martedì 14 maggio 2024

Dagli operai ex Ilva Taranto e siderurgici di Bergamo una voce chiara e da seguire - Dal Convegno Slai cobas del 19 aprile

Intervento dell'operaio della Tenaris Dalmine, rappresentante 
per la siderurgia dello Slai cobas sc


 

Intervento dell'operaio Ilva AS Slai cobas 

È sin da quando Arcelor-Mittal ha messo piede nel nostro stabilimento, dunque da oltre 5 anni, che la questione della sua (mala) condotta sembra riguardare chiunque, dalla politica alla cittadinanza con le sue varie associazioni passando per i sindacati ed esperti d’ogni sorta, ma colpevolmente nel dibattito vengono continuamente omessi i diretti interessati, i lavoratori. Si potrebbe erroneamente pensare che vengano rappresentati dalle sigle sindacali, ma per chi non si definisce ingenuo è ovvio che esse hanno da molto tempo ormai avviato un mutamento nella loro sostanza che li ha portati dall’essere i più vivi rivendicatori delle istanze e necessità della classe operaia a divenire un organo di mediazione col padrone nella migliore delle ipotesi, occupanti una posizione in cui lasciano agire indisturbatamente l’anarchia dei mercati e della produzione e da questi cercano di trarre qualche briciola per chi quella ricchezza la produce.

Detto ciò, tornando alla questione specifica dei lavoratori dello stabilimento ex Ilva di Taranto, non può non essere chiaro adesso come l’accordo del 6 settembre 2018 che consegnava la fabbrica a Mittal, firmato a suo tempo dalle parti interessate con l’allora ministro dello sviluppo economico Di Maio a suggello di questo schiaffo al buonsenso, fu il mezzo attraverso il quale rendeva noi dipendenti molto più deboli attraverso la nostra dispersione in gruppi separati e la nostra riduzione definitiva all’interno della fabbrica al di là di ogni obiettivo di produzione previsto e realizzato; e che il nostro indebolimento fosse un’operazione mirata si evinceva già dal criterio adottato per l’incentivo all’esodo, criterio che definire balordo sarebbe un eufemismo, in quanto concedeva a chiunque si fosse licenziato spontaneamente entro i primi tre mesi dall’insediamento della nuova gestione una somma pari a 100.000 euro lorde oltre a due anni di Naspi, questa somma poi andava a scalare progressivamente di 5.000 euro ogni successivi tre mesi. Si potrebbe anche pensare che questa fosse una cifra congrua a far migrare chiunque avesse avuto desiderio di abbandonare l’acciaieria per un nuovo mestiere, ma nella realtà dei fatti si può affermare che non sia andata proprio così, o almeno non nella gran parte dei casi. Una cospicua fetta di coloro i quali hanno accettato questo denaro era composta da lavoratori ai quali mancavano meno di due anni di contributi per arrivare alla pensione, mentre i tanti di noi a cui ne mancavano molti di più hanno pensato bene, conti alla mano, di non accettarli e rimanere nel limbo della cassintegrazione permanente che ci ha, almeno ad oggi, garantito quelle seppur labili tutele che i nuovi assunti non hanno. Considerando quanto detto, a questo punto è necessario chiarire che l’accordo prevedeva il passaggio di circa 8200 lavoratori presso la nuova società, Arcelor-Mittal, mentre i restanti 2500 circa sono rimasti alle dipendenze dirette di Ilva in AS in quella cassintegrazione permanente di cui dicevo ed il cui termine previsto era allocato tra l’estate del 2023 e l’estate del 2025, termine il quale avrebbe visto il reintegro in fabbrica, ma che, come si può ben vedere, ancora non è avvenuto, ma anzi con il nuovo commissariamento si rischiano ulteriori fuoriuscite.
Ora, a seguito di quel famigerato accordo, è accaduto che la stragrande maggioranza della platea rientrata a lavorare era composta dai lavoratori più anziani, nonostante ci fossero comunque dei criteri imposti per poter beneficiare dell’assunzione diretta ed essi riguardavano professionalità (traducibile nel livello a cui ad ogni lavoratore viene assegnato a discrezione aziendale), anzianità di servizio (e questa è stata la discriminante che ha avuto l’impatto maggiore) e carichi famigliari. I numerosi ricorsi intentati da svariati operai rimasti fuori, una buona parte dei quali risolti a favore degli stessi, hanno dimostrato che quei criteri in fondo sono stati soltanto fumo negli occhi di chi si fidava ancora della buona fede delle parti. La questione è che ci siamo ritrovati con i più anziani, tolti quelli di cui si parlava prima che avevano da maturare meno di due anni di contributi, ad essere richiamati in fabbrica mentre i più giovani ad essere estromessi.
Ora, non ci voleva di certo un genio a chiedersi perché con i soldi stanziati per l’incentivo all’esodo non si sono coperti i contributi direttamente di quei lavoratori a cui mancavano un determinato quantitativo di anni al termine ed accompagnarli così direttamente alla pensione, mentre per i più giovani ci sarebbe potuto essere il rientro in fabbrica? Specificato che tra i dipendenti rimasti alle dipendenze di Ilva in AS, e dunque non richiamati in fabbrica, c’erano (ci sono) molti dei più combattivi e che perciò ha fatto molto comodo tenerli fuori definitivamente, la questione risulta facilmente spiegabile: se si fosse proceduto in quella determinata maniera sarebbe stato chiaro che una volta tolti di mezzo i pensionandi tutti quelli rimasti avrebbero lavorato in fabbrica per molto tempo ancora non riducendo più il personale per parecchi anni, ma se noi ricordiamo bene prima della firma dell’accordo Arcelor-Mittal aveva chiesto un quantitativo di esuberi ben maggiore di quello che poi è stato concordato effettivamente, per mesi aveva battuto sugli esuberi e poi, tutto ad un tratto, poco prima di firmare l’accordo, accetta sommessamente di aumentare i lavoratori da assumere, senza battere ciglio. Strano da quello che era all’epoca il produttore di acciaio numero uno al mondo, famoso per l’arroganza e lo sprezzo verso i lavoratori. Ovvio che il progetto di sfoltire ulteriormente il personale non è che fosse naufragato, era soltanto mutato in una sua versione più morbida per evitare di accendere polemiche ancor prima di mettere piede a Taranto, quel progetto era soltanto rimandato.
È un grosso rammarico adesso constatare come nel corso di questi anni solo in poche occasioni si è accesa la protesta dei lavoratori verso la rivendicazione dei propri diritti, bisogna però ammettere che quando questo è avvenuto non le hanno mandate di certo a dire. È stato soltanto per il freno tirato delle sigle di rappresentanza se queste proteste non si sono evolute in azioni di lotta più complesse, ma anzi si sono affievolite sino a divenire del tutto innocue. Si può citare a titolo di esempio la protesta che qualche anno fa bloccò La portineria C, il varco fornitori per intenderci. Dopo un’intera giornata di blocco infatti le sigle sindacali avevano ottenuto un incontro al Mise (com’era conosciuto ancora all’epoca) per discutere del destino della fabbrica e dei lavoratori dato che non è mai stato chiaro ad alcuno quale questo fosse. Si era discusso perciò se proseguire il presidio sino al momento dell’incontro e non cedere così di un passo la propria protesta e le proprie ragioni, cosa che i presenti erano tutti ben disposti a fare, di tutta risposta i rappresentanti di Fim, Fiom e Uilm dissero agli scioperanti delusi che invece avrebbero tolto il presidio e che si sarebbe atteso l’esito del tavolo per decidere ulteriori iniziative. Come ben sappiamo a fronte di un esito completamente inconcludente per i lavoratori non ci furono ulteriori iniziative al seguito.
Altro esempio di protesta iniziata con le migliori intenzioni dai lavoratori e conclusasi con un nulla di fatto a causa dei sindacati non conflittuali è quella che vide addirittura la venuta tra i manifestanti, “onorandoli” con la propria presenza, di colei la quale è stata amministratrice delegata sino a poche settimane fa di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli. In quell’occasione la stessa amministratrice delegata subì pesanti critiche e contestazioni da parte dei tantissimi presenti, circondata da guardie del corpo sfidò con la sfacciataggine che da sempre la contraddistingue tutti i presenti facendosi beffe della condizione disperata nella quale versavano, e tutt’ora versano, i lavoratori. Ma, al di là di questo seppur importante episodio, ciò che più colpisce era la soddisfazione che al termine di quella giornata i segretari locali delle tre sigle confederali avevano mostrato, essi infatti avevano dichiarato di comune accordo che la giornata di lotta era stata più che un successo, parlavano infatti di un’adesione allo sciopero di circa il 90% dei dipendenti e che si sarebbe fieramente proseguiti su quella strada, che quello era solo l’inizio delle lotte e che a breve ci sarebbero state assemblee sia all’interno che all’esterno della fabbrica in modo da coinvolgere sia i dipendenti diretti che quelli rimasti nel girone dell’amministrazione straordinaria, assemblee che sarebbero servite per programmare le successive iniziative di lotta tenendo come fondamentale principio la partecipazione attiva degli operai. Se stiamo qui a discuterne è perché, di tutte quelle promesse fatte quel giorno poco prima di rompere le righe, non ne è stata mantenuta neanche mezza. È accaduto infatti che non è accaduto più nulla, tutto è morto contestualmente al calare del sole di quella giornata, è che le promesse fatte provenivano semplicemente da marinai poco avvezzi alla fedeltà.
Se c’è un’ulteriore dimostrazione che la classe dei lavoratori è stata ed è ad oggi tenuta ai margini di quello che accade e che dovrebbe coinvolgerli in prima battuta è proprio il processo Ambiente Svenduto che ci vede oggi qui riuniti, probabilmente uno dei processi più lunghi mai tenutisi in questo Paese e che vedeva e vede assolutamente come primi interessati i dipendenti della fabbrica. Paradossalmente però, la categoria che nel corso di tutto questo tempo è stata meno al centro della vicenda pare proprio essere quella degli operai, infatti se la fabbrica stessa poteva contare al momento dell’inizio delle indagini preliminari su circa 11.700 dipendenti diretti oltre quelli dell’appalto, solo un numero davvero ridotto di essi si è potuto costituire come parte civile al processo. All’epoca delle costituzioni delle parti civili ci fu quasi un boicottaggio nei confronti degli operai, all’interno della fabbrica in molti non erano nemmeno a conoscenza di tale possibilità e coloro i quali lo hanno potuto fare lo hanno fatto al di fuori delle organizzazioni dei lavoratori come sono considerati, al giorno d’oggi in maniera impropria, i sindacati confederali. Questa mancanza ha dato la sua parte di contributo ad un’oggettiva ed eccessiva riduzione della centralità proletaria nelle dinamiche di questo avvenimento e, come conseguenza della perdita di questa centralità, anche all’interno del capitale industriale che li soggioga; aver reso infatti gli operai come meri spettatori passivi e non protagonisti attivi di una vicenda tanto importante sia nella storia di questo Paese che per il proprio interesse diretto, non ha fatto altro che portarli ad essere null’altro che elementi della macchina produttiva da disporre come meglio si crede, dunque per il nuovo padrone (adesso vecchio in realtà) essi sono potuti essere merce da sfruttare nel momento del bisogno e mandare al banco dei pegni non appena non servissero più, questo si è tradotto in un elevato numero di cassintegrati che sono stati a volte considerati da alcune voci, in qualche occasione, come dei nullafacenti scansafatiche, come se fosse volontà degli operai quella di non lavorare. Ecco, l’aver portato in massa i dipendenti dell’acciaieria alle udienze come parti civili avrebbe dato un impulso alle loro, anzi nostre, motivazioni, e l’averli incoraggiati regolarmente alle proteste sarebbe stato un toccasana per la propria causa, ed oggi staremmo certamente a raccontare una storia differente, nel mentre è parecchio indicativo della posizione che occupano sapere che le organizzazioni sindacali che non hanno messo in condizione gli operai di costituirsi parte civile sono state esse stesse riconosciute come tali.

Un nuovo percorso che veda finalmente riconosciuti i diritti di chi subisce negativamente le conseguenze di una produzione fatta in maniera indiscriminata, non può non vedere come centrale l’intervento degli operai organizzati, dato che nessuno meglio di loro conosce le dinamiche all’interno delle fabbriche, e riconoscere questo sarebbe già un primo passo verso la conquista di questi diritti. C’è del lavoro da svolgere ma non è semplice, ed è quello di tornare a compattare la classe operaia per una nuova stagione di lotte, mai necessaria come in questo preciso periodo storico in cui in ogni parte del mondo, e non solo a Taranto, la ferocia del capitale si mostra pienamente in tutta la sua spregevole essenza.

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