
La trattativa fra Baku Steel, la società in pole position per l’acquisizione degli impianti dell’ex-Ilva, e i commissari di Acciaierie d’Italia inizia a mostrare qualche dettaglio in più e ciò è già sufficiente per scoprire il grande bluff di quest’ennesimo tentativo di riportare sul mercato una fabbrica al capolinea -scrive l’associazione Giustizia per Taranto.
Baku steel ha offerto 1,1
miliardi di euro, compresi i 500 mln per il magazzino e in più ha
promesso 4 miliardi di investimenti per il piano industriale e
ambientale. Ora trapela che, oltre a chiedere la permanenza dello Stato
italiano (tramite Invitalia) nella società con una quota del 10%, gli
azeri vorrebbero 5,5 miliardi di incentivi pubblici fra investimenti,
energia e crediti con garanzia di Sace, il gruppo assicurativo e
finanziario controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Avete
capito bene: a fronte di un’offerta di 5,1 miliardi di euro, ne
chiedono 5,5 di contributi statali! E non per il 100% delle quote
societarie, ma per il 90! Se non fosse tutto così tragico, sarebbe
comico.
A questo va aggiunto -prosegue la nota- che Baku Steel, che
ora chiede incentivi sull’energia, è un consorzio assai misterioso in
cui l’unico socio di cui si sa qualcosa è la Azerbaijan Investment
Company, controllata dal governo antidemocratico dell’ex Unione
Sovietica che, a sua volta, fornisce gas all’Italia attraverso la Tap.
Vale la pena ricordare, in proposito, che la COP29, svoltasi a novembre
scorso proprio a Baku, vide l’intervento della Presidente Meloni
sollecitare l’approvvigionamento di gas…
Divertente, peraltro,
notare come l’investimento, poi fatto saltare, di Ferretti nel porto di
Taranto agitò questo governo in quanto “i cinesi avrebbero messo le mani
su un’infrastruttura strategica italiana” e ora si consegna il
siderurgico al governo (ripetiamo, antidemocratico) azero, che ha
stretti rapporti di collaborazione con la Russia di Putin.
Non vanno
meglio le cose sul fronte occupazionale, dove i posti di lavoro
garantiti scenderanno a 7.800, ma solo per i primi due anni. Facile
immaginare che accadrà quanto diciamo da almeno dieci anni, e cioè che
questa fabbrica, oltre a stare sul mercato solo grazie ad artifici
legislativi e contabili e ai mancati investimenti in ambiente e
sicurezza, potrà continuare a farlo solo dimezzando gli occupati.
Sul piano ambientale, manco a dirlo, all’orizzonte ancora altiforni e, a breve, anche una nave rigassificatrice.
Sfidiamo
ancora una volta chi crede in questo salvataggio -aggiunge ancora
l’associazione Giustizia per Taranto- a illustrarci i motivi per cui
essere fiduciosi, da qualsiasi punto di vista lo si guardi. E a dirci
perché tutti quei miliardi pubblici non dovrebbero essere investiti (si
badi bene, non spesi) per riconvertire l’economia del nostro territorio,
chiudendo per sempre con le fabbriche della morte.
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