Slai cobas per il sindacato di classe Taranto
WA 3519575628 - 31 luglio 2025
Slai cobas per il sindacato di classe Taranto
WA 3519575628 - 31 luglio 2025
Dall’India alla Palestina
contro genocidi, massacri e repressione da parte di imperialismo/sionismo/regimi fascisti, i popoli del mondo si stringono la mano, guerra di popolo di liberazione fino alla vittoria!
Oggi saremo al presidio conferenza stampa sotto il Comune indetto da #ComitatoNoDiscarica #IlvaisaKiller #Nodissalatore
Abbiamo espresso la nostra prima posizione classista e combattiva anticapitalista sui fatti in ORE 12 - attenta all’analisi concreta della situazione concreta - la riportiamo sotto.
E' chiaro che noi siamo d’accordo con il Comitato no discarica e no dissalatore - ma nessuna delle due questioni dipendono dal l’Ilva - su cui la nostra posizione resta:
Nocivo è il capitale non la fabbrica - piattaforma operaia e piattaforma ambientale contro padroni governo / partiti parlamentari / sindacalismo collaborazionista / istituzioni locali / autonomia operaia organizzazione lotta di classe rivoluzione. Alternativa all’ambientalismo piccolo borghese.
Slai cobas per il sindacato di classe
DA CONTROINFORMAZIONE ROSSOPERAIA ORE 12:
Noi ci battiamo perché ci sia una piattaforma dei lavoratori, con annessa piattaforma ambientale. Nell’attuale stadio del sistema capitalista e della crisi mondiale dell’acciaio, intorno al capezzale dell’Ilva si combatte una battaglia aperta e segreta.
Ma tutti questi processi di ristrutturazione, acquisizione, vengono di fatto scaricati sugli operai con licenziamenti, cassintegrazione, peggioramento delle condizioni di lavoro, mancanza di sicurezza e ricadute ambientali sul territorio.
Gli operai e i lavoratori non vogliono finire senza lavoro né in una cassintegrazione senza ritorno, né stare alla mercè di eventuali piani di ricollocazione dei lavoratori. Tutti i piani che in questa città sono falliti con la Belleli, con la Cementir. Quindi il punto fermo da cui noi intendiamo partire è che i lavoratori devono rimanere operai nella zona industriale, devono essere parte integrante del processo di eventuale riconversione, ambientalizzazione, senza diventare, dopo essere state vittime del sfruttamento, di morti sul lavoro, anche le vittime del processo di cambiamento della fabbrica.
Noi escludiamo che la chiusura della fabbrica risolva i problemi dei lavoratori e della salute e dell’ambiente in questa città. Riteniamo che siamo di fronte alla necessità di opporre alla produzione per il massimo profitto e allo scarico sui lavoratori e cittadini della crisi e ristrutturazione, la lotta dei lavoratori in coordinamento, unità con la lotta delle masse popolari della città.
La piattaforma operaia ha questo scopo. Dice no agli esuberi, no alla cassa integrazione permanente, dice è per l’utilizzo dei lavoratori, che non possono essere utilizzati nella produzione attualmente, nei lavori di ambientalizzazione e di bonifiche in fabbrica e nella zona industriale. Siamo perché ci sia durante tutto questo periodo una postazione ispettiva dentro la zona industriale che sia di deterrenza e di controllo effettivo di come procede tutta questa opera. Siamo perché ci sia un’integrazione salariale per operai delle Acciaierie e operai dell’appalto nei periodi di cassa integrazione. Siamo naturalmente per tutte le misure che possano alleggerire anche in forma di risarcimento i problemi occupazionali con le questioni dell’estensione dei benefici per i lavori usuranti e per l’amianto. Ne siamo stati i primi a rivendicarli, questa è l’unica voce esuberi che accettiamo all’interno di un piano generale che prevede l’occupazione di tutti i lavoratori nella zona industriale nel processo di ambientalizzazione.
Questo processo di ambientalizzazione noi pensiamo che debba essere accelerato al massimo, anche se nelle mani dei capitalisti di Stato o privati che agiscono per il profitto in una situazione di guerra di mercato e di crisi non c’è da avere alcuna fiducia nel rispetto dei tempi da parte dei padroni e dei governi, in un sistema in cui i rapporti di forza vengono segnati dalla lotta di classe.
La piattaforma operaia è la soluzione per gli operai, ma deve essere anche la soluzione alla situazione della città.
Lo scambio, voluto dal governo a cui le istituzioni locali si prestano, a partire dal Comune, è da respingere. Le nuove opportunità lavorative che vengono poste nel cosiddetto Accordo di programma non devono essere per occupare gli esuberi del piano di ristrutturazione e di ridimensionamento delle Acciaierie, ma devono essere un’opportunità di lavoro alla grande massa dei lavoratori precari, dei giovani, delle donne, dei disoccupati della città.
Sulla questione ambientale noi riteniamo che bisogna fare una battaglia rigida rispetto alle fonti inquinanti e per ostacolare tutti i processi produttivi in questo tempo di ristrutturazione che possano appesantire il carico inquinante e sanitario della città. Questo riguarda tutta la questione Ilva, ma riguarda in altrettanta maniera altri insediamenti industriali che sono del territorio.
Una battaglia rigida che permetta la continuità della fabbrica, che noi riteniamo indispensabile, con la massima riduzione del danno - in un sistema capitalista in cui la logica del profitto e del taglio dei costi fa sì che nessuna attività del capitale sia “pulita”.
In tutto questo contesto, la canea che si è creata intorno alla mobilitazione degli ambientalisti, giusta e necessaria, ha trovato questo “incidente di percorso” dal punto di vista del governo e delle stesse istituzioni, rappresentato dalla contestazione forte e combattiva che si è manifestata nella giornata di lunedì 28/7. Una contestazione assolutamente legittima che con slogan, interventi, ecc. voleva far sentire forte il proprio punto di vista, soprattutto di quelle parti di popolazione, di cittadini che si sentono più o meno rappresentati dalle associazioni che incontravano nello stesso tempo il sindaco.
Quindi non c’era da fare scandalo per la contestazione. Le istituzioni si assumono le loro responsabilità, nel dire i loro sì e i loro no, i proletari e le masse li contestano per cercare di far cambiare le loro decisioni. E’ una dialettica che deve essere riconosciuta, e invece è proprio la reazione isterica allo sviluppo di questa dialettica che dimostra che non si vuole riconoscere.
Il sindaco non può alzarsi e dire ho affari privati da risolvere e me ne vado. Non può farlo in un incontro pubblico con una parte fortemente critica nei confronti della scelta ambigua del Comune sull’Accordo di programma. E’ mancanza di rispetto verso coloro che stavano sia sopra che in piazza. Invece si è scelta la soluzione peggiore, prima di interrompere la riunione, poi di reagire in maniera arrogante alla contestazione.
Per non dire di peggio se si trattasse di una manovra politica per defilarsi, per nascondere le proprie responsabilità o di una manovra ricattatoria, tattica per permettere comunque di far passare l’Accordo di programma. Le responsabilità della giornata del 28 ricadono sul sindaco. Le sua dimissioni sono un sottrarsi alle responsabilità e acutizzare le contraddizioni.
Quindi respingiamo ogni tentativo fatto dalla stampa, dal coacervo di partiti, di cui si distingue come sempre il PD, che criminalizzano, parlano di violenze, parlano di aggressione fisica e cose di questo genere. Non c’è stato nulla di tutto questo, se non le espressioni di rabbia. Chi giudica chi poi, quelli che fanno ogni giorno violenza ai diritti dei lavoratori e delle masse popolari della città? Quindi bisogna continuare a lottare.
Detto questo, questa battaglia in corso a Taranto non è possibile senza un ruolo determinante dei lavoratori che tutelino lavoro, salute e sicurezza per sé e per tutti i soggetti della città.
Le “soluzioni” che sono al Tavolo e che si vogliono far passare tamburo battente non rispondono agli interessi dei lavoratori. In parte questo lo hanno detto durante le assemblee, in parte no, perché tutti i sindacati in Ilva collaborazionisti non vogliono parlare di piani concreti dal punto di vista degli interessi di classe.
La battaglia è in corso. Non c’è nessun ultimatum che va accettato, all’interno chiaramente di rapporti di forza in una situazione di una fabbrica che resta nelle mani del capitalismo. Rafforziamo la piattaforma operaia, sviluppiamo gli elementi della piattaforma ambientale che possono permettere di contrastare i piani del governo, dei futuri padroni e delle Istituzioni locali.
Questa è la posizione dello Slai Cobas e su questo continueremo nei prossimi giorni a lavorare, innanzitutto verso gli operai, e nello stesso tempo difendendo ogni attacco alla libertà di manifestare, alla libertà di opinione, alla necessaria battaglia che in questa città è indispensabile per difendere il lavoro dei lavoratori e l’ambiente e la salute dei proletari e delle masse.
Ci sono giunti vari commenti sull'iniziativa Palestina di sabato, in generale di denuncia del divieto (poi in qualche modo aggirato) del corteo e del film in piazza Immacolata.
Ne pubblichiamo due:
1° commento - Salve, sabato verso le ore 19 sono andato a piazza Immacolata e ho incrociato un corteo "evangelico" proprio dove doveva tenersi il vostro... In coda agli evangelici ho chiesto a un vigile urbano il perché, ma la sua risposta è stata candidamente che il vostro corteo era stato annullato....
Qui qualcuno ha abusato del suo ruolo istituzionale, come è possibile che due cortei che nulla hanno in comune abbiano avuto la stessa autorizzazione per lo stesso orario e le stesse strade? Perché il corteo Palestina è stato annullato?
Fra i Cobas e gli evangelici, chi ha chiesto per primo il permesso a fare la manifestazione?
Quali motivazioni sono state addotte per revocare il permesso?
In democrazia si possono fare favoritismi???
Chi è la persona fisica che si è presa la responsabilità di questa ingiustizia???
Se è vero che nella vita ci sono delle priorità, perché le ragioni della propaganda evangelica hanno prevalso sulle ragioni dello sterminio di un popolo, anche utilizzando il metodo più spregevole: la fame fino alla morte!!! ????...
2° commento - Forse non ve ne siete accorti ma quando eravamo in piazza Ramellini la gente radunata sulle panchine o in attesa degli autobus inveiva contro le forze dell'ordine... erano dalla nostra parte e questo è un ulteriore ottimo segnale.
Ai lavoratori liberi ovunque nel mondo,
Ai nostri compagni nei sindacati e nelle federazioni sindacali internazionali,
Vi trasmettiamo la dichiarazione dei lavoratori di Gaza, emessa dalla Federazione Generale Palestinese dei Sindacati, rivolta ai lavoratori e ai sindacati del mondo — un ultimo appello che hanno intitolato “Un grido prima della morte.”
Questo messaggio ci giunge nel mezzo della fame e dell’assedio, da sotto le macerie delle fabbriche e delle case, e dal cuore di una guerra di sterminio che va avanti da quasi 22 mesi, accompagnata da una politica sistematica di fame di massa attuata da “Israele” con il diretto sostegno degli Stati Uniti e dei suoi partner europei.
La dichiarazione recita:
> “La guerra israeliana ha distrutto l’80% delle case di Gaza, tutte le sue fabbriche, officine e fonti di sostentamento, e la maggior parte dei suoi terreni agricoli è stata rasa al suolo.”
Infatti, la vita dei lavoratori, pescatori, agricoltori e di tutti i settori produttivi della Striscia assediata è diventata un inferno vivente. Le loro famiglie sono ormai senza riparo e senza reddito. Non c’è cibo, né medicine. Un lavoratore afferma:
“Siamo assediati dalle armi americane ed europee, soffocati dalla fame, dall’abbandono e dal silenzio — tutto nel tentativo di distruggere le nostre vite, spezzare la nostra resilienza e annientare la volontà di resistenza del nostro popoloOggi ci rivolgiamo di nuovo a voi, non solo come vittime, ma come lavoratori della Palestina: parte integrante delle classi popolari e lavoratrici di questo mondo, in lotta per la giustizia, la liberazione e la dignità. E vi chiediamo di:
Spezzare il silenzio e la complicità, far sentire la vostra voce all’interno dei vostri sindacati e federazioni, e denunciare le politiche di fame, assedio e massacro a Gaza.
Fare pressione sui vostri governi affinché cessino gli accordi sulle armi e la cooperazione militare con l’occupazione, e impongano sanzioni al regime sionista coloniale di apartheid.
Boicottare le aziende che sostengono l’occupazione, e ritirare gli investimenti sindacali da qualsiasi impresa, istituzione o ente che finanzi o tragga profitto dalla guerra.
Organizzare giornate di rabbia e solidarietà globale nelle fabbriche e officine, nei porti e negli aeroporti, nelle strade e nelle piazze pubbliche, in sostegno della Palestina e del suo coraggioso popolo.
Ci rivolgiamo in particolare ai sindacati dei marittimi e dei portuali, esortandoli a rifiutarsi di caricare o scaricare navi “israeliane” o dirette verso porti sionisti, e a fermare ogni forma di cooperazione marittima o commerciale con gli strumenti di guerra e assedio. Le vostre mani forti e le vostre coscienze risvegliate sono capaci di fermare la macchina dello sterminio e bloccare le spedizioni di morte dirette in Palestina. Mostrate all’umanità intera la forza della classe lavoratrice in lotta, quando si unisce in difesa della giustizia e dei valori umani.
Da qui, salutiamo con orgoglio e gratitudine i nostri compagni, i lavoratori portuali in Grecia, per la loro posizione di principio e coraggiosa, e per il loro ruolo guida nel boicottaggio delle navi “israeliane” e nel rifiuto della complicità nei crimini di guerra. Salutiamo anche i sindacati in Norvegia, Spagna, Francia, Canada e altrove per il loro ruolo pionieristico nella solidarietà concreta con il nostro popolo attraverso il boicottaggio delle istituzioni dell’occupazione. Invitiamo tutti i sindacati del mondo a tagliare ogni legame con la cosiddetta “Histadrut”, l’organizzazione sionista che si presenta come sindacato ma partecipa all’assedio dei lavoratori palestinesi, giustifica il genocidio a Gaza, e opera come parte integrante dell’apparato dell’occupazione israeliana.
Compagni,
Quello che si sta perpetrando oggi a Gaza è un crimine di fame di massa sotto gli occhi del mondo intero: il suo scopo è quello di cacciarci e strapparci dalla nostra terra. Non si tratta solo di una guerra di sterminio fisico; è una serie di crimini che superano tutto ciò che è stato commesso dal nazismo e dal fascismo in Europa. È condotta con l’obiettivo di sottometterci distruggendo le stesse condizioni di vita e di dignità umana. Eppure, le classi popolari lavoratrici e i loro sindacati liberi nel mondo possiedono una storia, una forza e un coraggio sufficienti a sconfiggere queste politiche criminali — se uniscono le proprie forze e alzano la voce contro il colonialismo, il sionismo e la ferocia del capitalismo.
Vi promettiamo: Ricostruiremo di nuovo le università, le scuole, le istituzioni e le fabbriche di Gaza, come abbiamo sempre fatto dopo ogni guerra di distruzione americano-sionista. E continueremo a resistere, qualunque siano le difficoltà e le sfide.
Trasformiamo la rabbia in azione e la solidarietà in una presa di posizione concreta.
Spezziamo la politica della fame e alziamo la bandiera della lotta dei lavoratori per la giustizia —
Per una Palestina libera, dal fiume al mare.
Il Movimento Palestinese per un Percorso Rivoluzionario Alternativo (Masar Badil)
Un grido che rivolgiamo alla coscienza e alla dignità dei nostri compagni nei sindacati, per chiedere mobilitazione a favore dei bambini che non trovano né latte né pane, per le madri che non hanno più latte, per i malati che attendono la morte per fame, per gli anziani che temono di morire di stenti, e per i lavoratori che non trovano né lavoro né cibo.
Compagni liberi,
Da 22 mesi l’occupazione porta avanti l’uccisione di civili e la distruzione delle abitazioni — ha distrutto l’80% delle case di Gaza, tutte le sue fabbriche, raso al suolo la maggior parte delle terre agricole, e chiuso quasi tutte le fonti di sostentamento.
Stimati colleghi,
Abbiamo fiducia in voi, perciò rimboccatevi le maniche per rompere l’assedio su Gaza. Da voi ci aspettiamo un ruolo umano e morale per salvare Gaza da un blocco in cui l’occupazione criminale ha sigillato ogni finestra per l’ingresso di cibo, medicine e acqua al suo popolo.
Compagni dei sindacati,
Attendiamo il vostro intervento per far giungere il grido dei bambini e dei lavoratori di Gaza ai decisori politici e alle piazze. Voi siete i più adatti a portare questa responsabilità — sosteneteci, mobilitate le piazze, fermate gli accordi sulle armi che stanno uccidendo bambini, donne e lavoratori. Radunate simpatizzanti e sostenitori per rompere l’assedio su Gaza, e fate arrivare la vostra voce libera ai decisori.
Non c’è scusa per chi abbandona Gaza e il suo popolo, o per chi abbandona i lavoratori.
Gaza resterà testimone di chi ha risposto al grido dell’umanità e della libertà, e resterà simbolo per tutti i popoli liberi del mondo.
Invitiamo lavoratori e organizzazioni sindacali a contattarci via email: workers@masarbadil.org
Chi lo ha chiesto sono Prefettura e Questura, sollecitati anche da alcuni esponenti del Consiglio comunale, con una logica unicamente repressiva, allarmista da ordine pubblico. Il "pericolo" in questa città sarebbero le persone, gli operai.
Le decisioni conseguenti sono all'insegna del massimo di antidemocraticità e di burocratismo: 10/10/10 - al di là della loro rappresentanza effettiva, di quanti rappresenterebbero (se 20mila operai o alcune centinaia di cittadini). Poi deve intervenire uno per ogni gruppo (al di là se può parlare a fronte di posizioni differenti o anche contrastanti. per es. Arpa e rappresentanze imprenditoriali, ecc.).
La cosa oltre che da respingere, NON E' SERIA!
Taranto Giovedì 31 dalle 19.30 alla Casa del Popolo
Serata India
Video e materiali informativi proveniente dai compagni indiani del Partito Comunista dell?india (maoista)
Solidarietà internazionalista dall'India alla Palestina
I legami Italia/India e la condizione dei lavoratori indiani in Italia
Allegato il messaggio dei compagni palestinesi
Dichiarazione dell’Unione della gioventù democratica palestinese (PDYU)
Contro il genocidio e l’oppressione da Gaza alle foreste dell’India
L’ Unione della gioventù democratica palestinese (PDYU) condanna fermamente la brutale campagna di violenza e pulizia etnica che viene portata avanti con il nome di “Operazione Kagar” contro il popolo Adivasi in India. Con il pretesto della “controinsurrezione” e della lotta contro i movimenti maoisti, lo Stato indiano ha scatenato una devastante operazione militare che prende di mira sistematicamente le comunità indigene – distruzione di villaggi, spostamento forzato di famiglie, e messa a tacere delle voci che chiedono giustizia e dignità.
Riconosciamo in questi crimini la stessa logica di genocidio che si sviluppa sotto gli occhi del mondo a Gaza. Che siano bombe fatte piovere sui bambini palestinesi o i proiettili e i bulldozer che spianano le foreste ancestrali in India, il modello è lo stesso: colonialismo, avidità delle multinazionali, e violenza autoritaria che schiaccia i più poveri e i più marginalizzati per strappare loro terra e risorse.
La nostra lotta in Palestina contro l’occupazione e la cancellazione è profondamente connessa alla lotta del popolo Adivasi per proteggere la loro terra, cultura e modo di vita. Sia a Gaza che nelle foreste dell’India, intere popolazioni vengono criminalizzate semplicemente perché resistono al dominio e allo sfruttamento.
Facciamo appello alla gioventù, agli studenti e alle forze progressiste di tutto il mondo ad alzare le proprie voci contro questi genocidi, a solidarizzare con gli Adivasi, e a chiedere la fine immediata dell’Operazione Kagar. Allo stesso tempo, riaffermiamo il nostro incrollabile impegno per la causa palestinese e la liberazione di tutti i popoli oppressi che lottano per la giustizia e la dignità.
Da Gaza al Bastar, da Dheisheh a Dantewada – la solidarietà è la nostra arma.
Palestinian Democratic Youth Union (PDYU)
Unione della gioventù democratica palestinese
Liceo Ferraris di Taranto, la circolare che scuote le coscienze: il preside parla di genocidio a Gaza, richiama la storia e lancia agli studenti un appello contro la disuguaglianza e per i diritti umani
Una circolare diffusa dal Liceo Galileo Ferraris di Taranto, lo scorso 23 luglio 2025, accende il dibattito nelle scuole italiane in merito alla tragica situazione della Striscia di Gaza.
Il dirigente scolastico, Marco Dalbosco, indirizza un messaggio a tutta la comunità scolastica sollevando interrogativi profondi sulla drammatica escalation del conflitto in Medio Oriente.
Il documento, distribuito tramite i canali istituzionali del Liceo, pone al centro la questione della “cultura della disuguaglianza radicale” come matrice di ciò che viene qualificato senza esitazione come genocidio. Nella riflessione del preside, la guerra assume i contorni della “più nefanda delle condizioni umane”, e il valore delle vittime, in particolare quelle civili palestinesi, viene sottolineato come questione di giustizia sociale e consapevolezza storica.
La circolare si distingue per l’approfondita analisi storica e normativa fornita ai destinatari. Vengono citate le principali definizioni internazionali di genocidio, a partire dalla risoluzione 96 (I) delle Nazioni Unite del 1946, fino alla Convenzione ONU del 1948 e allo Statuto di Roma che ha istituito la Corte Penale Internazionale nel 1998.
Vengono elencate, inoltre, le gravi violazioni che costituiscono genocidio, secondo il diritto internazionale: dall’uccisione di membri del gruppo al trasferimento forzato dei minori, fino alla sottomissione a condizioni di vita insostenibili.
Il dirigente scolastico chiama in causa, tra gli esempi più eclatanti della storia, gli eccidi subiti da armeni, cambogiani, ruandesi, indigeni delle Americhe e popoli dell’Africa, sottolineando come il fenomeno sia stato purtroppo ricorrente nei secoli.
Nella parte finale della comunicazione, il dirigente invita docenti, studenti e genitori a non restare indifferenti davanti alla sofferenza di Gaza e, più in generale, a qualsiasi manifestazione di odio e razzismo. Viene chiesto con forza alla scuola di continuare a promuovere l’educazione all’uguaglianza sostanziale, individuata come antidoto essenziale contro il dilagare di derive disumanizzanti.
Sottolineato il valore della memoria e dell’azione educativa nell’evitare che l’“abissale cultura della disuguaglianza” si radichi nella società, Dalbosco richiama il ruolo attivo delle nuove generazioni: “Sapranno riconoscerla, sapremo riconoscerla?”. Con questa domanda si chiude una riflessione che mira a dare senso al compito istituzionale della scuola, ribadendo la centralità dei valori fondanti della Carta internazionale dei diritti umani nel contesto scolastico
MAXI ATTACCO GIUDIZIARIO A TORINO. GIU' LE MANI DA CHI LOTTA CONTRO GUERRA, GENOCIDIO E GOVERNO!
La Questura ricostruisce cortei, iniziative e manifestazioni svoltisi a Torino da ottobre 2023 fino alla manifestazione del 5 ottobre a Roma in un’ottica sovversiva e violenta piuttosto che in un contesto legittimo di rivendicazione sociale e politica, di contestazione e manifestazione del dissenso.
I fatti citati ed incriminati comprendono mobilitazioni ed eventi ampiamente partecipati come quello contro il genocidio in Palestina, denunciando la complicità delle istituzioni italiane, le collaborazioni strette tra università e un regime macchiato di sangue; presidi come quello davanti alla Rai, da tempo riconosciuta per la sua copertura parziale e faziosa delle notizie nonché la difesa di spazi universitari dall’ingresso di collettivi come il FUAN, dichiaratamente neofascisti, sfociata il 5 dicembre 2023 in cariche pesanti contro studenti, studentesse e docenti, così violente da aggredire anche una docente.
Le mobilitazioni a cui si fa riferimento sono, dunque, tutte legittime contestazioni collettive per rivendicare diritti, bisogni ed opporsi a ingiustizie sociali e pubbliche.
Questa linea accusatoria, però, non stupisce, considerato che la recente approvazione del DDl Sicurezza esprime proprio la filosofia securitaria, autoritaria e fortemente repressiva dell’attuale governo che l’ha varato.
Si associa il concetto di pericolosità sociale a chi esprime un dissenso, a chi manifesta per qualsiasi questione e ciò è un fatto molto grave perché il dissenso non è pericoloso, non attenta alla tranquillità pubblica né alla sicurezza pubblica. Se ogni dissenso venisse considerato pericoloso socialmente, dove andremo a finire? Il dissenso rappresenta invece il valore più alto della democrazia, ne incarna il suo aspetto essenziale, criminalizzare la contestazione quindi è un rischio molto grave e questa tendenza di emettere fogli di via, divieti di dimora, multare, sanzionare sono misure sproporzionate ed incongrue rispetto alle azioni che le persone raggiunte da queste misure hanno compiuto ovvero manifestare il proprio pensiero, esprimere le proprie idee, contestare e rivendicare legittimamente i propri diritti. Tutte azioni peraltro costituzionalmente garantite quindi trasformare la disobbedienza civile in qualcosa di illegale è molto preoccupante e uno stato che lo fa attraverso le misure di prevenzione e le misure cautelari è uno stato di polizia e non uno stato democratico.
* uno dei giovani inquisiti attivo nel movimento a Torino e figlio della compagna
Rispondiamo co i nostri corpi, le nostre voci, il nostro cuore all'appello della Resistenza palestinese.
Non ci si può chiamare compagna, femminista se non sentiamo nostre le lacerazioni delle nostre sorelle, dei bambini palestinesi, se non sosteniamo, diamo forza alla loro indomabile resistenza, pur di fronte a un genocidio così immane.
Ci si può solo rattristare di fronte alle immagini nelle televisioni di bambini, di corpi spezzati, mentre chiedono cibo, acqua, di ospedali bombardati? Si può solo scrivere in internet? NO! Bisogna scendere tutte in piazza! Elevare, estendere la mobilitazione, la lotta.
Un'azione particolare, importante la devono fare le lavoratrici. Non è possibile che in Italia le grandi organizzazioni sindacali non abbiamo assunto neanche mezza iniziativa, non abbiamo assunto alcuna iniziativa per la Palestina, non abbiano chiamato alla mobilitazione - neanche un'ora di fermata sui posti di lavoro a fronte di questo genocidio, deportazione di un intero popolo!
Si deve organizzare uno sciopero generale per la Palestina, contro gli imperialisti, in prima fila Trump, a sostegno dello stato nazi-sionista di Israele; contro il governo Meloni complice che fornisce armi ad Israele per uccidere bambini, donne, giovani palestinesi, mentre i padroni italiani, le imprese di Stato continuano a fare affari con Israele e nella zona.
Facciamo appello alle operaie, a tutte le lavoratrici a prendere posizione in ogni modo, a far "entrare la Palestina" sui posti di lavoro, a venire alle manifestazioni per la Palestina, a pretendere che i sindacati rompano il silenzio.
Lavoratrici Slai cobas per il sindacato di classe
Movimento femminista proletario rivoluzionario
Questo è assicurato solo dalla piattaforma operaia proposta dallo Slai cobas per il sindacato di classe e si ottiene in lotta reale nei confronti di padroni di stato o privati; contro il governo dei padroni Meloni/Urso e ogni governo dei padroni, le Istituzioni locali che non sono alleate e nè rappresentanti dei lavoratori e delle masse popolari tarantine; contro i sindacati collaborazionisti o le parti sindacali collaborazioniste con padroni, governo e politicanti locali.
Bisogna lottare - senza la lotta niente si può ottenere, con la lotta si può vincere, senza la lotta si è già perso - fino a risultati concreti e per tutto il tempo necessario
La registrazione completa dell'assemblea/interventi
https://drive.google.com/file/d/1JgWS2uxG_BdvZVErfV453ef3mtqWfMxm/view?usp=drivesdk
Info da parte dell'operaio dello Slai cobas - i punti del suo intervento e un suo commento sull'assemblea
Da Il fatto quotidiano
Il ministro ripropone la "autonoma valorizzazione" dello stabilimento ligure con il nuovo bando di gara. Al gruppo Marcegaglia interesserebbe perché vicino alla sua acciaieria di Fos-sur-MèrIl governo va verso la vendita a spezzatino dell’Ilva. E, in vista della riapertura del bando, il ministro Adolfo Urso ventila la possibilità che l’impianto di Genova possa essere messo su piazza da solo. Del resto, a quanto apprende Ilfattoquotidiano.it, non mancano imprenditori interessati, a iniziare da Marcegaglia Steel che già in passato aveva sondato l’acquisto di una parte dell’azienda. La possibilità che il ministero delle Imprese e del Made in Italy decida di scorporare la cessione di Genova dal complesso aziendale, slegando il futuro dello stabilimento ligure da quello pugliese, è emersa durante il question time di Urso alla Camera...
...Una mossa che sembra concretizzarsi e cambiare le carte in tavola, anche se nel nuovo bando – fondato sul piano di decarbonizzazione presentato ai sindacati, scritto dal commissario Nicola Quaranta insieme a Boston Consulting – potrebbe affacciarsi un nuovo gruppo internazionale che avrebbe già sondato il terreno.
“La previsione di un forno elettrico a Genova – ha spiegato Urso – consentirà autosufficienza industriale”... “costituirà un asset suscettibile anche di autonoma valorizzazione nell’ambito della gara” per la cessione di Ilva, che verrà aggiornata dopo l’eventuale firma dell’accordo di programma con gli enti locali, prevista il 31 luglio se si riuscirà a convincere il sindaco di Taranto Pietro Bitetti ad accettare la nave rigassificatrice...
Marcegaglia lo sfrutterebbe principalmente per la laminazione dell’acciaio che porterebbe via nave da Fos-sur-Mèr, nelle vicinanze di Marsiglia, dove un anno fa ha rilevato un’acciaieria da Ascometal e sta spingendo sulla verticalizzazione del business... Nella gara degli scorsi mesi e che ora verrò riaperta si è invece fatta avanti per rilevare due siti – si parlava proprio di quello genovese di Cornigliano e di Novi Ligure – ma il governo ha poi deciso di andare avanti con la vendita integrale degli impianti. Ora una nuova possibile marcia indietro e il ritorno in campo.
Chiediamo il più ampio movimento popolare in tutte le capitali e città del mondo venerdì, sabato e domenica per rompere l'assedio e porre fine alla carestia a Gaza.
Sit-in davanti alla Prefettura per denunciare il via libera all’Autorizzazione Integrata Ambientale, con l’opposizione compatta di Comune, Provincia e Regione. Cittadini e associazioni accusano il governo di ignorare la volontà del territorio e annunciano mobilitazioni permanenti.
TARANTO - Un grido di allarme si è levato da piazzetta Gandhi, nel cuore di Taranto, dove nella serata di ieri cittadini, associazioni e rappresentanze civiche si sono ritrovati per manifestare contro il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per lo stabilimento ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia. La protesta, organizzata dal movimento Giustizia per Taranto, si è svolta davanti alla Prefettura ed è stata l’occasione per lanciare un segnale forte e inequivocabile: la città rifiuta un modello industriale che continua a mettere a rischio la salute pubblica e l’ambiente.
«Non accettiamo un’AIA che continua a uccidere», è stato il messaggio scandito dai manifestanti, che hanno denunciato il rinnovo dell’autorizzazione da parte del governo nonostante il parere negativo espresso dal sindaco di Taranto, dal primo cittadino di Statte, dal presidente della Provincia e dal presidente della Regione Puglia.
Nel corso dell’iniziativa, il movimento ha ribadito la necessità di una presa di posizione netta da parte del consiglio comunale, che a breve sarà chiamato a discutere l’accordo di programma. L’invito rivolto ai consiglieri è di respingere ogni ipotesi di intesa che non preveda la dismissione definitiva degli impianti ritenuti inquinanti. Nessuna compensazione economica, secondo i promotori, può giustificare il proseguimento delle attività che minacciano la salute collettiva.
L’associazione promotrice ha tracciato un parallelo con quanto accaduto oltre 60 anni fa, quando fu decisa la costruzione della grande fabbrica: «Oggi come allora – affermano – Taranto è a un bivio. O si cambia davvero il destino della città o si diventa complici dell’ennesimo atto criminale».
Nel corso del sit-in è stata ufficialmente proclamata la dichiarazione di “stato di emergenza sanitaria e ambientale” per Taranto e i Comuni limitrofi, con effetto immediato e fino alla cessazione delle condizioni di rischio per la vita, la salute e l’ambiente. Una decisione condivisa da comitati civici, associazioni e cittadini, che hanno definito l’atto una forma di autodifesa collettiva, necessaria di fronte a scelte istituzionali considerate lesive dei diritti fondamentali.
Il comunicato diramato al termine della manifestazione mette in evidenza le criticità legate all’attuale assetto dello stabilimento siderurgico, sottolineando la presenza di “elevati livelli di rischio sanitario, ambientale ed ecosistemico”, già evidenziati da studi scientifici, rapporti epidemiologici, analisi condotte da Arpa e Ispra, nonché da pronunce della magistratura. Secondo quanto denunciato, l’impatto delle emissioni continua a colpire in modo grave la salute pubblica, soprattutto quella dei bambini e delle fasce più vulnerabili della popolazione.
Il documento accusa inoltre il governo di aver proceduto al rilascio dell’AIA ignorando la volontà delle comunità locali, alimentando così una “logica coloniale e predatoria” che sacrifica il benessere di un’intera popolazione in nome della continuità produttiva.
La dichiarazione sarà inviata alla Presidenza del Consiglio, ai ministeri competenti, alla Commissione Europea, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e all’Organizzazione delle Nazioni Unite. I promotori chiedono un’indagine internazionale indipendente, oltre all’attivazione di una mobilitazione permanente che prevede azioni di denuncia, monitoraggio civico, disobbedienza civile nonviolenta e partecipazione popolare continua.
Con questa iniziativa, Taranto ribadisce il suo rifiuto verso un sistema che da decenni – denunciano cittadini e attivisti – impone un prezzo insostenibile in termini di vite umane, salute e qualità ambientale. La protesta è appena cominciata
"I forni elettrici si devono fare soltanto garantendo a loro approvvigionamento di materia prima e approvvigionamento elettrico. Parlare di moltiplicazioni di forni elettrici senza garantire le condizioni di fattibilità e di alimentazione ai forni è molto rischioso per i forni elettrici che esistono già e che producono senza chiedere niente allo Stato 20 milioni di tonnellate e occupano 75.000 persone e sono un'eccellenza mondiale perché nessun paese al mondo produce l'85% dell'acciaio da forno elettrico e quindi decarbonizzato" così Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, a margine del convegno organizzato a Genova "Mediterraneo, le opportunità del piano Mattei per le imprese".
Il prossimi 4 agosto a Roma verrà presentato il piano di decarbonizzazione per l'ex Ilva che il governo ha messo a punto. Piano che prevede per Genova la realizzazione di un forno elettrico che segnerebbe il ritorno della produzione a caldo nello stabilimento di Cornigliano.
"La priorità assoluta è Taranto. Bisogna salvare Taranto, bisogna fare in modo che il processo di rilancio della siderurgia tarantina e di decarbonizzazione della siderurgia tarantina vada avanti - ha spiegato Gozzi-. Naturalmente sono investimenti enormi perché parliamo di 3,6 miliardi di investimenti e finora è finanziato uno per un miliardo. Parlare di tre forni elettrici a Taranto significa parlare di un altro miliardo e mezzo di investimenti. C'è un progetto a Piombino da 2 miliardi e mezzo che è la fotocopia di quello che dovrebbe venire a Genova. Bisogna fare un po' il punto della situazione, perché se sommiamo complessivamente tutti questi investimenti parliamo di 10 miliardi da investire in siderurgia e io francamente chi investe in Italia 10 miliardi sulla siderurgia lo devo ancora trovare"
Tra i temi caldi anche il consumo di energia elettrica. "I forni elettrici sono macchine che consumano una quantità gigantesca. Il forno elettrico attaccato alla rete esistente probabilmente è possibile. Naturalmente c'è un tema di costo di quell'energia elettrica. Non dimenticatevi che siamo il paese europeo in cui l'energia elettrica costa più di tutti. Allora io mi chiedo: 5 forni elettrici in Italia nel paese in cui l'energia elettrica è più cara di tutta Europa?" ha aggiunto il numero uno di Federacciai.
Da giornale di Taranto
EX ILVA-TARANTO/Usb: un piano per blindare posti di lavoro e gestire esuberi da decidere in fase di Accordo
“Ballano davvero molti posti di lavoro. Questo significa che va stilato un piano preciso che consenta di blindarli e di gestire eventuali esuberi ricollocandoli in altre realtà. Questo va deciso ora contestualmente all'accordo”. Lo ha detto oggi il sindacato Usb nell’audizione in Regione Puglia (commissione Ambiente presieduta da Michele Mazzarano) dedicata a valutare l’accordo di programma proposto dal Governo per decarbonizzare l’acciaieria di Taranto e sul quale é attesa nei prossimi giorni la risposta del Comune di Taranto. “Non è ammissibile - ha detto Vincenzo Mercurio di Usb - che si rimandi a dopo la definizione delle questioni sindacali. Noi saremo d'accordo solo nell'ambito del perimetro da noi tracciato con l’assorbimento degli eventuali esuberi in enti locali, Arsenale e Acquedotto Pugliese, ma anche con il riconoscimento del lavoro usurante e dell’incentivo all'esodo per coloro che ritengono di poter dare un contributo diverso all'economia locale”.
Chiedere queste "soluzioni" è accompagnare il governo a fare piani di migliaia di esuberi in Acciaierie e appalto.
Gli operai ex Ilva invece che impiegati nell'ambientalizzazione della fabbrica, nelle bonifiche dell'area industriale, dovrebbero andare a lavorare negli "Enti locali (Comune), nell'Arsenale, ACuedotto Pugliese" (qui ognuno si inventa ambiti in cui assorbire operai Ilva); togliendo posti di lavoro a disoccupati e prospettive di stabilizzazione ai tanti precari che ci sono negli Enti locali. Perchè mai?
Non solo, anche sugli incentivi all'esodo, perchè mai il governo dovrebbe dare soldi pubblici a chi va via dall'Ilva per pagargli aperture di bar, pizzerie, e via dicendo? mentre una qualsiasi persona non riceve alcun contributo.
QUESTE POSIZIONI FANNO IL GIOCO DEL GOVERNO E DEI NUOVI PADRONI!
Da fanpage
Una nuova norma al decreto Ilva, proposta dal relatore di Fratelli d’Italia, punta a restringere i tempi per far valere i crediti da lavoro, a limitare il diritto a una retribuzione dignitosa e a indebolire il ruolo della magistratura nel garantire la giustizia sociale.
L’articolo 9-bis riguarda "Termini di prescrizione e di decadenza in materia di crediti di lavoro e determinazione giudiziale della retribuzione dei lavoratori".
Al di là dei tecnicismi, significa scardinare due tutele fondamentali: la possibilità per i lavoratori di far valere i propri diritti senza temere ritorsioni durante il rapporto di lavoro e quella di ottenere in giudizio una paga dignitosa. In assenza di interventi sul salario minimo legale, affossati anche da questo governo, la prospettiva di portare davanti al giudice la propria busta paga, e di ottenere così una condanna al pagamento del giusto salario e delle differenze retributive, resta l'unico baluardo per chi viene sfruttato e sottopagato.
Anche questa tutela residua è troppo per la destra al governo, che intende anticipare la decorrenza della prescrizione, imporre nuovi obblighi giudiziali a pena decadenza e persino impedire ai tribunali di dare tutela in caso di retribuzioni troppo basse, limitando le ipotesi di intervento e addirittura vietando di condannare il datore di lavoro al pagamento degli arretrati, anche di fronte a una retribuzione insufficiente.
La proposta è potenzialmente incostituzionale e sicuramente dannosa per chi lavora: vediamo nel dettaglio perché.
Da quando decorre la prescrizione? Governo contro Cassazione
Il primo comma riguarda la prescrizione dei crediti da lavoro. Il termine di prescrizione è il tempo entro il quale si può far valere un diritto. Nel caso dei crediti da lavoro, come ad esempio retribuzioni non corrisposte o pagate solo parzialmente, il periodo è di cinque anni. Ma da quando decorre questo termine?
Corte di Cassazione e Corte Costituzionale hanno, negli anni, elaborato un’argomentazione molto logica: più il lavoro è stabile, più si presume che il lavoratore sia in grado di richiedere il rispetto dei suoi diritti. Quindi, per i dipendenti a cui si applicava l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella sua formulazione originaria, cioè quei lavoratori che, se ingiustamente licenziati, potevano fare causa per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, il periodo di prescrizione dei crediti iniziava dal momento in cui il credito sorgeva. Se un lavoratore non riceveva somme che gli sarebbero spettate, per far valere il suo diritto aveva cinque anni di tempo dal momento del mancato pagamento.
L’articolo 18, però, è stato prima modificato e depotenziato dalla riforma Fornero, poi accantonato dal Jobs act, con l’introduzione del cosiddetto contratto a tutele crescenti. Queste due riforme, in misura diversa, hanno ridotto la stabilità del lavoro, limitando le ipotesi di tutela reale, ossia di reintegrazione nel posto di lavoro.
La Cassazione ha quindi chiarito in più occasioni che, dopo queste riforme, con la progressiva compressione della tutela reintegratoria, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è più considerato stabile e il lavoratore può quindi non essere in grado di esercitare i propri diritti al meglio durante il rapporto professionale, per il timore di ritorsioni che lo porterebbero a perdere l'impiego. Per questo, la prescrizione per i crediti da lavoro non può più decorrere dal momento in cui sorgono i diritti, ma deve essere calcolata dal momento in cui termina il rapporto di lavoro.
Con un semplice comma, l’emendamento della destra al governo intende cancellare questa consolidata argomentazione giuridica, imponendo che la prescrizione quinquennale decorra già in costanza di rapporto, a prescindere dal timore (e dal rischio) di ritorsioni.
L’apparente illogicità dell’obbligo di far causa per ottenere i propri diritti
Non basta questo primo restringimento degli spazi di tutela: il secondo comma dell’emendamento Pogliese è pure peggio. La proposta prevede infatti l’obbligo, per il lavoratore che abbia interrotto la prescrizione del suo credito, di depositare un ricorso giudiziale entro 180 giorni, a pena decadenza. La decadenza significa la perdita di un diritto, che in questo caso è il diritto a un credito retributivo, cioè al denaro che sarebbe dovuto al dipendente per il lavoro che ha svolto.
Proviamo a chiarire con un esempio. Il lavoratore si accorge che non gli sono state pagate somme che gli spettano. Superando il timore di ritorsioni (visto che non ha più una tutela reale contro il licenziamento ingiustificato), invia una raccomandata al datore di lavoro, con la quale segnala la questione e richiede il pagamento dovuto. Se però entro sei mesi il lavoratore non fa causa, perde del tutto il diritto a ricevere quelle somme.
A prima vista, la norma sembra illogica: mentre da anni si cerca di ridurre il contenzioso giudiziario, qui si impone ai lavoratori di fare causa entro sei mesi, pena la perdita del diritto. Ma una logica c’è, ed è inquietante: scoraggiare le rivendicazioni, sapendo che nessuno si rivolgerebbe ai tribunali già intasati per cifre modeste, anche se dovute. E non si tratta soltanto di mancata tutela dei diritti, ma della loro cancellazione per legge, visto che l’assenza del ricorso giudiziario provoca la decadenza dal diritto del lavoratore.
L’attacco all’effettività della Costituzione: la presunzione di adeguatezza
Già quanto spiegato fin qui rappresenta una minaccia all'effettività dei diritti di chi lavora, come già denunciato da autorevoli giuslavoristi negli ultimi giorni, ma l'emendamento Pogliese non si ferma a prescrizione e decadenza. Il terzo comma del proposto articolo 9-bis arriva al punto di impedire ai giudici di dare tutela a chi è stato sottopagato.
In Italia, infatti, non esiste il salario minimo legale. O, meglio, non esiste una legge che preveda la paga minima, ma esiste l'articolo 36 della Costituzione che, al primo comma, recita:
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Questa garanzia costituzionale ha sopperito e sopperisce, pur in maniera limitata, all'assenza di una legge sul salario minimo e cerca di correggere anche quei contratti collettivi che non garantiscono una paga oraria dignitosa. Il lavoratore che ritiene di essere sottopagato può infatti ricorrere al giudice che, verificata l'inadeguatezza del salario, ridefinisce lo stipendio secondo equità, attuando il principio costituzionale, e condannando il datore di lavoro a pagare le differenze retributive.
La proposta del senatore di Fratelli d'Italia scardina proprio questo meccanismo di tutela costituzionale. Il terzo comma dell'emendamento prevede infatti che la retribuzione "si presume proporzionata e sufficiente ai sensi dell'articolo 36 della Costituzione". Questa presunzione può essere superata solo qualora "venga accertata la grave inadeguatezza dello standard retributivo", tenendo conto anche "dei livelli di produttività del lavoro" (un indicatore che tra l'altro riguarderebbe l'organizzazione dell'impresa, più che l'impegno dei dipendenti).
La nozione di "grave inadeguatezza" introduce un filtro tanto vago quanto arbitrario, che rischia di svuotare di efficacia l’articolo 36 della Costituzione. Il risultato è che molte retribuzioni basse, pur ingiuste, resteranno fuori da ogni correzione. È un cambio di paradigma pericoloso: il principio costituzionale diventa un’eccezione rara, da usare solo nei casi estremi. E anche in quei casi, il comma successivo taglia comunque la possibilità di ottenere davvero giustizia.
Gravemente inadeguato ma impunito: il divieto di condanna agli arretrati
Il quarto comma dell’emendamento completa il disegno: anche quando il giudice accerta che il salario è gravemente inadeguato, e ridefinisce quindi una retribuzione proporzionata e sufficiente, non può comunque condannare il datore di lavoro a pagare le differenze retributive pregresse, purché questi abbia applicato un contratto collettivo nazionale, territoriale o aziendale stipulato ai sensi dell’art. 51 del d.lgs. 81/2015.
Basta quindi un contratto aziendale per mettere in salvo ogni violazione passata del diritto a una retribuzione dignitosa. Il datore che per anni ha pagato meno del minimo costituzionale resterà comunque impunito, purché formalmente allineato a un contratto collettivo. Anche se la paga era gravemente inadeguata, anche se il giudice lo accerta, anche se il lavoratore ha regolarmente svolto l’attività: il risarcimento delle differenze retributive viene escluso per legge.
L’effetto è ancora più paradossale se si immagina una persona sfruttata che, concluso il rapporto di lavoro, si rivolga al giudice: non potrà ottenere nulla per il periodo già trascorso, neppure dopo un accertamento pieno. Se l’unica prospettiva è l’adeguamento del salario per il futuro (o, nella migliore delle ipotesi, dal momento della diffida in poi), fare causa diventa privo di senso: il lavoro già svolto, anche se sottopagato, resta senza stipendio dignitoso.
Tra retorica e fatti: a chi conviene la strategia dell'estrema destra sul lavoro
Un progetto simile, che condensa in quattro commi l'attacco alle tutele residue verso chi lavora, non è che una conferma della concezione che il governo Meloni ha del mondo del lavoro. Il rispetto dei diritti della classe lavoratrice non è una priorità di questa destra e i fatti di questi primi 1000 giorni di governo lo dimostrano: dall'affossamento delle proposte sul salario minimo alle bugie sulle assunzioni di nuovi ispettori del lavoro, dalla precettazione illegittima degli scioperi alle scelte retoriche di strumentalizzazione del Primo maggio, tutto concorre a una visione del lavoro e del diritto contraria a quel che prevede la nostra Costituzione socialdemocratica e antifascista.
L'attacco non riguarda soltanto chi lavora e intende rivendicare i propri diritti, ci sono altre due vittime di questo emendamento e di questa strategia politica: le imprese e la giurisprudenza.
Oltre ai lavoratori sfruttati, se passasse un emendamento simile, il danno riguarderebbe anche le imprese che non sfruttano. Un sistema che favorisce l’abuso, che limita la possibilità di rivendicare e tutelare i diritti, crea un mercato falsato e drogato: se la competitività si gioca sul costo del lavoro (cioè sulla povertà dei lavoratori), gli imprenditori che si rifiutano di diventare sfruttatori si trovano a competere in condizioni di palese concorrenza sleale, mentre chi sottopaga i dipendenti gode di una prospettiva di impunità.
Sullo sfondo continua poi l'attacco sistematico alla magistratura. L'emendamento Pogliese appare incostituzionale: nel metodo, perché introduce una norma disomogenea in sede di conversione del decreto Ilva; nel merito, perché è una proposta irragionevole e contraria a diritti costituzionalmente garantiti, su cui la giurisprudenza più autorevole ha ormai pacificamente pronunciato sentenze consolidate.
Ed è proprio questo il punto. Il sindacato giurisdizionale, la possibilità che la magistratura corregga quel che il mercato distorce, riportando diritti laddove c'è sfruttamento, è considerata un ostacolo da superare nella costruzione di un modello autoritario e centralizzato di gestione del potere. La proposta di legge, scavalcando le sentenze consolidate sulla tutela del salario minimo costituzionale e sui crediti retributivi, si inserisce in un disegno più ampio di riduzione dei contrappesi democratici.
Difficile non notare, in questo favore agli sfruttatori, il perseguimento dell'ulteriore obiettivo di limitare il ruolo di controllo della magistratura, riducendo la giustizia a un semplice strumento al servizio del governo e delle élite economiche. Privare i giudici della possibilità di garantire effettività ai diritti significa svuotare di contenuto l’articolo 36 della Costituzione, trasformando la legge in uno strumento di legittimazione dello sfruttamento anziché di tutela.