da un articolo del Corriere di Taranto
Una sentenza del tribunale civile di Taranto non riconosce il nesso causale
La lunga e annosa vicenda legata al deprezzamento del valore di mercato delle case dei residenti del rione Tamburi a Taranto a causa dell’inquinamento industriale proveniente dal siderurgico ex Ilva, è da anni al centro di diverse e complesse vicende giudiziarie. Oltre che di interventi di vari governi succedutisi nel tempo, che hanno anche creato un “Fondo per indennizzo dei danni agli immobili derivanti dall’esposizione prolungata all’inquinamento provocato dagli stabilimenti siderurgici di Taranto del Gruppo Ilva”, rifinanziato nella legge di bilancio 2023 con risorse pari a 3,5 milioni di euro per il 2023, di 4,5 per il 2024 e di 4,5 per il 2025, con cui risarcire i proprietari di immobili esposti all’inquinamento dello stabilimento ex Ilva, a favore dei quali è stato disposto il risarcimento dei danni in virtù di una sentenza definitiva.
L’ultimo capitolo in ordine di tempo è la sentenza n. 1194, pubblicata in data 18 aprile 2024 dal Tribunale di Taranto – Sezione Seconda civile – giudice dott.ssa Francesca Perrone, che ha rigettato tutte le richieste risarcitorie di numerosi proprietari di immobili del quartiere Tamburi, nei confronti della società ex ILVA e dei suoi amministratori. Ha ritenuto il Tribunale Civile di Taranto, in primo luogo, che “deve escludersi l’efficacia vincolante degli accertamenti eseguiti in sede penale in quanto il presupposto oggettivo perché possa applicarsi l’art. 651 c.p.p. consiste nel fatto che l’azione riparatoria instaurata davanti al giudice civile od amministrativo abbia ad oggetto il medesimo fatto, costituente reato, per il quale venne esercitata l’azione penale e pronunciata la relativa condanna e nel contempo coinvolga gli stessi soggetti”. In secondo luogo, che spetta al giudice civile, “a prescindere dalla certificata illiceità penale riscontrata valutare la sussistenza o meno di una responsabilità di tipo civilistico rilevante per l’eventuale risarcimento del danno. Ed invero, pur essendo stata accertata l’illiceictà del fatto, non è stata raggiunta la prova del nesso causale tra il (pacifico) fenomeno delle emissioni delle polveri dallo stabilimento ILVA ed il deprezzamento degli immobili degli attori in questa sede lamentato, non essendovi stato alcun accertamento sul punto avente efficacia vincolante ai sensi dell’art. 651cpp così come richiamato dagli attori”. La CTU disposta dal giudice non ha provato il nesso eziologico. Il Tribunale, in conclusione, ha rilevato la mancanza del rapporto causale tra il denunciato deprezzamento, che non è stato provato, e le emissioni ILVA. Ha inoltre ritenuto che non sia risarcibile il danno derivante da un generico timore “turbamento psichico, stress o preoccupazione di contrarre patologie a causa delle immissioni inquinanti in ambiente, oppure dalla frequente sottoposizione ad accertamenti medici con i conseguenti affermati riflessi sulla qualità della vita, sulla serenità della vita familiare, ed in genere il danno esistenziale connesso a tali fattori.
La vicenda era partita da un atto di citazione di un gruppo di proprietari e comproprietari di immobili siti nel quartiere Tamburi contro l’Ilva S.p.A., in persona del suo legale rappresentante, Riva Nicola, quale Presidente del C.d.A. Ilva S.p.A. dal 19.05.2010 al 9.07.2012, Riva Fabio Arturo, quale Vice Presidente del C.d.A. dell’Ilva S.p.A., Consigliere e Amministratore Delegato sino al 22.05.2007 e Capogrosso Luigi, in proprio e quale Direttore e Gestore dello stabilimento Ilva S.p.A. sino al 03.07.2012, “per sentirli condannare, in solido, ai sensi del combinato di cui agli artt. 2043 e.e. e 185 c.p., e 832-1226-2043-2050-2055-2056 e 2057 e.e., al risarcimento del danno per il decremento di valore degli immobili di proprietà di essi istanti, oltre rivalutazione ed interessi fino all’effettivo soddisfo. A sostegno della domanda richiamavano la sentenza penale n. 38936/2005, emessa dalla Corte di Cassazione che aveva ritenuto responsabili l’ILVA, l’ing. Luigi Capogrosso e l’ing. Emilio Riva dei reati di cui agli artt. 674 c.p.(“Getto pericoloso di cose”) e art. 13, comma 5 del D.P.R. 203/88 (mancata adozione di tutte le misure necessarie ad evitare un peggioramento delle emissioni). Assumevano ai sensi dell’art. 651 cpp l’efficacia vincolante nel presente giudizio risarcitorio della predetta sentenza la quale aveva accertato in via definitiva le immissioni di oltre 21.000 tonnellate annue di polveri inquinanti da parte dell’ILVA spa. Rappresentavano in particolare che l’attività dello stabilimento industriale aveva provocato continue immissioni di polvere di minerale eccedenti la sogl ia di cui all’art. 844 e.e di “normale tollerabilità”, causando una riduzione del valore dei rispettivi immobili, ubicati nelle immediate vicinanze dello stabilimento siderurgico ILVA e, in particolare, dei parchi carbone e minerali (estesi su una superficie di 520.000 mq di altezza compresa tra i dodici ed i quindici metri), del nastro che trasporta detti materiali dal porto al predetto deposito, dei parchi rottami, delle due acciaierie, dei due altoforni, delle colate continue e dei forni a calce. Rappresentavano ancora che le condotte illecite di cui alla sentenza Cassazione del 2005 – confermate anche con la sentenza del Tribunale del Riesame di Taranto n.315/2012 del 07.08.2012- assumevano rilievo anche quale fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 e.e. Evidenziavano infine che le immissioni vietate avevano comportato una “compressione del diritto di poter vivere lapropria casa” e, pertanto, chiedevano il ristoro anche del danno morale. Concludevano con la condanna dei convenuti ex art. 96 c.p.c. per la palese temerarietà dell’avversa difesa” si legge nel decreto della sentenza.Eppure il 2 luglio 2021, la Corte di Cassazione aveva confermato il diritto al riconoscimento, per un gruppo di cittadini residenti nel rione Tamburi di Taranto, dei danni causati dall’inquinamento generato dall’Ilva. Respingendo il ricorso dell’Ilva in Amministrazione straordinaria e confermato la legittimità delle sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello di Taranto, che avevano riconosciuto il diritto al risarcimento per il “ridotto godimento dei propri immobili” ad un gruppo di cittadini proprietari degli appartamenti di una palazzina di Via De Vincentiis del quartiere Tamburi, difesi dall’avvocato Massimo Moretti, condannando l’azienda a versare importi tra i 12 mila e i 16 mila euro. L’azienda in primo e secondo grado era stata condannata al risarcimento del danno relativo alla “compressione del diritto di proprietà come diritto a godere in modo pieno ed esclusivo di un bene determinata dalla continuativa esposizione degli immobili degli attori al fenomeno immissivo”, quantificato, in via equitativa, al 20% del valore degli immobili al momento della domanda.
Insomma, anche in questo caso l’infinita vicenda legata alla presenza del siderurgico a ridosso del rione Tamburi non riesce a mettere tutti d’accordo.
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