. E alla fine ho perso mio marito".
"Dopo anni di convivenza 16 mesi fa ci siamo sposati, promettendoci amore eterno". Oggi è sola con due figli piccoli, e vuole giustizia: "Mio marito non lo riporta indietro nessuno. Ma qualcuno deve pagare per tutto questo. Perché non è solo la mia storia. È la storia di tanti".
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