giovedì 24 luglio 2025

Dalle assemblee indette da Fiom, Fim, Uilm sulla situazione Ilva/governo - L'assemblea di stamattina dei cassintegrati Ilva AS

La registrazione completa dell'assemblea/interventi

https://drive.google.com/file/d/1JgWS2uxG_BdvZVErfV453ef3mtqWfMxm/view?usp=drivesdk

Info da parte dell'operaio dello Slai cobas - i punti del suo intervento e un suo commento sull'assemblea

Info - Ilva, Urso spinge la ‘vendita spezzatino’: “Genova può essere ceduta da sola”. C’è l’interesse di Marcegaglia

Da Il fatto quotidiano

Il ministro ripropone la "autonoma valorizzazione" dello stabilimento ligure con il nuovo bando di gara. Al gruppo Marcegaglia interesserebbe perché vicino alla sua acciaieria di Fos-sur-Mèr 

Il governo va verso la vendita a spezzatino dell’Ilva. E, in vista della riapertura del bando, il ministro Adolfo Urso ventila la possibilità che l’impianto di Genova possa essere messo su piazza da solo. Del resto, a quanto apprende Ilfattoquotidiano.it, non mancano imprenditori interessati, a iniziare da Marcegaglia Steel che già in passato aveva sondato l’acquisto di una parte dell’azienda. La possibilità che il ministero delle Imprese e del Made in Italy decida di scorporare la cessione di Genova dal complesso aziendale, slegando il futuro dello stabilimento ligure da quello pugliese, è emersa durante il question time di Urso alla Camera...

...Una mossa che sembra concretizzarsi e cambiare le carte in tavola, anche se nel nuovo bando – fondato sul piano di decarbonizzazione presentato ai sindacati, scritto dal commissario Nicola Quaranta insieme a Boston Consulting – potrebbe affacciarsi un nuovo gruppo internazionale che avrebbe già sondato il terreno.

“La previsione di un forno elettrico a Genova – ha spiegato Urso – consentirà autosufficienza industriale”... “costituirà un asset suscettibile anche di autonoma valorizzazione nell’ambito della gara” per la cessione di Ilva, che verrà aggiornata dopo l’eventuale firma dell’accordo di programma con gli enti locali, prevista il 31 luglio se si riuscirà a convincere il sindaco di Taranto Pietro Bitetti ad accettare la nave rigassificatrice...
Marcegaglia lo sfrutterebbe principalmente per la laminazione dell’acciaio che porterebbe via nave da Fos-sur-Mèr, nelle vicinanze di Marsiglia, dove un anno fa ha rilevato un’acciaieria da Ascometal e sta spingendo sulla verticalizzazione del business... Nella gara degli scorsi mesi e che ora verrò riaperta si è invece fatta avanti per rilevare due siti – si parlava proprio di quello genovese di Cornigliano e di Novi Ligure – ma il governo ha poi deciso di andare avanti con la vendita integrale degli impianti. Ora una nuova possibile marcia indietro e il ritorno in campo.

Appello dalla Palestina per le mobilitazioni di questo fine settimana - Stop allo sterminio e fame - A Taranto in piazza/corteo sabato 26

حماس: ندعو لأوسع حراك شعبي بكل عواصم ومدن العالم أيام الجمعة والسبت والأحد حتى كسر الحصار وإنهاء المجاعة بغزة

حماس: ندعو لمظاهرات واعتصامات أمام سفارات الاحتلال والسفارات الأمريكية بالعالم لوقف جريمة التجويع في غزة

حماس: ما يجري في غزة لحظة فاصلة في الضمير الإنساني لنصرة غزة ووقف حرب الإبادة والتجويع

#عاجلChiediamo il più ampio movimento popolare in tutte le capitali e città del mondo venerdì, sabato e domenica per rompere l'assedio e porre fine alla carestia a Gaza.

- Ciò che sta accadendo a Gaza è un momento di svolta nella coscienza umana, per sostenere Gaza e porre fine alla guerra di sterminio e fame.
 
 

mercoledì 23 luglio 2025

Sull'assemblea alla piazzetta Gandhi di lunedì 21 - Info e posizione dello Slai cobas per il sindacato di classe

L'assemblea tenutasi lunedì nella piazzetta Gandhi ha visto la partecipazione circa 300 persone, tra associazioni ambientaliste, rappresentanze civiche, esponenti di partiti come 5 Stelle, consiglieri comunali, cittadini, aveva come tema unitario maggioritario la chiusura dell'ex Ilva, la denuncia del rinnovo dell’Aia  nonostante il parere negativo espresso dal sindaco di Taranto, di Statte, dal presidente della Provincia e dal presidente della Regione Puglia e invito rivolto ai consiglieri è di respingere ogni ipotesi di intesa che non preveda la dismissione definitiva degli impianti ritenuti inquinanti. No “compensazioni” in cambio della salute”.
Ma negli interventi si sono evidenziate differenze. 
Di seguito alcune sintetiche informazioni da parte di rappresentanti dello Slai cobas per il sindacato di classe che erano presenti all'assemblea.
Marescotti PeaceLink insiste sul ricorso al Tar contro l'Aia e sul fare pressione perchè non si accetti l'Accordo di programma;
Giustizia per Taranto nel valorizzare la grossa partecipazione ha sottolineato come fatto positivo che gli Enti locali abbiano detto no all'attuale accordo di programma presentato dal governo; e ha ricordato che ad ottobre comincerà un altro processo Ilva (simil "Ambiente svenduto") che riguarderà i danni odierni dell'ex Ilva all'ambiente;
Un ex operaio Ilva in rappresentanza di un movimento civico ha denunciato la Cisl che ha plaudito alle decisioni del governo, e l'assenza degli altri sindacati presenti in Ilva. Sì alla chiusura della fabbrica, però si deve risolvere il problema occupazionale degli operai mettendoli a lavorare nelle bonifiche:
Un ragazzo studente (unico a dirlo) ha detto che solo i lavoratori hanno la forza per cambiare lo stato di cose esistente;
I Liberi e pensanti hanno polemizzato con altri interventi, rivendicando che le cose che vengono dette ora le avevano dette insieme prima, poi vi è stata una divisione tra le varie realtà; no alle pressioni verso gli Enti locali vesro cui non bisogna avere nessuna fiducia perchè prima dicono no e poi sì. Quindi: dobbiamo fare da noi. Proposta di marciare sulla fabbrica per "chiuderla noi". Gli operai che potevano opporsi erano quelli del 2 agosto 2012. 
Un rappresentante dei 5Stelle ha detto di inviare una pec al sindaco sulla bozza di accordo;
Il consigliere Luca Contrario: importante che per la prima volta gli Ento locali hanno preso posizione; altro consigliere Lenti da "politicante" si è autodichiarato "Noi siamo la classe dirigente".
Le conclusioni sono state: 
- una Dichiarazione comune di "stato di emergenza sanitaria e ambientale"; evidenziando l’impatto delle emissioni che continua a colpire in modo grave la salute pubblica, soprattutto quella dei bambini e delle fasce più vulnerabili della popolazione. La Dichiarazione sarà inviata alla Presidenza del Consiglio, ai ministeri competenti, alla Commissione Europea, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e all’Organizzazione delle Nazioni Unite, chiedendo un’indagine internazionale indipendente,
- 24 luglio nuova assemblea in piazza Garibaldi;
- 30 luglio al Consiglio comunale sull'Accordo di programma.
 
LA POSIZIONE DELLO SLAI COBAS
In tutta questa questione/mobilitazione ambientalista che ora si è riaperta a Taranto, la massa degli operai non ha alcuna possibilità di farsi sentire. Ma gli operai Acciaierie, dell'appalto, gli operai in Cigs in Ilva AS sono in realtà il centro di tutto, e sono gli operai che possono e dovrebbero offrire una soluzione generale che risponde ai problemi di salute, inquinamento dei quartieri.
Su questo la deviazione, il freno, è costituito principalmente dalla linea e prassi dei sindacati in fabbrica confederali e Usb.
 
Noi siamo contro questa Aia, contro l'Accordo di programma. Il confronto su questo con gli Enti locali è sbagliato. 
Il Comune ha tutti gli strumenti, di legge, amministrativi, per intervenire in difesa della cittadinanza. Ma non lo fa! E, peggio, agisce con una logica di scambio tra accettazione dell'accordo di programma del governo e soldi e interventi su Taranto: interventi che si dovrebbero fare a prescindere e che non devono dare occupazione agli esuberi ex Ilva ma ai disoccupati, precari, giovani di Taranto. 
Se la nave rigassificatrice, gli impianti Dri inquinano, il Comune, la Regione hanno tutti gli strumenti per dire: Stop, senza chiedere a nessuno, nè fare accordi. Ma non lo fanno, non lo vogliono fare, al massimo denunciano ma si guardano bene dall'assumersi le loro responsabilità. Così di fatto si dice al governo: tu fai quello che ti serve, in cambio però dammi soldi per interventi Università, areoporto, ecc. ecc. 
 
Noi non siamo d'accordo neppure che gli operai ex Ilva abbiano una cassintegrazione di tantissimi anni come è già avvenuto per la Belleli e ora per la Cementir. Si tratta di soldi pubblici buttati che hanno anche l'effetto di spegnimento della forza operaia o peggio di corruzione. 
 
Noi siamo perchè gli operai siano impegnati nell'ambientalizzazione in fabbrica e nelle bonifiche dell'area industriale; e in questo siano tutti occupati dal nuovo padrone che si prenderà l'Ilva. 

Sit-in a Taranto contro il via libera all'Aia - info

Sit-in davanti alla Prefettura per denunciare il via libera all’Autorizzazione Integrata Ambientale, con l’opposizione compatta di Comune, Provincia e Regione. Cittadini e associazioni accusano il governo di ignorare la volontà del territorio e annunciano mobilitazioni permanenti.

 

TARANTO - Un grido di allarme si è levato da piazzetta Gandhi, nel cuore di Taranto, dove nella serata di ieri cittadini, associazioni e rappresentanze civiche si sono ritrovati per manifestare contro il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per lo stabilimento ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia. La protesta, organizzata dal movimento Giustizia per Taranto, si è svolta davanti alla Prefettura ed è stata l’occasione per lanciare un segnale forte e inequivocabile: la città rifiuta un modello industriale che continua a mettere a rischio la salute pubblica e l’ambiente.

«Non accettiamo un’AIA che continua a uccidere», è stato il messaggio scandito dai manifestanti, che hanno denunciato il rinnovo dell’autorizzazione da parte del governo nonostante il parere negativo espresso dal sindaco di Taranto, dal primo cittadino di Statte, dal presidente della Provincia e dal presidente della Regione Puglia.

Nel corso dell’iniziativa, il movimento ha ribadito la necessità di una presa di posizione netta da parte del consiglio comunale, che a breve sarà chiamato a discutere l’accordo di programma. L’invito rivolto ai consiglieri è di respingere ogni ipotesi di intesa che non preveda la dismissione definitiva degli impianti ritenuti inquinanti. Nessuna compensazione economica, secondo i promotori, può giustificare il proseguimento delle attività che minacciano la salute collettiva.

L’associazione promotrice ha tracciato un parallelo con quanto accaduto oltre 60 anni fa, quando fu decisa la costruzione della grande fabbrica: «Oggi come allora – affermano – Taranto è a un bivio. O si cambia davvero il destino della città o si diventa complici dell’ennesimo atto criminale».

Nel corso del sit-in è stata ufficialmente proclamata la dichiarazione di “stato di emergenza sanitaria e ambientale” per Taranto e i Comuni limitrofi, con effetto immediato e fino alla cessazione delle condizioni di rischio per la vita, la salute e l’ambiente. Una decisione condivisa da comitati civici, associazioni e cittadini, che hanno definito l’atto una forma di autodifesa collettiva, necessaria di fronte a scelte istituzionali considerate lesive dei diritti fondamentali.

Il comunicato diramato al termine della manifestazione mette in evidenza le criticità legate all’attuale assetto dello stabilimento siderurgico, sottolineando la presenza di “elevati livelli di rischio sanitario, ambientale ed ecosistemico”, già evidenziati da studi scientifici, rapporti epidemiologici, analisi condotte da Arpa e Ispra, nonché da pronunce della magistratura. Secondo quanto denunciato, l’impatto delle emissioni continua a colpire in modo grave la salute pubblica, soprattutto quella dei bambini e delle fasce più vulnerabili della popolazione.

Il documento accusa inoltre il governo di aver proceduto al rilascio dell’AIA ignorando la volontà delle comunità locali, alimentando così una “logica coloniale e predatoria” che sacrifica il benessere di un’intera popolazione in nome della continuità produttiva.

La dichiarazione sarà inviata alla Presidenza del Consiglio, ai ministeri competenti, alla Commissione Europea, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e all’Organizzazione delle Nazioni Unite. I promotori chiedono un’indagine internazionale indipendente, oltre all’attivazione di una mobilitazione permanente che prevede azioni di denuncia, monitoraggio civico, disobbedienza civile nonviolenta e partecipazione popolare continua.

Con questa iniziativa, Taranto ribadisce il suo rifiuto verso un sistema che da decenni – denunciano cittadini e attivisti – impone un prezzo insostenibile in termini di vite umane, salute e qualità ambientale. La protesta è appena cominciata

Ex Ilva, Gozzi dubbioso sul forno elettrico: "Chi paga l'energia?" - un commento

"I forni elettrici si devono fare soltanto garantendo a loro approvvigionamento di materia prima e approvvigionamento elettrico. Parlare di moltiplicazioni di forni elettrici senza garantire le condizioni di fattibilità e di alimentazione ai forni è molto rischioso per i forni elettrici che esistono già e che producono senza chiedere niente allo Stato 20 milioni di tonnellate e occupano 75.000 persone e sono un'eccellenza mondiale perché nessun paese al mondo produce l'85% dell'acciaio da forno elettrico e quindi decarbonizzato" così Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, a margine del convegno organizzato a Genova "Mediterraneo, le opportunità del piano Mattei per le imprese".

Il prossimi 4 agosto a Roma verrà presentato il piano di decarbonizzazione per l'ex Ilva che il governo ha messo a punto. Piano che prevede per Genova la realizzazione di un forno elettrico che segnerebbe il ritorno della produzione a caldo nello stabilimento di Cornigliano. 

"La priorità assoluta è Taranto. Bisogna salvare Taranto, bisogna fare in modo che il processo di rilancio della siderurgia tarantina e di decarbonizzazione della siderurgia tarantina vada avanti - ha spiegato Gozzi-. Naturalmente sono investimenti enormi perché parliamo di 3,6 miliardi di investimenti e finora è finanziato uno per un miliardo. Parlare di tre forni elettrici a Taranto significa parlare di un altro miliardo e mezzo di investimenti. C'è un progetto a Piombino da 2 miliardi e mezzo che è la fotocopia di quello che dovrebbe venire a Genova. Bisogna fare un po' il punto della situazione, perché se sommiamo complessivamente tutti questi investimenti parliamo di 10 miliardi da investire in siderurgia e io francamente chi investe in Italia 10 miliardi sulla siderurgia lo devo ancora trovare"

Tra i temi caldi anche il consumo di energia elettrica. "I forni elettrici sono macchine che consumano una quantità gigantesca. Il forno elettrico attaccato alla rete esistente probabilmente è possibile. Naturalmente c'è un tema di costo di quell'energia elettrica. Non dimenticatevi che siamo il paese europeo in cui l'energia elettrica costa più di tutti. Allora io mi chiedo: 5 forni elettrici in Italia nel paese in cui l'energia elettrica è più cara di tutta Europa?" ha aggiunto il numero uno di Federacciai. 

martedì 22 luglio 2025

OPERAI CON LA PALESTINA!

 


L'indicazione slai cobas per le assemblee ad Acciaieri e appalto

Usb su esuberi Ilva ha la stessa posizione di Urso/governo sull'Accordo di programma

Da giornale di Taranto

EX ILVA-TARANTO/Usb: un piano per blindare posti di lavoro e gestire esuberi da decidere in fase di Accordo

“Ballano davvero molti posti di lavoro. Questo significa che va stilato un piano preciso che consenta di blindarli e di gestire eventuali esuberi ricollocandoli in altre realtà. Questo va deciso ora contestualmente all'accordo”. Lo ha detto oggi il sindacato Usb nell’audizione in Regione Puglia (commissione Ambiente presieduta da Michele Mazzarano) dedicata a valutare l’accordo di programma proposto dal Governo per decarbonizzare l’acciaieria di Taranto e sul quale é attesa nei prossimi giorni la risposta del Comune di Taranto. “Non è ammissibile - ha detto Vincenzo Mercurio di Usb - che si rimandi a dopo la definizione delle questioni sindacali. Noi saremo d'accordo solo nell'ambito del perimetro da noi tracciato con l’assorbimento degli eventuali esuberi in enti locali, Arsenale e  Acquedotto Pugliese, ma anche con il riconoscimento del lavoro usurante e dell’incentivo all'esodo per coloro che ritengono di poter dare un contributo diverso all'economia locale”. 

Chiedere queste "soluzioni" è accompagnare il governo a fare piani di migliaia di esuberi in Acciaierie e appalto. 

Gli operai ex Ilva invece che impiegati nell'ambientalizzazione della fabbrica, nelle bonifiche dell'area industriale, dovrebbero andare a lavorare negli "Enti locali (Comune), nell'Arsenale, ACuedotto Pugliese" (qui ognuno si inventa ambiti in cui assorbire operai Ilva); togliendo posti di lavoro a disoccupati e prospettive di stabilizzazione ai tanti precari che ci sono negli Enti locali. Perchè mai?

Non solo, anche sugli incentivi all'esodo, perchè mai il governo dovrebbe dare soldi pubblici a chi va via dall'Ilva per pagargli aperture di bar, pizzerie, e via dicendo? mentre una qualsiasi persona non riceve alcun contributo. 

QUESTE POSIZIONI FANNO IL GIOCO DEL GOVERNO E DEI NUOVI PADRONI! 

lunedì 21 luglio 2025

Sit-in contro questa AIA questa sera - info solidale


Il governo Meloni usa il decreto Ilva per attaccare i diritti di tutti i lavoratori in Italia

Da fanpage

Una nuova norma al decreto Ilva, proposta dal relatore di Fratelli d’Italia, punta a restringere i tempi per far valere i crediti da lavoro, a limitare il diritto a una retribuzione dignitosa e a indebolire il ruolo della magistratura nel garantire la giustizia sociale.

L’articolo 9-bis riguarda "Termini di prescrizione e di decadenza in materia di crediti di lavoro e determinazione giudiziale della retribuzione dei lavoratori".

Al di là dei tecnicismi, significa scardinare due tutele fondamentali: la possibilità per i lavoratori di far valere i propri diritti senza temere ritorsioni durante il rapporto di lavoro e quella di ottenere in giudizio una paga dignitosa. In assenza di interventi sul salario minimo legale, affossati anche da questo governo, la prospettiva di portare davanti al giudice la propria busta paga, e di ottenere così una condanna al pagamento del giusto salario e delle differenze retributive, resta l'unico baluardo per chi viene sfruttato e sottopagato.

Anche questa tutela residua è troppo per la destra al governo, che intende anticipare la decorrenza della prescrizione, imporre nuovi obblighi giudiziali a pena decadenza e persino impedire ai tribunali di dare tutela in caso di retribuzioni troppo basse, limitando le ipotesi di intervento e addirittura vietando di condannare il datore di lavoro al pagamento degli arretrati, anche di fronte a una retribuzione insufficiente.

La proposta è potenzialmente incostituzionale e sicuramente dannosa per chi lavora: vediamo nel dettaglio perché.

Da quando decorre la prescrizione? Governo contro Cassazione

Il primo comma riguarda la prescrizione dei crediti da lavoro. Il termine di prescrizione è il tempo entro il quale si può far valere un diritto. Nel caso dei crediti da lavoro, come ad esempio retribuzioni non corrisposte o pagate solo parzialmente, il periodo è di cinque anni. Ma da quando decorre questo termine?

Corte di Cassazione e Corte Costituzionale hanno, negli anni, elaborato un’argomentazione molto logica: più il lavoro è stabile, più si presume che il lavoratore sia in grado di richiedere il rispetto dei suoi diritti. Quindi, per i dipendenti a cui si applicava l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella sua formulazione originaria, cioè quei lavoratori che, se ingiustamente licenziati, potevano fare causa per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, il periodo di prescrizione dei crediti iniziava dal momento in cui il credito sorgeva. Se un lavoratore non riceveva somme che gli sarebbero spettate, per far valere il suo diritto aveva cinque anni di tempo dal momento del mancato pagamento.

L’articolo 18, però, è stato prima modificato e depotenziato dalla riforma Fornero, poi accantonato dal Jobs act, con l’introduzione del cosiddetto contratto a tutele crescenti. Queste due riforme, in misura diversa, hanno ridotto la stabilità del lavoro, limitando le ipotesi di tutela reale, ossia di reintegrazione nel posto di lavoro.

La Cassazione ha quindi chiarito in più occasioni che, dopo queste riforme, con la progressiva compressione della tutela reintegratoria, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è più considerato stabile e il lavoratore può quindi non essere in grado di esercitare i propri diritti al meglio durante il rapporto professionale, per il timore di ritorsioni che lo porterebbero a perdere l'impiego. Per questo, la prescrizione per i crediti da lavoro non può più decorrere dal momento in cui sorgono i diritti, ma deve essere calcolata dal momento in cui termina il rapporto di lavoro.

Con un semplice comma, l’emendamento della destra al governo intende cancellare questa consolidata argomentazione giuridica, imponendo che la prescrizione quinquennale decorra già in costanza di rapporto, a prescindere dal timore (e dal rischio) di ritorsioni.

L’apparente illogicità dell’obbligo di far causa per ottenere i propri diritti

Non basta questo primo restringimento degli spazi di tutela: il secondo comma dell’emendamento Pogliese è pure peggio. La proposta prevede infatti l’obbligo, per il lavoratore che abbia interrotto la prescrizione del suo credito, di depositare un ricorso giudiziale entro 180 giorni, a pena decadenza. La decadenza significa la perdita di un diritto, che in questo caso è il diritto a un credito retributivo, cioè al denaro che sarebbe dovuto al dipendente per il lavoro che ha svolto.

Proviamo a chiarire con un esempio. Il lavoratore si accorge che non gli sono state pagate somme che gli spettano. Superando il timore di ritorsioni (visto che non ha più una tutela reale contro il licenziamento ingiustificato), invia una raccomandata al datore di lavoro, con la quale segnala la questione e richiede il pagamento dovuto. Se però entro sei mesi il lavoratore non fa causa, perde del tutto il diritto a ricevere quelle somme.

A prima vista, la norma sembra illogica: mentre da anni si cerca di ridurre il contenzioso giudiziario, qui si impone ai lavoratori di fare causa entro sei mesi, pena la perdita del diritto. Ma una logica c’è, ed è inquietante: scoraggiare le rivendicazioni, sapendo che nessuno si rivolgerebbe ai tribunali già intasati per cifre modeste, anche se dovute. E non si tratta soltanto di mancata tutela dei diritti, ma della loro cancellazione per legge, visto che l’assenza del ricorso giudiziario provoca la decadenza dal diritto del lavoratore.

L’attacco all’effettività della Costituzione: la presunzione di adeguatezza

Già quanto spiegato fin qui rappresenta una minaccia all'effettività dei diritti di chi lavora, come già denunciato da autorevoli giuslavoristi negli ultimi giorni, ma l'emendamento Pogliese non si ferma a prescrizione e decadenza. Il terzo comma del proposto articolo 9-bis arriva al punto di impedire ai giudici di dare tutela a chi è stato sottopagato.

In Italia, infatti, non esiste il salario minimo legale. O, meglio, non esiste una legge che preveda la paga minima, ma esiste l'articolo 36 della Costituzione che, al primo comma, recita:

    Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Questa garanzia costituzionale ha sopperito e sopperisce, pur in maniera limitata, all'assenza di una legge sul salario minimo e cerca di correggere anche quei contratti collettivi che non garantiscono una paga oraria dignitosa. Il lavoratore che ritiene di essere sottopagato può infatti ricorrere al giudice che, verificata l'inadeguatezza del salario, ridefinisce lo stipendio secondo equità, attuando il principio costituzionale, e condannando il datore di lavoro a pagare le differenze retributive.

La proposta del senatore di Fratelli d'Italia scardina proprio questo meccanismo di tutela costituzionale. Il terzo comma dell'emendamento prevede infatti che la retribuzione "si presume proporzionata e sufficiente ai sensi dell'articolo 36 della Costituzione". Questa presunzione può essere superata solo qualora "venga accertata la grave inadeguatezza dello standard retributivo", tenendo conto anche "dei livelli di produttività del lavoro" (un indicatore che tra l'altro riguarderebbe l'organizzazione dell'impresa, più che l'impegno dei dipendenti).

La nozione di "grave inadeguatezza" introduce un filtro tanto vago quanto arbitrario, che rischia di svuotare di efficacia l’articolo 36 della Costituzione. Il risultato è che molte retribuzioni basse, pur ingiuste, resteranno fuori da ogni correzione. È un cambio di paradigma pericoloso: il principio costituzionale diventa un’eccezione rara, da usare solo nei casi estremi. E anche in quei casi, il comma successivo taglia comunque la possibilità di ottenere davvero giustizia.

Gravemente inadeguato ma impunito: il divieto di condanna agli arretrati

Il quarto comma dell’emendamento completa il disegno: anche quando il giudice accerta che il salario è gravemente inadeguato, e ridefinisce quindi una retribuzione proporzionata e sufficiente, non può comunque condannare il datore di lavoro a pagare le differenze retributive pregresse, purché questi abbia applicato un contratto collettivo nazionale, territoriale o aziendale stipulato ai sensi dell’art. 51 del d.lgs. 81/2015.

Basta quindi un contratto aziendale per mettere in salvo ogni violazione passata del diritto a una retribuzione dignitosa. Il datore che per anni ha pagato meno del minimo costituzionale resterà comunque impunito, purché formalmente allineato a un contratto collettivo. Anche se la paga era gravemente inadeguata, anche se il giudice lo accerta, anche se il lavoratore ha regolarmente svolto l’attività: il risarcimento delle differenze retributive viene escluso per legge.

L’effetto è ancora più paradossale se si immagina una persona sfruttata che, concluso il rapporto di lavoro, si rivolga al giudice: non potrà ottenere nulla per il periodo già trascorso, neppure dopo un accertamento pieno. Se l’unica prospettiva è l’adeguamento del salario per il futuro (o, nella migliore delle ipotesi, dal momento della diffida in poi), fare causa diventa privo di senso: il lavoro già svolto, anche se sottopagato, resta senza stipendio dignitoso.

Tra retorica e fatti: a chi conviene la strategia dell'estrema destra sul lavoro

Un progetto simile, che condensa in quattro commi l'attacco alle tutele residue verso chi lavora, non è che una conferma della concezione che il governo Meloni ha del mondo del lavoro. Il rispetto dei diritti della classe lavoratrice non è una priorità di questa destra e i fatti di questi primi 1000 giorni di governo lo dimostrano: dall'affossamento delle proposte sul salario minimo alle bugie sulle assunzioni di nuovi ispettori del lavoro, dalla precettazione illegittima degli scioperi alle scelte retoriche di strumentalizzazione del Primo maggio, tutto concorre a una visione del lavoro e del diritto contraria a quel che prevede la nostra Costituzione socialdemocratica e antifascista.

L'attacco non riguarda soltanto chi lavora e intende rivendicare i propri diritti, ci sono altre due vittime di questo emendamento e di questa strategia politica: le imprese e la giurisprudenza.

Oltre ai lavoratori sfruttati, se passasse un emendamento simile, il danno riguarderebbe anche le imprese che non sfruttano. Un sistema che favorisce l’abuso, che limita la possibilità di rivendicare e tutelare i diritti, crea un mercato falsato e drogato: se la competitività si gioca sul costo del lavoro (cioè sulla povertà dei lavoratori), gli imprenditori che si rifiutano di diventare sfruttatori si trovano a competere in condizioni di palese concorrenza sleale, mentre chi sottopaga i dipendenti gode di una prospettiva di impunità.

Sullo sfondo continua poi l'attacco sistematico alla magistratura. L'emendamento Pogliese appare incostituzionale: nel metodo, perché introduce una norma disomogenea in sede di conversione del decreto Ilva; nel merito, perché è una proposta irragionevole e contraria a diritti costituzionalmente garantiti, su cui la giurisprudenza più autorevole ha ormai pacificamente pronunciato sentenze consolidate.

Ed è proprio questo il punto. Il sindacato giurisdizionale, la possibilità che la magistratura corregga quel che il mercato distorce, riportando diritti laddove c'è sfruttamento, è considerata un ostacolo da superare nella costruzione di un modello autoritario e centralizzato di gestione del potere. La proposta di legge, scavalcando le sentenze consolidate sulla tutela del salario minimo costituzionale e sui crediti retributivi, si inserisce in un disegno più ampio di riduzione dei contrappesi democratici.

Difficile non notare, in questo favore agli sfruttatori, il perseguimento dell'ulteriore obiettivo di limitare il ruolo di controllo della magistratura, riducendo la giustizia a un semplice strumento al servizio del governo e delle élite economiche. Privare i giudici della possibilità di garantire effettività ai diritti significa svuotare di contenuto l’articolo 36 della Costituzione, trasformando la legge in uno strumento di legittimazione dello sfruttamento anziché di tutela.

Ex Ilva assemblee in fabbrica - E' la piattaforma operaia che serve e deve avanzare tra i lavoratori

Fim, Fiom, Uilm hanno indetto ssemblee all'ex Ilva nei giorni 22-23-24.

Portare la piattaforma operaia.

Il 25 ci sarà il Consiglio di Fabbrica, aperto alle istituzioni, per approvare le indicazioni emerse dalle assemblee.

Poi noi le commentiamo con un vocale e un volantino.

LA PIATTAFORMA OPERAIA

Nessun esubero ma per davvero in Acciaieria e appalto
Riduzione dei numeri della cassa integrazione con integrazione salariale, da estendere agli operai delle ditte dell'appalto
Tutti i lavoratori utilizzati nel processo di ambientalizzazione della fabbrica e nelle bonifiche dell'area industriale
No al contratto multiservizi nell'appalto acciaieria/porto - contratto unico a tempo indeterminato per tutti gli operai dell'appalto;
sul fronte sicurezza sul lavoro: postazione ispettiva permnanente all'interna dell'area industriale/porto 
Si all'estensione prepensionamenti, amianto, lavori usuranti

No all'Accordo di programma che prevede tutta una serie di attività date a Taranto in cui convogliare gli esuberi dell’Ilva. Quindi un accordo che dice già sì a migliaia di esuberi.

sabato 19 luglio 2025

La piattaforma operaia, la lotta operaia, il sindacato di classe nelle mani degli operai, unità proletaria e popolare nella città

Nessun esubero ma per davvero in Acciaieria e appalto - Riduzione dei numeri della cassa integrazione con integrazione salariale, da estendere agli operai delle ditte dell'appalto - Tutti i lavoratori utilizzati nel processo di ambientalizzazione della fabbrica e nelle bonifiche sul territorio - No al contratto multiservizi nell'appalto acciaieria/porto - contratto unico a tempo indeterminato per tutti gli operai dell'appalto;
sul fronte sicurezza sul lavoro / postazione ispettiva permnanente all'interna dell'area industriale/porto 
Si all'estensione prepensionamenti, amianto, lavori usuranti

No all'Accordo di programma che prevede tutta una serie di attività date a Taranto in cui convogliare gli esuberi dell’Ilva. Tutte queste attività, una tra tutte: assumere gli operai in esubero nel pubblico impiego e così via - sono inaccettabili per principio. Non è che non si voglia l’aeroporto o un aumento degli organici nel pubblico impiego, o un’università che funzioni meglio, miglioramento della sanità, ecc.; ma queste si devono fare, a prescindere, e col lavoro a tanti disoccupati, precari che aspettano da anni stabilizzazione, giovani, donne di Taranto. Non per gli operai che devono lavorare nelle attività industriali, nella bonifica della fabbrica.

Slai cobas per il sindacto di classe 

luglio 2025 

venerdì 18 luglio 2025

Ex Ilva - Il governo Meloni/Urso per conto dei padroni fa approvare l'AIA tamburo battente fingendo di trattare - No a questa Aia/no all'accordo di programma

L'alternativa Slai cobas è un'altra

Punto sulla situazione all’Ilva - da una intervista dello Slai cobas a Radio Blackout Torino

L'intervista è di martedi  16 luglio

La fabbrica doveva essere assegnata agli azeri. Ma è emersa la questione della nave rigassificatrice. Gli azeri sono specialisti nella vendita, approvvigionamento e fornitura di gas. L’impianto di Taranto era una tappa di questa prospettiva. Senza il gas non c’era tutto il resto e l’interesse degli azzeri cadeva. A quel punto è cominciata una sorta di telenovela che si protrae anche in queste ore: prima si fa la nave rigassificatrice, dopo si assegna eventualmente agli azeri la fabbrica, in cui comunque la produzione sarebbe stata ridimensionata, ma era centrale il gas. E qui sono cominciati i problemi, perché la nave rigassificatrice, comunque la si voglia presentare, è un aggravamento del peso ambientale sulla città. E per di più la vendita quasi a scatola chiusa per operai e popolazione, della serie: intanto vi prendete la nave e poi si vedrà, gettava ombre su tutto ciò che avrebbe dovuto seguire, l’ambientalizzazione, esuberi, ecc.

Da allora è cominciata da un lato la perplessità generale dei sindacati che però in una sola occasione hanno fatto una effettiva risposta di lotta con occupazione stradale, e dall’altro è cresciuto a livello cittadino il movimento che dice no a rigassificatore - con due posizioni di fondo, una che dice chiudiamo tutto e buonanotte e l’altra che dà una chance all’ambientalizzazione però pone dei paletti prima fra tutti i rigassificatori.

Qui il governo ha cambiato ritmo ed è passato ad una aperto ricatto verso i lavoratori e la città, con diverse fasi. La fase ultima è: o vi prendete la nave rigassificatrice oppure la fabbrica chiude a fine mese. Chiaramente la fabbrica è entrata estremamente in difficoltà per effetto anche dell’incendio dell’altoforno che ha prodotto come inevitabile conseguenza il blocco, il sequestro dell’altoforno. Il governo ha colto l’occasione per spostare l’attenzione sui magistrati dicendo che sono loro che stanno impedendo che la fabbrica prosegua e stanno allontanando i soggetti che la vogliono comprare. 

Ma poi tutto è diventato un ostacolo: la necessità di un accordo di programma che coinvolgesse gli enti locali, che dovevano firmare seduta stante così com’era l’attuale Ilva con una lunga cassintegrazione; era un ostacolo anche voler sapere di più sugli esiti sia occupazionali che industriali. E quindi si è entrati in una fase di ultimatum-ricatto fatto dal governo che intanto però faceva trapelare che gli azeri alla fine potevano non esserci, e che dovevano essere richiamati in campo nuovi soggetti, gli indiani e il sempre misterioso fondo Bedrock americano canadese. Nello stesso tempo si sono sollevate le voci degli industriali dell’acciaio italiani che da un lato hanno detto che forse la nazionalizzazione in questo momento poteva servire per guadagnare tempo e mettere in condizioni di assegnare l’impianto, e dall’altro esprimevano la disponibilità a prendersi l’azienda ma in un quadro di spezzatino Genova/impianti del nord.

In questa situazione è scoppiata una fase che potremmo chiamare di “tempesta perfetta” in cui le dichiarazioni di ognuno erano volte a risolvere il problema ma in realtà andavano tutte in una direzione di non risoluzione.

Ora siamo a un ritorno alla casella iniziale però sotto un clima di ultimatum agli operai e alla città.

Gli azzeri non è più detto che ci siano e il giornale della confindustria Sole 24 Ore parla esplicitamente di rientro di Jindal, che intanto ha preso lo stabilimento di Piombino insieme agli ucraini, facendo arrivare il preridotto dai propri impianti in Oman, e quindi potrebbero fare a meno della nave rigassificatrice a Taranto.

Da parte degli industriali italiani, non vedono l’ora di liberarsi di Taranto di mettere le mani sulla siderurgia consociativa e corporativa, perché è tale la posizione di Genova, e Taranto vada a qualcun altro. Si tratta di posizioni inaccettabili.

Per gli operai sono in campo le cosiddette “due proposte”. Una che prevede una lunga cassitegrazione che prima doveva durare 11 anni o più e poi sarebbe ridotta a 7-8 anni; intanto si cerca di rimettere su la fabbrica così com’è recuperando altoforni fermi, compreso quello sequestrato dalla magistratura, per cercare di mantenere una produzione accettabile.

Intanto si dovrebbero pianificare tre forni elettrici e tre impianti di produzione del preridotto a Taranto, sempre però alimentati dalla nave rigassificatrice, che prima doveva essere al centro città, poi andava spostata di 12 chilometri (però il governo dice che questo spostamento sarebbe economicamente costoso).

L’altra proposta è: vi prendete solo i tre forni elettrici, spostiamo a Genova il preridotto; il gas eventualmente servisse si sposta a Gioia Tauro; così a Taranto rimangono quattro gatti in fabbrica, con 15mila esuberi effettivi, perché crollerebbe l’appalto e l’indotto. In questa ipotesi Genova si troverebbe beneficiata di questa vicenda assurda.

Per gli operai ci sarebbero soprattutto esuberi, e una ricollocazione improbabile e inaccettabile, perché qui il famoso Accordo di programma dovrebbe prevedere tutta una serie di attività date a Taranto in cui convogliare gli esuberi dell’Ilva. Tutte queste attività, una tra tutte: assumere gli operai in esubero nel pubblico impiego e così via - sono inaccettabili per principio. Non è che non si voglia l’aeroporto o un aumento degli organici nel pubblico impiego, o un’università che funzioni meglio, miglioramento della sanità, ecc.; ma queste si devono fare comunque, non c’entrano con l’Ilva, ma col lavoro a tanti disoccupati, precari di Taranto. Non per gli operai che devono lavorare nelle attività industriali, nella bonifica della fabbrica.

Infine. Chi l’ha mai detto che gli operai e i cittadini debbano essere loro i soggetti che devono risolvere i problemi del capitale? Se il potere passa nelle mani dei lavoratori e del popolo, allora Sì.

Ma che tutto l’ambaradan sindacale e ambientalista debba essere al capezzale del governo, dei piani dei padroni per vedere come possono riprendere i profitti, e collocarsi meglio nella acuta guerra commerciale mondiale dell’acciaio, guerra dei dazi e così via, non si vede perché.

Gli operai, la parte consapevole della fabbrica e delle masse popolari della città sono dall’altra parte. Devono fare una lotta anticapitalista. Che oggi significa rigida difesa dei lavoratori e guerra sociale per ottenere le rivendicazioni sociali giuste che riguardano l’ambientalizzazione, la sanità e tutto il resto.

Quindi è un’altra via, che chiaramente è quella che vorremmo noi. Un’altra strada in cui gli operai o la prendono o sono destinati ad essere il famoso “cadavere che passa nel fiume” mentre gli altri fanno profitti.

Cisl - La longa manu del governo tra i lavoratori

 Dal blog proletari comunisti


Usare la parola "sindacato" - anche il più collaborazionista con padroni e governi - per la Cisl è inappropriata. 

Se la politica, i piani della Cisl, sono quelli espressi dalla attuale dirigente nazionale, Daniela Fumarola (*), al congresso aperto il 16 luglio, e prima ancora da Sbarra con la legge corporativa sulla "partecipazione dei lavoratori all'impresa" - grazie a cui è stato nominato/premiato dalla Maloni sottosegretario per il sud? - ; così come l'opposizione ai referendum sui diritti dei lavoratori e degli immigrati (per indicare gli ultimi decisivi passaggi che hanno caratterizzato la linea e l'azione della Cisl), questa organizzazione che si dice "sindacato" agisce tra i lavoratori, le lavoratrici come rappresentante dei padroni e del governo, voce degli interessi di chi opera ogni giorno per peggiorare la condizione dei lavoratori, per togliere diritti. 

Giustamente il giornale Il Manifesto scrive: "il congresso della Cisl è stato allestito come una kermesse di un partito di maggioranza. Lo dimostra il programma che prevede la presenza di ben 4 ministri, più il meloniano Raffaele Fitto... e altre personalità riconducibile alla destra di governo". 

E in effetti, la dirigente ha parlato come se fosse segretaria di un altro partito di destra. 
Il governo non può agire direttamente tra i lavoratori; anche oggi, per quanto la situazione soggettiva tra i lavoratori non va affatto bene, se il governo, la Meloni, i ministri intervenissero direttamente sarebbero mandati a quel paese; ci vuole, quindi, un sindacato che formalmente lo è, ma che parla e agisce come un'altra gamba del governo. 

Nel suo intervento la Fumarola ha lanciato un «grande patto di responsabilità: governo, sindacato e sistema delle imprese che partecipino insieme verso obiettivi comuni»; dando seguito al patto, ora legge, neo corporativo di Sbarra - che lega i lavoratori esplicitamente alle sorti delle aziende. In sintesi: "se l’impresa fa utili io partecipo alla spartizione di una minima quota di quegli utili, ottenuti grazie allo sfruttamento degli operai, al taglio dei costi del lavoro/dei salari; se l’impresa perde, io me ne faccio carico, mettendo una parte del mio salario, collaborando nella gestione dei licenziamenti, della riorganizzazione produttiva, del ridimensionamento, se non della completa scomparsa dell’impresa…".

Per questo uno dei primi saluti fatti dal palco da Giorgia Meloni - accolta con grande calore dalla Daniela Fumarola, un pò meno dai delegati cisl - è stato al neo sottosegretario, Sbarra, dicendo: «Sono fiera di averlo tra i banchi del governo». E sulla legge sulla partecipazione, parla di «conquista storica» perché contribuisce a scardinare «quella distruttiva e vecchia visione conflittuale tra lavoratori e datori di lavoro, tra padrone e operaio». Quindi, non solo nessuna "vecchia" contrapposizione, e "antica" lotta di classe, ma un "vogliamoci bene tra operai e padroni". Chi non è su questa posizione di fatto, ha praticamente detto la Meloni, è assimilabile alle Brigate rosse, ricordando, non a caso, nel suo intervento gli assassinii di professori, collaboratori dei governi, che hanno contribuito (vedi Biagi) a cancellare quelle poche leggi a favore dei lavoratori e ad iniziare la stagione lunga di leggi e prassi per cui i lavoratori sono "usa e getta" e non devono pretendere alcun diritto.   

La Daniela Fumarola «soddisfattissima» dell'intervento e complimenti della Meloni, l'ha assicurata: sul patto «andremo avanti con chi ci sta».

Continuando la Fumarola ha attaccato i referendum di giugno, dicendo che si tratta di "arnesi vecchi e pesanti, indossando armature di un tempo che non c’è più..., (occorre rimuovere) "troppe tare antiche...". Quindi. operai, lavoratori tutti, precari scordatevi di avere diritti, questo poteva accadere in un tempo passato, ora non più. E - tanto per essere chiari - oggi i lavoratori non devono lottare, prendersela con chi, padroni e governo gli rende la vita impossibile, li licenzia, gli fa contratti "usa e getta", gli aumenta i carichi di lavoro, attacca ancor più sicurezza e salute, li fa morire... NO! Perchè, ha detto Fumarola, è «facile prendersela con qualcuno se le cose non funzionano, piuttosto che rimboccarsi le maniche e affondare le mani nella creta del possibile».

Sul resto, la dirigente Cisl "lancia giusto una proposta sullo ius scholae ma per ribadire che non sarà una spina nel fianco della maggioranza, si dice favorevole al nucleare e contraria al salario minimo".

Fumarola nei vari passaggi si è presa la "pizzicata" con gli altri sindacati confederali, Cgil, Uil, che, ma non poteva essere diversamente, hanno risposto tutto sommato timidamente, chiedendo rispetto (reciproco), facendo notare, soprattutto Landini, che di patti loro ne hanno sottoscritto eccome, ma "c'è un problema di applicazione". 

Ma la realtà è che, tra i lavoratori, le lavoratrici, va ben compresa la natura della Cisl e la sua funzione attuale nel movimento dei lavoratori; essa non va affatto sottovalutata e normalizzata. Certo anche gli altri sindacati confederali, Uil, Cgil, sono da tempo collaborazionisti, e quando possono cogestori dei processi anti lavoratori nelle fabbriche, nei posti di lavoro; ma la Cisl va oltre. E' il corporativismo di stampo fascista, che lega, come la corda sostiene l'impiccato, i lavoratori al sostegno dei padroni e del governo, un corporativismo che viene sempre più dai vertici Cisl praticato, politicamente, sindacalmente, ideologicamente. La Cisl è il sindacato giusto nella marcia del sistema borghese verso un moderno fascismo.

Questo va subito capito dagli operai, dai lavoratori, dalle lavoratrici, per trarne le necessarie conseguenze.

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 (*) Noi di Taranto conosciamo benissimo la Daniela Fumarola, la sua politica, attitudine di serva verso l'Ilva e i governi.

 

Lavoratrici e lavoratori dei supermercati Lidl in sciopero e sit-in a Taranto - Solidarietà dallo Slai cobas

Da Taranto Buona sera

Supermercati Lidl, braccia incrociate a Taranto e provincia: sciopero e sit-in dei lavoratori
Sindacati in protesta dopo il fallimento del tavolo nazionale: salari fermi, nessun passo avanti sull’organizzazione del lavoro.

Oggi per l’intero turno di lavoro, le lavoratrici e i lavoratori impiegati in tutti i punti vendita LIDL di Taranto e provincia, sono in sciopero, accompagnato da un sit-in dalle 9.30 alle 12.00 davanti al supermercato di via Mediterraneo, in risposta al nuovo nulla di fatto registrato al tavolo nazionale sulla trattativa per il contratto integrativo aziendale.

Il nuovo sciopero arriva a meno di una settimana dalla riunione del 10 luglio, convocata a livello nazionale per discutere della parte economica del contratto integrativo, e naufragata per l’ennesima volta davanti alla proposta ritenuta “irricevibile” da parte di LIDL. «A fronte di richieste legittime che vanno da 100 a 300 euro, l’azienda ha messo sul tavolo soltanto poche decine di euro in buoni spesa, ignorando completamente il carico crescente imposto al personale», hanno spiegato i rappresentanti sindacali.
Oltre al tema salariale, le organizzazioni sindacali lamentano l’assenza di progressi sull’organizzazione del lavoro e sulla gestione delle flessibilità per i contratti part time. 
I sindacati confermano che la mobilitazione non si fermerà, e che continueranno a sostenere i lavoratori finché non verranno riconosciuti diritti e dignità a chi ogni giorno garantisce il funzionamento della catena commerciale.

26 luglio - tutti e tutte al corteo Palestina/Riarmo/basta con il governo Meloni complice info 3519575628

Sull'AIA per l'Ilva - Un commento - info

di Francesco Gaeta - Post

C’è un documento che sarà decisivo per il futuro dell’ex ILVA di Taranto, il più grande impianto siderurgico d’Europa tra quelli ancora alimentati a carbone. Si chiama “Autorizzazione integrata ambientale” (AIA), viene emessa ad hoc per gli impianti che hanno determinate caratteristiche, e contiene indicazioni che il futuro gestore dell’impianto dovrà seguire per ridurne l’impatto ambientale e tutelare la salute di chi ci abita vicino. Visto che l’obiettivo del governo è vendere l’ex ILVA, sapere cosa preveda l’AIA significa comprendere quali condizioni l’eventuale acquirente dovrà rispettare: e anche, di conseguenza, quanto sarà difficile vendere.

L’ultima AIA dell’ex ILVA di Taranto venne fatta nel 2011 ed è scaduta da due anni, perciò va rinnovata. Per farlo serviva un lavoro preliminare di una commissione appositamente nominata del ministero dell’Ambiente, concluso di recente e depositato in un documento che si chiama “Parere istruttorio conclusivo” (PIC). È un testo riservato che il Post ha potuto visionare e che potrebbe essere approvato questa settimana. È lungo oltre 400 pagine, contiene 472 prescrizioni e integra e sostituisce 33 provvedimenti governativi che dal 2011 sono serviti per specifici interventi di salvaguardia dell’ambiente: cose come la copertura dei depositi di minerale ferroso per evitare la diffusione di polveri, la copertura dei nastri trasportatori, la gestione delle acque di scarico.

Per capire meglio l’importanza di questo documento, bisogna aprire una parentesi di contesto. Il governo controlla da più di un anno l’ex ILVA in amministrazione controllata, dopo la fallimentare gestione del gruppo franco-indiano ArcelorMittal, a sua volta preceduta da altri commissari pubblici e prima ancora dal gruppo Riva, che la acquisì negli anni Novanta quando era uno stabilimento pubblico, l’Italsider. Ora vorrebbe sbarazzarsene e trovare un modo per risolvere una volta per tutte gli annosi problemi ambientali e occupazionali legati all’impianto.

In questi giorni il documento più raccontato dai media non è l’AIA ma la bozza dell’accordo di programma, un documento che dovrebbe fissare modi e tempi della decarbonizzazione, cioè il passaggio per l’impianto a un sistema di produzione meno inquinante rispetto agli altoforni alimentati a carbone. Devono approvarlo tutte le parti che hanno un qualche titolo a decidere sul futuro dell’ex ILVA: il ministero delle Imprese, che ne è il proprietario e lo gestisce attraverso tre commissari straordinari; la Regione Puglia; il comune di Taranto; i sindacati. Per ora non ci sono accordi su tempi, modi e costi della transizione: l’ultima riunione si è tenuta il 15 luglio e ha rinviato tutto al 31 luglio.

I due percorsi – accordo di programma e AIA – si intrecciano ma hanno un diverso grado di efficacia. Il primo è un atto di indirizzo politico, riguarda il futuro industriale dello stabilimento e non prevede sanzioni in caso di inosservanza. L’AIA, al contrario, vincola giuridicamente il gestore, riguarda la sicurezza collettiva e la sua inosservanza può portare alla chiusura dello stabilimento: le prescrizioni dell’AIA devono essere rispettate dall’eventuale acquirente.

Nel testo del “Parere istruttorio conclusivo” (PIC) ci sono almeno tre punti rilevanti.

Il primo è il limite massimo di produzione annua, che per essere compatibile con la salute pubblica è fissato a 6 milioni di tonnellate di acciaio. Secondo calcoli indipendenti, è la soglia minima per portare a pareggio costi e ricavi, se si vogliono mantenere il numero di lavoratori odierno (circa 8.000 addetti diretti) e le attuali tecnologie di produzione, cioè altoforni alimentati a coke, un residuo del carbone fossile. Ma è una cifra inferiore agli 8 milioni di tonnellate originariamente richiesti dal gestore, cioè i commissari governativi, perché ritenuta economicamente più sostenibile. In ogni caso non sarà facile arrivare neanche a 6 milioni: a Taranto oggi solo un altoforno su quattro è in funzione, perché la manutenzione sugli altri negli ultimi anni non è stata adeguata. Nel 2024 l’impianto ha prodotto meno di 2 milioni di tonnellate di acciaio, una quota che non compensa i costi.

Questo sta aggravando una situazione finanziaria già compromessa: a fine 2022 il debito dell’ex ILVA era di 4,7 miliardi di euro, ed è l’ultimo dato pubblico disponibile.

Per raggiungere la soglia dei sei milioni di tonnellate di acciaio all’anno, il PIC prescrive diversi interventi di ammodernamento dei tre altoforni inattivi e in generale degli impianti. Sono necessari per riportare la produzione a regime assicurando il minor impatto ambientale possibile. In caso di vendita toccherà realizzarli a chi subentrerà nella gestione.

L’altro punto rilevante del PIC riguarda la decarbonizzazione, che è appunto il tema al centro dell’accordo di programma. La cosa notevole è che su questo punto il documento preparatorio dell’AIA non dice nulla di concreto. Si limita a prescrivere che entro un anno dall’approvazione il gestore presenti un piano per sostituire il carbone e i combustibili fossili. «Tale piano deve includere un cronoprogramma di dettaglio delle attività e degli obiettivi previsti», dice. È in sostanza un rinvio, che anche in questo caso lascia in carico all’eventuale acquirente tempi e costi dell’operazione.

Sono costi elevati, di tipo economico e sociale. Gli altoforni a carbone dovrebbero essere sostituiti dai forni elettrici ad arco, che sono in uso in circa l’80 per cento degli impianti siderurgici italiani e che nel tipo di impianto previsto per il futuro dell’ex ILVA lavorerebbero una materia prima che si chiama “preridotto”. Il preridotto è ottenuto trattando il minerale di ferro con gas a base di metano o idrogeno, dunque senza fusione e uso di carbone. Il materiale viene poi fuso nel forno, che usa energia elettrica ad alta tensione per raggiungere le temperature necessarie alla fusione. Questo processo consente di ridurre drasticamente le emissioni di CO2 e di altre sostanze inquinanti.

Il problema è che i forni elettrici e gli impianti di preridotto costano tanto e impiegano molti meno addetti rispetto agli altoforni. Secondo uno studio della Fondazione Giuseppe di Vittorio, per ognuno di essi a Taranto occorrerà spendere da 800 milioni di euro a 1 miliardo. Stando a quello che si è letto dell’accordo di programma, ne sono previsti tre. Secondo gli standard internazionali, una lavorazione a carbone prevede 1.000 addetti per ogni milione di tonnellate di acciaio prodotto all’anno, mentre un sistema produttivo a forni elettrici e impianti di preridotto non occuperebbe più di 400 lavoratori per ogni milione di tonnellate: il 60 per cento in meno.

L’inevitabile riduzione del personale derivante dalla decarbonizzazione non trova molto spazio nelle discussioni di questi giorni intorno all’accordo di programma. Succede per le stesse ragioni di consenso che hanno portato tutti i governi e le gestioni passate a non risolvere la questione: l’ex ILVA dà lavoro a circa 8mila persone, di cui attualmente circa la metà in cassa integrazione, e mandarle via per chiudere o riqualificare lo stabilimento è sempre stato ritenuto troppo costoso. Vendere l’impianto serve anche a scaricare questa difficile transizione sull’acquirente.

Per misurare la reale volontà politica del governo di procedere con la decarbonizzazione bisogna guardare a cosa ci sarà nell’accordo di programma sulla ricollocazione degli operai, che hanno un’età media di 50 anni e sono dunque lontani dalla misura classica che si usa in questi casi, cioè il prepensionamento. Se l’accordo di programma non conterrà misure chiare su questo punto, la decarbonizzazione potrebbe restare un annuncio più che una prospettiva reale.

La terza questione rilevante del PIC riguarda la salute. Su spinta di alcuni cittadini di Taranto, la Corte di giustizia dell’Unione Europea stabilì che nelle prescrizioni dell’AIA fosse inclusa anche una valutazione ufficiale dell’impatto della fabbrica sulla salute di chi vive intorno (attraverso una procedura tecnica chiamata VIS, Valutazione di impatto sanitario). La cosa singolare è che la VIS è come sempre affidata allo stesso gestore: chi produce le emissioni è cioè lo stesso soggetto che deve accertare i loro impatti sulla salute dei cittadini.

Esiste tuttavia un ente di controllo, che è l’Istituto superiore di sanità (ISS).

Nei mesi scorsi, per tre volte l’ISS ha chiesto al gestore, cioè ai commissari straordinari del governo, di integrare la valutazione di impatto sanitario inizialmente presentata lo scorso anno. Le richieste dell’ISS erano contenute in tre relazioni che sono state viste dal Post (e che sono riservate pur essendo di rilevanza pubblica).

Nel luglio del 2024 l’ISS scrisse che la VIS del gestore presentava «diversi limiti e lacune di informazione che appare necessario colmare per poter correttamente valutare l’impatto sulla salute» delle emissioni. Nel febbraio del 2025 aggiunse di aver trovato «incongruenze» rispetto alle linee guida stabilite dall’ISS stesso, e che quindi la VIS era da considerarsi inadeguata «per sottostima». A marzo, parlando della qualità dell’aria nel periodo dal 2017 al 2023, scrisse che «si riscontrano criticità per il benzene, con un aumento delle concentrazioni che richiede attenzione». Nel PIC si stabilisce dunque che entro tre mesi dall’approvazione dell’AIA il gestore trasmetta nuovi dati all’ISS, verificando meglio le emissioni e includendo l’impatto sulle aree confinanti con l’impianto.

giovedì 17 luglio 2025

La mozione operaia su riarmo/guerra/Palestina al presidio di Grottaglie (TA) in vista dell'iniziativa alla Leonardo - verso corteo a Taranto

 

 Intervento compagno Slai cobas sulla mozione operaia

 

  Interventi compagne di #iostoconlapalestina - Taranto - 1 

 

2 (stralci) - ...no alla riproposizione del solito pacifismo-umanitario, inneggiante ad una pace generica, neutra e neutrale, equidistante contro tutte le guerre, guerra generica e in generale.
I percorsi di mobilitazione, presidi che portano avanti questi obiettivi, questi slogan attraverso striscioni, comunicati e piattaforme, sono ambigui ed opportunisti, sono un vestito che sta bene ovunque e specialmente a chiunque, sono equidistanti dalle situazioni in atto e dal quadro geopolitico in cui avvengano.
D'altra parte questa narrazione “pace e contro tutte le guerre”, è quella portata avanti da mass media, da una propaganda borghese che fa capo a schieramenti radical chic e da campo largo, dal tutti insieme appassionatamente a prescindere. ricordiamoci del 15 marzo a Roma. I
Insipida ma velenosa la mistura di pace e guerra, una bandiera della pace senza aggettivi dietro la quale è comodo e facile sgambettare e quindi le guerre sono tutte uguali con relativo sventolio di bandiera della pace dalla Palestina all'Ucraina.
Quindi il contro la guerra, frase asettica, ci mette dentro di tutto e di più, l'Ucraina, la Palestina, Gaza, l'Iran; la mistura insipida di per la pace e contro le guerre offusca, sminuisce il genocidio in corso in Palestina. In Ucraina sono gli imperialismi che armano gli ucraini con l'appoggio dell'Occidente al servizio della Nato, con l'obiettivo di conquista di territori per il saccheggio delle ricchezze naturali.
In Palestina, in Gaza, in Giustania è in atto invece una guerra genocida pianificata negli anni per il dominio sempre da parte USA attraverso il suo avamposto nel Medio Oriente, Israele, e l'esproprio di tutta la Palestina è in atto. Non c'è una guerra fra imperialismi, ma una guerra impari, un genocidio contro un popolo che resiste da cento anni, quindi il cuore di ogni iniziativa deve essere la Palestina, la storia del suo popolo, della sua terra e della sua resistenza. E' della resistenza che bisogna cominciare a parlare, senza sé, senza ma, senza reticenze, senza omertà, senza asservimenti e complicità ad una narrazione occidentale dei suoi governi dell'Unione Europea che vuole offuscare, sporcare, infangare, delegittimare la inscindibile unità fra il popolo e le sue irrefrenabili organizzazioni di resistenza.
Resistenza da cui molto facilmente e diffusamente si prendono le distanze, o non se ne parla, anzi molto spesso se ne dà la colpa di quello che sta succedendo per mano dello stato illegale, ladro e criminale di Israele; ignorando cent'anni di storia, prima del 7 ottobre, prima della legittimazione rivoluzionaria del 7 ottobre 2023, un 7 ottobre che ha un valore storico e fondamentale nel far emergere la questione palestinese dal silenzio complice e di comodo, decenni e decenni di massacri, di ruberie, di saccheggi, di sfollamenti di milioni di palestinesi, di gazawi, distruzione di campi agricoli, appezzamenti dati alle fiamme con coltivazioni di animali, insediamenti a tutta forza e sempre di più di coloni, armati ed assassini, ladri di terre che sono una costola dell'esercito israeliano. Una pianificazione genocidaria finalmente “oltreggiata” dall'azione della resistenza di un popolo che ne è il cuore pulsante stesso, una resistenza che ha tuonato, che ha infranto il muro del silenzio, delle complicità e delle invulnerabilità dello stato abusivo e ventato, dello stato terrorista d'Israele.
Dal fiume al mare non è solo una frase e uno slogan, come non lo è Palestina libera, la Palestina non si indossa, non è un gadget, la palestina puzza di carni umane putrefatte, di sangue, di morte, di grida di fame e di sete, prese a proiettili, gettate nel sangue dagli israeliani e da tutto l'occidente complice e mandante. La Palestina è anche decisamente resistenza, lotta armata, la Palestina è orgoglio, è appartenenza, è storia di terra e di popolo nativo, di martiri e fiori e frutti profumati, è storia di padri e di madri, di figli nel tempo, la Palestina non si compra, non si vende, non si baratta e non vuole pietà e pietismo alcuno. I semi sono nella terra, il tempo li ha resi forti e custoditi, quel tempo che nulla cancella, nulla e nulla nessuno cancellerà, i figli della Palestina continueranno a risorgere di continuo, in un modo perpetuo continueranno a combattere nonostante tutto, siamo anche noi figli della Palestina e loro fratelli e sorelle
Palestina libera dal fiume al mare e onore sempre alla resistenza e ai suoi combattenti".


Corteo a Taranto 26 luglio - Chi sta con la Palestina scenda in piazza!


No genocidio/No deportazione

Palestina ai palestinesi 
Con la Resistenza palestinese 
Guerra di popolo fino alla vittoria 

Contro la guerra imperialista - Contro il riarmo Usa/Ue/Italia - Contro il governo Meloni complice. 

Blocchiamo tutto fino allo sciopero generale

Corteo a Taranto 26 luglio ore 18 

da piazza Ramellini fino a piazza Immacolata 

#iostoconlapalestina