Presa di posizione di Arci, Babele, Campagna welcome, Ohana, Comunità valdese
Lentamente, silenziosamente, si sta trasferendo verso il sud Italia, anche in provincia di Taranto, una visione leghista e razzista dell’accettazione dei richiedenti protezione internazionale. Una concezione che assume un sapore punitivo e vessatorio verso soggetti fragili, che dovrebbero, invece, essere tutelati.
Tutto ciò sta avvenendo in un quadro di abusi, di massicci investimenti di denaro pubblico in costose operazioni di polizia, come il “gioco dell’oca” compiuto sulla pelle delle centinaia di persone che si affollano alle frontiere di Ventimiglia. Migranti che vengono rastrellati, caricati di forza sui pullman e portati all’hotspot di Taranto, per essere identificati la sesta o settima volta consecutiva; e poi rimessi
in strada, privi di alcun mezzo di sussistenza, ma pronti comunque a riprendere l’ennesimo viaggio, in cerca di protezione o opportunità. Quello che gli stati europei non sono in grado di dare.
Mentre si è fatta strada l’idea della “restituzione”, l’idea che i richiedenti asilo debbano in qualche modo ripagare l’ospitalità ricevuta, attraverso la prestazione di lavoro gratuita, in spregio, così, a quanto stabilisce l’articolo 36 della Costituzione italiana: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”. Non soltanto. Avviene che si violino le norme, le quali prevedono che questi “lavoratori” dovrebbero essere presi in carico da associazioni di volontariato attraverso l’iscrizione all’Inail. Oppure, accade che in alcuni comuni (come si apprende da alcune pagine fb) i migranti vengono impiegati per lavori di facchinaggio nelle cooperative di servizi. Il lavoro volontario, così, diventa una ghiotta occasione per impiegare manodopera completamente gratuita.

Il lavoro “volontario” dei richiedenti protezione rappresenta una pessima risposta alla propaganda razzista della Lega e dei loro accoliti; in primo luogo perché nega il diritto all’ Asilo ( non considerando le ragioni soggettive che inducono una persona ad abbandonare il proprio Paese, la propria famiglia, per cercare aiuto in Europa). In secondo luogo, perché nasconde l’incapacità dei Governi che si sono succeduti negli ultimi anni di affrontare una questione che è palesemente strutturale, e richiede, quindi, interventi legislativi di lungo periodo.
Il Ministero degli Interni e le Prefetture, incaricati di procurare i posti per garantire l’accoglienza dei richiedenti protezione, lamentano il sovraffollamento e il collasso del sistema a causa dei continui salvataggi in mare da parte delle ONG. Non dicono, però, che il sistema di accoglienza è al collasso perché ci sono decine di migliaia di persone prigioniere di un apparato che li costringe ad attese di dieci mesi prima che la loro domanda di protezione venga esaminata; non dicono che nella stragrande maggioranza dei casi questa domanda viene respinta dalle Commissioni Territoriali. Nascondono che i richiedenti sono costretti a nuove lunghe attese ( dai 18 ai 24 mesi) per vedere esaminato il loro ricorso al tribunale competente. Mentre sarebbe doveroso e necessario che i nostri balbettanti ministri riconoscessero la protezione umanitaria nelle prime settimane di permanenza sul territorio, rilasciando i permessi di soggiorno e consentendo, così, a queste persone di gestire la loro vita liberamente, dopo averli forniti di minimi strumenti di inclusione sociale. Sarebbe molto più semplice se le persone attualmente prigioniere di questo sistema avessero la possibilità di convertire il permesso di soggiorno da richiedente protezione a permesso per lavoro, visto che buona parte di loro ha già trovato una occupazione più o meno stabile. Un provvedimento di protezione umanitaria è quanto chiede il comitato nato per la proposta di legge di iniziativa popolare “Ero Straniero. L’Umanità che fa bene”, campagna promossa su iniziativa del Partito Radicale, a cui hanno aderito organizzazioni cattoliche quali Caritas, ACLI, e che attraversa trasversalmente tutto il tessuto associativo laico, fino ad ARCI e ASGI.
L’Asgi è l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione che da tempo propone una radicale modifica della disciplina dell’immigrazione, ed ha espresso forti preoccupazioni in merito alle misure adottate dal recente decreto legge Minniti Orlando (poi convertito). In particolare, i giuristi ritengono ingiusta la disposizione con cui si prevede che. “i prefetti promuovono – si legge dall’art. 8, commi 1,3 – d’intesa con i Comuni (…) ogni iniziativa utile all’implementazione dell’impiego di richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali, nel quadro delle disposizioni normative vigenti”.
Infine, due parole le vogliamo spendere sull’uso del termine “restituzione”, partendo da una domanda (retorica per la verità): cosa dovrebbero restituire queste persone? Dovrebbero restituire in lavoro gratuito la condizione che li ha costretti a scappare da Paesi devastati dalla guerra guerreggiata o dalla guerra economica? Da Paesi governati da regimi corrotti al servizio delle multinazionali, anche italiane, come in Nigeria, dove i territori vengono distrutti dall’inquinamento per l’estrazione del petrolio e le imprese non pagano neppure le tasse? O del Bangladesh, dove si lavora in condizione di schiavitù per conto delle imprese europee e americane? Dovrebbero restituire in lavoro l’impossibilità di poter studiare o curarsi nei loro paesi governati da regimi corrotti che acquistano anche dall’Italia armi (nell’anno scorso l’export è aumentato di circa l’80%) invece che spendere in servizi sociali e investimenti produttivi? Dovrebbero restituire in lavoro la costrizione ad abbandonare l’inferno della Libia, dove vivevano regolarmente, dopo aver distrutto il Paese ad opera dei francesi? Cosa dovrebbero restituire di quei 35 euro che vengono spesi quotidianamente per ognuno di loro e di cui al richiedente protezione non va praticamente nulla? I 35 euro sono in realtà una opportunità per noi italiani, per noi associazioni e cooperative che gestiamo materialmente il sistema di accoglienza. Basti guardare al solo territorio provinciale: circa duecento operatori direttamente impiegati nel sistema di accoglienza; un indotto composto da aziende di catering e imprese di pulizia; inattese opportunità per proprietari di stabili in disuso e albergatori.
Ci permettiamo di concludere con una domanda. Chi dovrebbe “restituire” qualcosa?