I dissidi tra Luigi Di Maio e Beppe Grillo sul futuro dell’Ilva rischiano di arrivare tardi. Da sei anni la politica accompagna distrattamente l’agonia del siderurgico più grande d’Europa. L’ultimo scontro nasconde un dato di fatto: il gruppo sta già morendo. Nel 2016 Ilva produceva quasi 6 milioni di tonnellate di acciaio, le ultime proiezioni dicono che il 2018 si dovrebbe fermare a 4,5 milioni, 200mila tonnellate in meno del 2017. In un anno e mezzo Ilva ha perso quasi un quarto della sua
capacità produttiva e lo ha fatto in un periodo di forte ripresa del settore, in cui i concorrenti hanno fatto affari d’oro. Il 2011, ultimo anno dell’era dei Riva, si chiuse con quasi 8 milioni di tonnellate prodotte da un impianto la cui capacità sfiorava i 10 milioni di tonnellate. In 6 anni si è dimezzata.
La sfilza di piani di risanamento, decreti, commissariamenti e subcommissariamenti in questi anni non ha invertito il declino. Nel 2012, quando fu commissariata dal governo Monti, Ilva aveva un patrimonio netto intorno ai 2,5 miliardi; dopo 18 mesi il tribunale di Milano ne ha dichiarato l’insolvenza (aveva un capitale circolante negativo per 866 milioni e una posizione finanziaria netta negativa per 1,5 miliardi). Con questo trend l’Ilva ne avrà ancora per poco. L’azienda, in amministrazione straordinaria da gennaio 2015, perde quasi 30 milioni al mese. Oggi sono rimasti 60 milioni di liquidità degli 800 forniti dai vari governi: entro agosto al massimo si esaurirà. Le prostrazione del gruppo è conclamata. Gli impianti sono al limite per l’assenza di manutenzione e tecnici, si fatica perfino a coprire i turni, alcuni capi turno sono diventati responsabili di produzione. La crisi finanziaria ha azzerato il know how e gli impianti sono ormai obsoleti. Senza soldi in cassa, il gruppo ha dovuto ridurre gli acquisti di materia prima e la produzione è calata.
Oggi Ilva è a un bivio. Il gruppo ArcelorMittal, che ha vinto la gara del governo a marzo 2017 dovrebbe rilevare gli impianti entro il primo luglio, ma punta a riassumere 10mila dei 14mila operai diretti, con sacrifici anche sulla retribuzione. Una proposta irricevibile per i sindacati. Il rischio che Mittal si sfili, addossando la colpa a sindacati e politica, non è tramontato anche se viene considerato remoto da chi segue il dossier. In questa situazione il nuovo governo non sembra avere alternativa al colosso franco-indiano per evitare una vertenza occupazionale da 20mila lavoratori (compreso l’indotto). E per questo punta a strappargli impegni più forti sul piano ambientale per produrre acciaio senza bruciare carbone ma gas.
In questo scenario i concorrenti europei non si strapperanno i capelli se chiuderà un produttore la cui produzione potenziale è pari alla sovracapacità produttuiva del settore. Che l’Ilva torni ai livelli toccati nel 2008 ai tempi dei Riva, accusati dai magistrati tarantini di aver perpetrato un inquinamento ventennale a danno della città ionica, è oggi improbabile. Mittal punta a riportare in alto la produzione soprattutto portando a Taranto prodotti già semilavorati nei suoi stabilimenti francesi da laminare, una produzione con margini ridotti. Non a caso nel piano del colosso siderurgico gli esuberi saliranno nel tempo.
L’altro versante della partita è quello finanziario. Gli 1,8 miliardi offerti da Mittal andranno a ripagare i creditori (lo Stato rivedrà solo una parte dei suoi soldi, di cui il grosso è già imputato a perdita) soprattutto banche e fornitori. Dei 3 miliardi di debiti dell’Ilva, 1,5 sono riferibili agli istituti di credito, di cui 900 milioni fanno capo a Intesa Sanpaolo. Per dare il via libera alla vendita, l’Antitrust Ue ha imposto l’uscita dalla cordata del gruppo Marcegaglia, già grande debitore di Ilva. Le sue quote verranno rilevate dalla pubblica Cassa depositi e prestiti e, guarda caso, proprio da Intesa, banca con cui il gruppo Marcegaglia è esposto per una cifra che sfiora i 600 milioni. Un intreccio finanziario che non piace al nuovo governo ma difficile da sciogliere.