lunedì 14 luglio 2025

Nel libro "Ilva la tempesta perfetta" era dettagliatamente analizzato l'impero Riva - E poneva al centro la lotta di classe - Questo vale ancor di più oggi

 


Il libro - e la Introduzione ancora più vera e necessaria oggi
Un libro da riprendere e usare se si vuole capire e lottare
Il libro è richiedibile alle librerie Feltrinelli
Si può richiedere anche agli autori di
Taranto scrivendo a WA 3519575628 o
pcro.red@gmail.com

Alla fine della Introduzione viene scritto: 

"A Taranto non ci possono essere obiettivi inferiori ad una rivolta che veda uniti operai e masse popolari. Se lavoro e salute sono valori primari non bisogna fermarsi davanti a nulla, si devono tutelare anche con l’uso della forza proletaria e popolare. 
Lo scontro a Taranto è uno scontro epocale che riguarda tutti i siti inquinati. Ma questa battaglia non merita compassione o lamenti. Taranto è invece una grande opportunità  nel nostro paese per cambiare le cose. Ma per questo la battaglia principale è soprattutto nell’organizzare l’autonomia di classe, sindacale, di lotta, di organizzazione degli operai Ilva e Indotto. Solo la forza e la lotta delle migliaia di operai contro Riva, lo Stato e/o i nuovi padroni è la garanzia per gli operai e per le masse popolari dei quartieri che si strappino i massimi risultati sul fronte del risanamento ambientale, e che Taranto non finisca come una mega Bagnoli: senza lavoro e senza bonifica del territorio". 
Non è quello che servirebbe anche oggi contro governo/nuovi padroni e sindacati complici?

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Dall'Introduzione
Nel 2012 “scoppia” l’inchiesta della Magistratura nei confronti di Riva. Essa si fonda su una perizia estremamente accurata che mette sul tappeto il fatto che questa fabbrica sta provocando disastri ambientali, migliaia di morti di tumore, in particolare nel quartiere Tamburi, e che pone un aut-aut: così non può più continuare. L’inchiesta punta così direttamente a fermare gli impianti dell’Ilva perché considerati causa di morte sul territorio.
In questa inchiesta, però la fabbrica vera non c’è. La fabbrica è vista come un blocco compatto di operai, azienda, capi, quadri, tecnici, ecc., mentre dall’altra parte ci sarebbe la città violentata dall’attività dell’Ilva. La Magistratura di Taranto ha avuto il merito di inchiodare la natura omicida del sistema Riva, del suo sistema di comando, che hanno portato al degrado una situazione già preesistente (da 35 anni quando la fabbrica era a partecipazione statale) e, per l’aspetto dei morti e malati operai, anche peggiore. 
Ma anche per la magistratura gli operai sono fantasmi, si parla di impianti e non di operai. Vi è un primitivismo giuridico che fa diventare via via i problemi irrisolvibili e contribuisce ad acutizzare una contraddizione tra cittadini e lavoratori che hanno pagato il costo più alto in termini di salute.

La magistratura a Taranto negli anni passati in parte non aveva risposto alle denunce e alle mobilitazioni che ci sono state. Aveva fatto precedenti inchieste che potevano provocare altrettanti azioni dirompenti, per esempio l’inchiesta sui parchi minerali, sull’amianto che aveva abbracciato l’intero ciclo dell’Ilva chiamando in correità tutti i dirigenti dell’Ilva per 30 anni, ma queste inchieste non avevano trovato intensità, chi si è costituito parte civile è rimasto deluso, la magistratura aveva sollevato dei macigni e poi nulla. 

Questa impostazione della magistratura, creando di fatto un conflitto tra l’esistenza stessa di questa fabbrica e il resto, è immediatamente sposata dagli ambientalisti locali impegnati da tempo su questo terreno, alcuni conosciuti e apprezzabili, in particolare Marescotti di Peace Link e Alta Marea che aveva già negli ultimi anni mobilitato i cittadini contro i danni dell’inquinamento. A loro si unisconoi Verdi di Bonelli che si candida a sindaco di Taranto, e viene a fare campagna elettorale dicendo che c’è un’emergenza ambientale e che l’Ilva va chiusa.
D’altra parte, nella fine a Taranto delle organizzazioni di tipo antagonista già prima degli ultimi avvenimenti, vi era stata una svolta di tipo ambientalista legata alle battaglie ambientaliste combattute a livello nazionale, contro le discariche, ecc., per cui organismi politici una volta antagonisti si erano trasformati in comitati che guardano a queste battaglie come le uniche che coinvolgerebbero il popolo e su queste concentrano le loro energie e attività. A questi si saldano pezzi della tifoseria calcistica - un settore degli ultrà tarantini, tra cui anche giovani operai dell’Ilva, aveva come figura di riferimento un ragazzo, militante antifascista di orientamento rivoluzionario, che diventato capo ultrà diffonde attenzione ai problemi della città, dei tarantini, con il mito della tarantinità, e della città violata e abbandonata, ecc. La morte di questo giovane capo ultra salda questo gruppo di tifosi alla causa ambientalista.

Nasce così uno strano fronte di ambientalisti, ultrà, ex-antagonisti, che usando l’inchiesta della Magistratura sostiene a spada tratta che l’Ilva va chiusa, che la presenza storica dell’Ilva ha distrutto Taranto, che invece era città marinara, dedita alle cozze, al turismo, all’agricoltura, ecc. Non si tratta solo di un movimento contro l’inquinamento ma un fenomeno culturale di reviviscenza del tarantinismo, della Taranto che fu. 
Tra questi vi è storicamente una componente antioperaia, i verdi, una parte degli ambientalisti, che guarda le cose con una lente di ingrandimento, e fa una descrizione di Taranto come di una città che sta morendo, per cui o chiude l’Ilva o non se ne viene a capo.

Il 15 febbraio. Il 15 febbraio c’è la prima manifestazione al Tribunale. Anche sorprendentemente partecipa una marea di persone, circa 5000 mila: studenti, principalmente, accanto a settori di cittadini ambientalisti; mentre mancano i sindacati e gli operai, compresi quelli che poi daranno vita al Comitato lavoratori cittadini liberi e pensanti.
Lo Slai cobas per il sindacato di classe partecipa con le parole d’ordini: “l’inchiesta deve andare a fondo”, “vogliamo un altro processo tipo Eternit, che condanni i padroni e li costringa a pagare”. Queste indicazioni trovano un ampio sostegno.

Di fronte all’emergere di questa situazione, l’azienda reagisce in forme inedite. L’azienda in prima persona, nella sua struttura organizzata, capi, quadri, tecnici ecc. organizza direttamente i lavoratori, scavalcando completamente le organizzazioni sindacali confederali, già compiacenti.
In fabbrica lo Slai cobas fa una aperta campagna per contrastare questa azione di Riva che si manifesta soprattutto attraverso l’allarmismo verso gli operai sugli effetti dell’inchiesta sul mantenimento dei posti di lavoro.

Il 26 febbraio, Cgil, Cisl, Uil, temendo di essere scavalcati dall’aziendalismo padronale organizzato, convocano un’assemblea degli operai Ilva retribuita sotto la Prefettura, dove consegnano un documento che invece di denunciare l’attacco alla salute che continua da parte dell’azienda, evidenzia positivamente e difende gli investimenti e gli interventi in materia di sicurezza e ambiente fatti da Riva. 
Il 30 marzo, la campagna allarmista e filo aziendale trova il suo culmine con la “marcia degli operai”, contro il Tribunale, organizzata dai capi, quadri, dirigenti dell’Ilva. Nei giorni prima i capi organizzatori della marcia girano nei reparti e tappezzano la fabbrica con centinaia di comunicati, si firmano: ‘Lavoratori Ilva – pensiero libero’ una formulazione che ricorda troppo espressioni di stampo fascista (ma la storia si diverte: qualche mese dopo quelli dell’Apecar si chiameranno “Comitato cittadini lavoratori liberi e pensanti”…)
Questa marcia raccoglie circa 8000 operai, che escono dalla fabbrica come soldatini di un film di Chaplin, tutti con la tuta nuova e pulita, il kit da manifestazione dato dall’azienda, gli striscioni tutti uguali fatti stampare dall’azienda; una marcia che rivendica la salvezza dell’Ilva, la salvezza del lavoro, la difesa di un’azienda “buona”, che ha realizzato progressi e che i giudici invece vogliono chiudere. 
Si crea una contrapposizione estremamente lacerante. In questa fase l’aspetto più dannoso non è l’emerge del fronte giovanile, ambientalista antioperaio, quanto l’emergere di questo aziendalismo attivo che organizza gli operai come se fossero un esercito a difesa della fabbrica.

Lo Slai cobas per il sindacato di classe in questa occasione dà indicazione in fabbrica di non partecipare alla manifestazione dei capi, e organizza un presidio al Tribunale che viene vietato dalla Questura. 
Questa volta al Tribunale ci sono molti meno giovani che in febbraio e cominciano a diventare evidenti le differenze: gli ambientalisti dicono di lasciar lavorare in pace i giudici e non organizzano alcuna presenza, un’area di movimento (rappresentanti di studenti, ex Cloro rosso, Comitato di quartiere, ecc.) che si denomina “assemblea popolare tarantina” e già inizia a fare discorsi antioperai e nostalgici della Taranto che fu, viene al Tribunale, accetta i divieti della questura, e su questo avviene una contrapposizione con lo slai cobas, non solo sulla pretesa di quest’area di non volere le bandiere, ma sul fatto che il divieto illegittimo della Questura di manifestare al Tribunale non si può e non si deve accettare, tanto che i lavoratori slai cobas di fatto non lo accettano, occupano la strada e rendono difficile il traffico. 
Rispetto alla marcia organizzata da azienda e capi, questi lavoratori fanno una forzatura  sulla polizia per consegnare un esposto in Tribunale contro l’iniziativa dell’azienda. Con l’esposto si chiede alla magistratura di perseguire gli organizzatori della marcia per “iniziativa illegale e sediziosa”.
Alla manifestazione filo aziendale i lavoratori iscritti allo Slai cobas dicono di non andare; la situazione più significativa avviene al porto, dove gli operai apertamente rifiutano di uscire dal reparto, capeggiati proprio da Aldo Ranieri che all’epoca stava nel cobas Ilva e poi massimo esponente dei “Liberi e pensanti”.

I sindacati confederali il 30 marzo sono o silenti o si inventano dei convegni. 
La responsabilità dei sindacati confederali all’Ilva è altissima, la loro politica e azione ha permesso che si arrivasse a questo punto, in una fabbrica che già ha il primato dei morti sul lavoro: 47 solo per infortuni nei 17 anni di gestione Riva. L’Ilva è diventata, anche per questi sindacati, una fabbrica in cui è quasi normale morire, ammalarsi di tumore, di fatto avallando l’idea di padron Riva degli infortuni come “accidenti normali” in una fabbrica di quasi 20 mila persone: “non succedono gli incidenti anche in un paese di 20 mila abitanti?”, dice in un intervista patron Riva. Tant’è che Emilio Riva, che non si è mai presentato nei processi, molti, a suo carico, si è voluto presentare al processo, su sua querela, contro la rappresentante dello Slai cobas considerata “mandante” di una scritta alla fabbrica “Riva assassino”, perché riteneva “sinceramente” ingiusto che lo si chiamasse “assassino”, lui che, come imprenditore, aveva solo il problema di produrre acciaio e non quello di badare alla città…
A livello nazionale,invece di un’analisi di classe su ciò che sta accadendo, molte forze, anche rivoluzionarie, dopo il 30 marzo assumono una posizione moralista verso gli operai.

Riva non sta fermo. Organizza una campagna mediatica: “Ilva ha un mondo dentro”. Al di là del risultato relativo della campagna, questa ha effetti sulla stampa e sulla politica, allora si era in campagna elettorale. Il ‘braccio pubblico’ di Riva, Archinà, poi sotto inchiesta per aver corrotto, “guidato” verso gli interessi di Riva, rappresentanti di Enti, Istituzioni, politici, sindacalisti, stampa, e anche magistrati, distribuisce soldi a giornali, partiti, dà indicazioni di voto, ecc. E nessuno dice nulla su questo.
Questa iniziativa offensiva dell’Ilva, in realtà mostra un Riva sulla difensiva, una situazione in cui gli operai, se organizzati, avrebbero potuto prendere l’iniziativa. Noi facciamo i soliti ‘Davide contro Golia’, che dicono a tutti che Golia si può colpire. 
Il nascente cobas Ilva è ancora troppo giovane e da organizzare, attrezzare stabilmente perché possa svolgere un ruolo effettivo in questa “guerra di classe”, e ne viene in parte sfiduciato e disorganizzato.
L’azione congiunta Riva/capi è il vero “inquinamento”, la “tempesta perfetta” creata dall’azienda di cui liberarsi e, se gli operai non si impongono per fermare Riva, è Riva che mette a rischio la fabbrica.

A inizio estate 2012 avviene il cambio tattico del gruppo dirigente in Ilva, con la nomina di Ferrante a cui corrisponde a una posizione più interlocutoria verso la magistratura e le Istituzioni. Questa posizione ha un effetto verso le Istituzioni sia locali che nazionali che sempre più cominciano a parlare dell’Ilva come una sorta di “istituzione oggettiva”, in cui non ci sono responsabilità di Riva, ma solo la grande fabbrica e le sue implicazioni a livello di economia nazionale e internazionale.

La contrapposizione dei due fronti, cittadino/ambientalista e di fabbrica/aziendalismo, scompagina anche la situazione in fabbrica per quanto riguarda il tessuto sindacale: i sindacati confederali, in particolare Fim e Uilm, per non perdere presa sulla fabbrica e il rapporto coi padroni, diventano forma sindacale mediata del ruolo che l’azienda in prima persona, attraverso capi e struttura dirigenziale, svolge in fabbrica. 
La Fiom quasi sparisce dalla fabbrica, alcuni suoi ex delegati, che sono andati maturando una profonda sfiducia vero i loro compagni di lavoro – e la stessa marcia del 30 marzo glielo conferma – passano armi e bagagli sulle posizioni degli ambientalisti. Assistiamo qui al singolare fenomeno di operai di avanguardia che dicono che il sindacato in quanto tale non è cosa buona e che loro non possono considerarsi operai ma “cittadini”, e in quanto cittadini hanno una missione da compiere: la salvezza della città, dato che proprio con quella marcia gli operai hanno anzi dimostrato di essere dei complici, corresponsabili di quanto accaduto in fabbrica e provocato dalla fabbrica. Questi ex delegati diventano dal 2 agosto 2012 i principali esponenti del ‘Comitato lavoratori cittadini liberi e pensanti’.

Ma c’è da sgomberare subito una falsa immagine. Non è vero che gli operai non avrebbero lottato sul terreno della sicurezza e della salute, e quindi, come dicono i ‘Liberi e pensanti’, dovrebbero sentirsi colpevoli verso la popolazione, verso i bambini, ecc.; gli operai Ilva negli anni hanno fatto molte lotte, anche dure, ma sono statati schiacciati e sconfitti grazie a un sistema di cogestione dei sindacati confederali e di isolamento da parte della città, Istituzioni, e della stessa magistratura. 

Questa situazione toglie terreno al sindacalismo di classe, e lo Slai cobas che è l’unica struttura sindacale di base esistente in fabbrica, anche se con una presenza molto debole e contrastata attivamente, rimane schiacciato fra questi due fuochi. Se vuoi parlare con gli operai devi partecipare ad iniziative in cui ci sono gli aziendalisti, lì c’è il grosso degli operai, se invece sposi la causa cittadina/ambientalista, diventi sostenitore non solo della chiusura ma dell’azzeramento della storia non solo della fabbrica ma della classe operaia, delle sue lotte.

Questo tipo di schieramento produce un fenomeno significativo: Aldo Ranieri, ex delegato Fiom, che si era iscritto allo Slai cobas, scrive allo Slai cobas una lettera a metà luglio in cui dice: subisco troppe pressioni, non riesco a difendermi, non si riesce a fare il cobas in fabbrica.
Francesco Rizzo, ex delegato e distccato Fiom, fa anche di più, se Ranieri si espone in prima persona, parla come operaio amato e rispettato da altri operai, Rizzo ragiona come burocrate sindacale che sposta pacchetti di tessere. Dopo aver promesso lo spostamento di queste tessere verso lo Slai cobas, che gli ricorda sempre che la costruzione di un sindacato di classe non è un problema di tessere ma di partecipazione degli operai, va nella sua sede e dice: “mi sono consultato con la famiglia, mi dicono che così finisco licenziato, la Fiom sta per espellermi... posso trovarmi da un giorno all’altro allo scoperto, quindi mi iscrivo alla Fim” e si porta in dote 200 iscritti (La stessa cosa che fa dopo con il passaggio all’USB); ma va oltre, affermando anche sui giornali nazionali che la Fiom è un sindacato dove non c’è democrazia perché “comunista – stalinista”, e che, invece, è nella Fim che ha trovato la “vera democrazia”. 

Tra gli operai, lo Slai cobas per il sindacato di classe fa una campagna perchè riconoscano chi sono i loro veri amici e i veri nemici, e pone con forza la questione centrale dell’autonomia di classe, di linea, di organizzazione, di lotta. Evidenzia l’incompatibilità oggettiva non tra lavoro e salute, ma tra salute-lavoro e produzione capitalista (“nocivo è il capitale non la fabbrica”), il cui sistema fondato sul profitto sempre e comunque, in tutte le fabbriche, occorre rovesciare.

L’inchiesta intanto va avanti, a livello cittadino scoppia una vera fan-mania verso il giudice che finalmente ha colpito l’Ilva, ma intanto in fabbrica la cosa è vissuta con terrore: gli operai fanno le vedette a sorvegliare che non arrivino i carabinieri a sequestrare gli impianti. 

I due giorni di blocchi e rivolta del 26/27 luglio. La rivolta, pur mantenendo l’ambiguità dei contenuti e “infiltrazioni” nella sua organizzazione, questa volta è molto sentita da parte della massa operaia e mostra di fatto la forza e il peso degli operai dell’Ilva che hanno o che potrebbero avere molto di più se guidati da una linea di classe.
Gli operai che poi faranno il ‘Comitato liberi e pensanti’, tendono, invece, a giudicare questa rivolta alla stessa stregua del 30 marzo. Ma questo è vero solo in parte. C’è sicuramente il tentativo dei capi di orientare la rivolta in senso aziendalista ma, a differenza del 30 marzo, gli operai non vi partecipano solo perchè ricattati dall’azienda, ma perchè sinceramente preoccupati.
Il secondo giorno già emerge la posizione di questi operai del futuro Comitato – in particolare di Massimo Battista e Aldo Ranieri - che poi si radicalizzerà, che punta a fermare  i blocchi in nome del “rispetto della città”...

Si arriva al 2 agosto. La manifestazione indetta dai sindacati confederali è fatta per mettere fine alla rivolta e sovrapporvi il cappello delle segreterie sindacali nazionali sia dei metalmeccanici che di cisl, uil, cgil.
La posizione dello Slai cobas è che la rivolta deve continuare su giuste parole d’ordini, e l’indicazione che porta alla fabbrica è di non partecipare alla manifestazione-passeggiata dei sindacati confederali. Per questo la contestazione ai dirigenti sindacali  è vista dallo slai cobas come fatto secondario.
Il 2 agosto vi è la novità del ‘Comitato liberi e pensanti’. Dietro l’Apecar si coalizzano un centinaio di operai, alcuni di questi sono lì non come operai Ilva che partecipano allo sciopero ma come ultrà che seguono la loro fazione e agiscono come “apparato militante”. La conquista del palco con l’irruzione in piazza dell’Apecar è un’azione spettacolare che ottiene il consenso di un largo settore di operai critici verso il sindacato e dell’area mista degli ambientalisti che finalmente ha trovato una base sociale che prima non aveva. 
Da questa mistura nasce il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti che ottiene molto rapidamente un consenso diffuso in città, militante, quasi da crociata. Le assemblee popolari che si tengono diventano un momento generale di denuncia, in cui i familiari denunciano le morti di genitori, figli, parenti. Questo tipo di interventi viene teorizzato quasi come requisito: chi interviene a queste assemblee è tenuto a dire di essere cittadino di Taranto, di aver avuto i propri lutti a causa dell’Ilva, altrimenti è messo in discussione il diritto a prendere la parola.
Ma questo movimento assume anche connotati ambigui perché all’interno di una battaglia giusta agita temi di destra. La stessa contestazione delle segreterie sindacali avviene al grido: “i sindacati sono la rovina dell’Italia” (ma questo lo dice anche Berlusconi), “né sindacati, né partiti, solo cittadini senza bandiera”, e chi porta le bandiere – quelle rosse - è considerato ipso facto un avversario. Si dice, con accenti oggettivamente razzisti, che in Ilva devono lavorare solo i tarantini. Si dice che nessuno ha mai fatto niente contro l’Ilva e quindi sono tutti colpevoli, anche gli operai. 

I compagni dello Slai cobas si trovano a doversi scontrare anche fisicamente con settori di ultrà perché portano le bandiere, perché sostengono che l’Ilva non deve chiudere ma che è la forza di lotta degli operai che deve imporre la vera messa a norma; e perché la loro stessa presenza in forma organizzata e non da “singoli cittadini” non è accettata.
Gli operai del Comitato, col discorso: ‘noi siamo soprattutto cittadini’, disertano la lotta in fabbrica in un momento difficile e importante per gli operai Ilva. Ma se si toglie alla fabbrica la sua avanguardia che dovrebbe trasformare la lotta degli operai, non si sta affermando l’autonomia operaia ma la si sta negando, perchè autonomia vuol dire cambiare lo stato di cose esistenti, in cui, in fabbrica, un elemento importante è la costruzione del sindacato di classe. Dire, come fa il Comitato liberi e pensanti: “La morte non guarda al 730”, vuol dire chiamare in campo soprattutto quella parte della città, ceto medio, che considera comunque la città il bene da tutelare contro la fabbrica. 
Il Comitato diventa anche un fenomeno massicciamente presente sui mass-media, il cittadino che dice che abita a Tamburi e gli è morto il figlio “tira molto”. Questa situazione “droga” per così dire la vicenda di Taranto e i fatti, pur veri, vengono mostrati con una lente che li distorce. Taranto appare ad un tratto come una città di morti, dove tutti o sono morti, o stanno per morire, o sono ammalati; la fabbrica in sé è vista come un mostro che sta perpetrando un genocidio, e gli operai in seno a questa fabbrica sono dei complici di questo genocidio.
Ad un certo punto sembra quasi che i capi dell’Ilva e i ‘liberi e pensanti’ siano due facce opposte ma della stessa medaglia: da una parte l’allarmismo e il ricatto del lavoro che fa leva sulla paura degli operai di perdere il posto di lavoro, dall’altro l’allarme su ambiente e sulla salute che fa leva anch’essa sulla paura e sulla emotività della popolazione; esse hanno in comune l’allarmismo e il cavalcare la paura gli uni degli operai, gli altri degli abitanti.
Lo Slai cobas pone la fabbrica come il campo centrale su cui fare la battaglia per l’organizzazione di classe degli operai e per il ruolo d’avanguardia degli operai verso la popolazione di Taranto; denuncia ogni posizione che nega questo come posizione antioperaia che vuole impedire che gli operai facciano pesare il loro interesse di classe in questa “guerra”.
Questo si scontra con la posizione del Comitato Liberi e pensanti che va in fabbrica a dire “stracciate le tessere sindacali” e basta, senza porre prospettiva di organizzazione autonoma per il sindacato di classe; che dice “l’Ilva chiuda o non chiuda, il problema è lottare per la garanzia del reddito” - una posizione che affossa lo scontro necessario tra operai e azienda e mette gli operai, in maniera illusoria e sbagliata, alla mercè dello Stato “che dovrebbe assisterli”.
Questo rende difficilissima la situazione, perché attenua il contrasto in seno alla fabbrica tra operai e padron Riva e capi, mentre alimenta fortissimo quello tra città e operai. Il Comitato arriva dire “se gli operai bloccano la città noi spazzeremo via i blocchi perché danneggiano i cittadini”.
 
Accanto a questi aspetti negativi portati dal Comitato ci sono anche aspetti positivi: si tratta di una ribellione verso i sindacati confederali, i partiti politici e il ruolo effettivo, contro Riva assassino, (parola d’ordine lanciata da noi). Ma le parole d’ordine che la Rete per la sicurezza sui posti di lavoro aveva lanciato nella manifestazione del 18 aprile 2009 vengono stravolte. Non esistono più i morti sul lavoro, esistono solo i morti sul territorio; la fabbrica è immodificabile, e nell’immaginario diventa in sé come qualcosa da radere al suolo. Si parla di “economia alternativa”, per esempio si parla del fotovoltaico. Ma a Lecce, a Foggia c’è l’opposizione della gente al fotovoltaico, la desertificazione di intere zone, lo schiavismo degli immigrati che ci lavorano. 
E’ una favola che a Taranto, quando l’economia era di “cozze e calamari”, si stava bene. Questa è una favola nera. L’allora Italsider a Taranto fu la risposta ad una rivolta di tanti lavoratori che avevano perso il lavoro, della popolazione che stava alla fame, una rivolta che durò giorni, in cui ci furono due morti; e furono il Pci e la Cgil, che chiesero un’industria ad alta occupazione, e questa grande fabbrica poteva essere o automobilistica o siderurgica. 

E’ necessaria un’operazione verità che si trasformi in un’operazione di unità tra operai e masse popolari.

La “tempesta perfetta”. Tutti gli attori con le loro tattiche portano a una “tempesta perfetta”. 
Da un lato si sbandiera una fine nota: si può arrivare alla cancellazione della più grande fabbrica del nostro paese, del principale centro siderurgico d’Europa, della più grande concentrazione di operai, in nome di una ecocompatibilità assoluta, in cui l’acciaio non serve più, è obsoleto, in cui il problema non è il lavoro ma il reddito, trasformando cosi quasi 15mila operai tra Ilva e indotto in assistiti, cassintegrati senza sbocco, in una realtà in cui ci sono già centomila disoccupati, servizi sociali disastrati ecc.; prospettando un futuro come Pittsburgh, dove al posto delle acciaierie ora ci sono Walmart e l’Hi-Tech, catene di supermercati, mega università, ma sono spariti gli operai; o come Lecce, dove grazie alle “notti della Taranta” e al “barocco” si sviluppa certo un’economia del turismo, ma guarda caso il tasso dei tumori è altrettanto alto, se non di più, come a Taranto; ecc.
In questo periodo, sia a livello locale che nazionale, si sviluppa una fiera di “idee alternative”, di “soluzioni” sul dopo e senza Ilva, che di fatto vede ormai come partita chiusa il necessario scontro, ancora da portare avanti, tra operai e azienda, governo e Stato.

Dall’altro lato sul fronte Ilva, c’è una reazione operaia, prima aziendalista, poi di difesa dei posti di lavoro, con una dinamica che cambia di giorno in giorno. Bisogna dire, però, che tra gli operai dal 30 marzo la situazione è cambiata. Nei mesi successivi e in questi ultimi due anni, la maggioranza degli operai non è con Riva, e considera nemici il governo, Stato, padroni.

Gli operai del Mof,organizzati nel Usb, dopo l’assassinio di Claudio Marsella, scioperano e fanno il presidio/tenda giorno e notte davanti alla fabbrica per 15 giorni, una cosa mai vista prima. 
Migliaia di operai il 27 novembre invadono in massa la fabbrica e successivamente occupano per un giorno la sala del consiglio. Si fanno più volte presidi alla Direzione e alle portinerie, spesso dei cassintegrati, e in alcuni casi molto combattivi, ecc. In tutto questo vi è una permanente contestazione dei sindacati confederali.
Ciò che manca è però ancora una direzione sindacale di classe di massa e la comprensione da parte degli operai più combattivi della necessità della costruzione del sindacato di classe come arma per far essere effettivamente gli operai dell’Ilva, non “fantasmi” ma protagonisti centrali della guerra di classe. 

L’Ilva di Taranto e’ stata gia’ al centro della questione sicurezza e salute con l’azione della Rete nazionale per la sicurezza e la salute

Il 18 aprile 2009 la Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro realizza a Taranto una manifestazione, insieme a tante altre realtà operaie e popolari di altre città. Questa manifestazione rappresentativa, numericamente anche significativa (fino a 5000 persone) già pose tutte le questioni che sono al centro di questa grande fabbrica che già allora, dopo la strage delle Thyssenkrupp, lo slai cobas indicava nei suoi volantini e materiali, come battaglia esemplare da fare in questo paese sul fronte della sicurezza e della salute, una sorta di concentrato della condizione operaia e popolare che si era determinata negli anni per effetto del dominio del capitale, del ruolo dei sindacati confederali e l’assenza politica e sociale dei partiti che avrebbero dovuto rappresentare le istanze dei lavoratori.
Quella manifestazione ha anticipato gli eventi sopraggiunti dopo. Era stato tracciato bene il percorso. Si era partiti dalla fabbrica, dal luogo da cui ha origine la questione Ilva, la fabbrica in cui erano morti fino al 2009 45 operai nell’arco della gestione Riva, nell’ambito di una tragedia che dura da quando la fabbrica è nata e che ha visto ben 316 operai morti - una concentrazione di morti sul lavoro in una sola azienda che ne faceva la “fabbrica della morte”. Il tutto in un contesto, che già era conosciuto e che in quegli anni emergeva drammaticamente, di devastazione ambientale, riflesso della mancata sicurezza e rispetto della salute dei lavoratori in fabbrica, che si riverberava sulla città sotto forma di inosservanza delle norme riguardanti le diverse sostanze nocive riversate sul territorio, compresa la questione davvero devastante delle polveri di minerali per la presenza dei parchi minerari dell’Ilva (che corrispondono in estensione a 70 campi di calcio) che producono nei quartieri contigui allo stabilimento e soprattutto in quello più vicino, Tamburi, da cui partì la manifestazione del 18 aprile, un elevato tasso di tumori che colpiscono in maniera particolare i bambini. 
Risultò ben evidente a tutti quelli che parteciparono a quella manifestazione che, nonostante il corteo partisse da questo quartiere dove più si concentra l’inquinamento, la popolazione dei Tamburi partecipò pochissimo: guardava dalle finestre e non più di una cinquantina di loro partecipò effettivamente, alla spicciolata, non organizzati da nessuno. A loro, in qualche modo apparse come una manifestazione troppo dall’alto, non risolutiva di un problema a cui guardavano in prevalenza con un sostanziale fatalismo sull’impossibilità di affrontarlo e risolverlo con gli strumenti della lotta.
A quella manifestazione oltre ai familiari di operai morti all’Ilva, parteciparono più di un centinaio di giovani operai dell’Ilva che proprio in quel periodo, in contraddizione coi sindacati confederali, e soprattutto contro la cassintegrazione, avevano dato vita a un Comitato Lavoratori Ilva in Lotta, capeggiato da alcuni degli operai che oggi guidano il movimento dell’Apecar, raccogliendo un buon numero di operai, prevalentemente di provenienza Fiom.

Che cosa succede dopo quella manifestazione, spiega oggi forse meglio di ogni altra cosa come si sia giunti alla situazione attuale in questa fabbrica. Avviene lo sfaldamento di quel gruppo di giovani operai. Questa area di un centinaio di operai sparisce completamente nel giro di qualche settimana. Alcuni operai che erano alla testa di questa aggregazione, tutti delegati Fiom, ridanno fiducia alla Fiom quale strumento che gli avrebbe permesso, con il ricambio del sindacato, di fargli gestire la situazione; altri si candidano nelle liste di Rifondazione, tra cui Battista, oggi a capo del Comitato liberi e pensanti, già mobbizzato in un reparto fuori dall’Ilva su consenso segreteria Fiom; altri ancora, avendo una visione eccessivamente lineare del processo che avrebbe potuto portare alla mobilitazione della fabbrica, si sfiduciano, tra cui Ranieri, oggi portavoce del Comitato Liberi e Pensanti, il quale meno incline a compromessi degli altri per un lungo periodo molla, perché non ha abbastanza fiducia né nel sindacato ma neanche nei suoi compagni di lavoro. 
Molti di quegli operai mantengono verso la Rete un atteggiamento di simpatia e attenzione  anche verso l’organizzazione sindacale che a livello locale ne rappresenta la struttura portante, lo Slai cobas per il sindacato di classe, dicono: “aspettiamo le prossime elezioni RSU e poi, grazie alla presenza nelle nuove RSU, potremo fare di più in fabbrica”.
Questa situazione ha impedito già allora la ricostruzione di una struttura sindacale di classe all’interno della fabbrica, che poteva essere oggi lo strumento centrale nella battaglia in corso.
In ogni modo quella manifestazione raggiunge un risultato insperato dal punto di vista materiale, che oggi dovrebbe pure essere valutato: da allora a fine 2012 (quando è morto Claudio Marsella e dopo Francesco Zaccaria) non era più morto nessun operaio in Ilva. Certo su questo ha parzialmente pesato anche la crisi e la conseguente Cigs, benchè sostanzialmente l’Ilva abbia tenuto sia in termini di occupazione che di livelli produttivi, ma la pressione esercitata dal fatto che la sicurezza in Ilva era stata posta come questione nazionale fece sì che effettivamente la situazione in Ilva migliorasse. 

Lo Slai cobas poi ottiene anche delle vittorie sul terreno giudiziario. In uno dei processi intentati dallo Slai cobas Riva è condannato a 4 anni e 8 mesi per “truffa ed estorsione”, una condanna che, se fosse divenuta definitiva, l’avrebbe portato in carcere, sempre alla maniera in cui i padroni vivono il carcere in questo paese..., già alcuni anni fa, portando già allora un colpo pesante all’Ilva e a padron Riva.
Per di più guadagna terreno, in quel periodo, anche in settori della magistratura, la proposta, fatta dallo Slai cobas, e sostenuta chiaramente dalla Rete, di creare una postazione stabile interna alla fabbrica dell’Ispettorato del Lavoro, della ASL, che incoraggiasse gli operai nel contrastare/denunciare le violazioni dell’azienda, che funzionasse da deterrente nei confronti dell’azione dell’azienda, da terminale di quei delegati che effettivamente volevano fare qualcosa per contrastarla sia negli effetti diretti sulla condizione e la salute degli operai, sia nelle conseguenze all’esterno dell’inosservanza delle norme sulla sicurezza e l’ambiente. Questa proposta fu contrastata dall’azienda. Ma la principale opposizione venne dai sindacati confederali. L’attuale procuratore Sebastio, oggi molto visibile in TV, disse allora che la magistratura non avrebbe opposto ostacoli e avrebbe avuto un atteggiamento benevolo rispetto ad eventuali ricorsi contro questa decisione da parte del ministero.

Queste battaglie a Taranto sono state fatte, in fabbrica e sul territorio, ma si sono scontrate contro un muro. Un muro costituito dal sistema Riva di gestione del potere dentro la fabbrica, dal sistema consociativo dei sindacati confederali e dallo stesso sistema degli Enti di controlli.

Il 22 marzo 2013, dopo i 3 morti operai che vi sono stati nei mesi precedenti, la Rete nazionale per la sicurezza e la salute torna a Taranto e fa una manifestazione diversa; va direttamnete all’Ilva dove si svolgono presidi, alla Direzione e alle portinerie A e D, con incontri tra delegazioni di lavoratori dal nord e dal sud e operai dell’Ilva. Da questa iniziativa nasce anche la decisione della costituzione associata di operai e cittadini dei Tamburi al processo Ilva.

Dunque, non è vero che in questa fabbrica non si è fatto mai niente. In questa fabbrica c’è stata una guerra, a volte esplicita, a volte sotterranea, che ha visto anche in passato protagonisti operai, familiari, gruppi di cittadini, pezzi di sindacato. Questa guerra è stata combattuta ed è stata persa, per il congiunto delle condizioni che c’erano, dentro e fuori la fabbrica: il sistema politico, gli Enti locali, la Regione. Vendola, ad esempio, prima di approvare la legge sulle diossine, si considerava interlocutore molto attendibile di Riva, fino al caso clamoroso dei due delegati, Battista e Rizzo, che bloccarono un convertitore che rischiava di esplodere e per questo furono licenziati dall’Ilva; a questo licenziamento seguirono alcune azioni sindacali e una battaglia legale, ma alla fine i due non rientrarono per effetto di questa mobilitazione ma grazie ad un accordo privato tra Riva e Vendola, esplicitamente rivendicato: “Io ho ragione - disse allora Riva - ma in considerazione del ruolo che sta svolgendo la Regione di Vendola, a titolo di favore personale a Vendola, ritiro i licenziamenti”. Sarà poi la Fiom a finire il lavoro della rimozione di quei due delegati, uno, appunto Battista, viene emarginato fuori dalla fabbrica, l’altro, Rizzo, poi passato all’Usb, viene promosso e distaccato dalla produzione, e tale si comporta per più di due anni ammorbidendo di molto la sua linea e impegno verso gli operai che lo considerano uno “passato dall’altra parte”.

È questo il contesto che precede gli ultimi avvenimenti e ci porta ai fatti in corso.

La fase attuale e la battaglia da fare
A Taranto non ci possono essere obiettivi inferiori ad una rivolta che veda uniti operai e masse popolari. Se lavoro e salute sono valori primari non bisogna fermarsi davanti a nulla, si devono tutelare anche con l’uso della forza proletaria e popolare. 
Lo scontro a Taranto è uno scontro epocale che riguarda tutti i siti inquinati. Ma questa battaglia non merita compassione o lamenti. Taranto è invece una grande opportunità  nel nostro paese per cambiare le cose
Ma per questo la battaglia principale è soprattutto nell’organizzare l’autonomia di classe, sindacale, di lotta, di organizzazione degli operai Ilva e Indotto. 
Solo la forza e la lotta delle migliaia di operai contro Riva, lo Stato e/o i nuovi padroni è la garanzia per gli operai e per le masse popolari dei quartieri che si strappino i massimi risultati sul fronte del risanamento ambientale, e che Taranto non finisca come una mega Bagnoli: senza lavoro e senza bonifica del territorio.


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