La teoria della compensazione rispetto agli operai soppiantati dalle macchine
“Tutta una serie di economisti borghesi”, dice Marx, “afferma che tutte le macchine che soppiantano degli operai liberano sempre, contemporaneamente e necessariamente, un capitale adeguato a occupare gli stessi identici operai.” Con una serie di esempi Marx dimostra che ciò non è affatto vero e che in genere il capitale che si “libera”, cioè che licenzia gli operai, insomma il capitale variabile si trasforma in capitale costante. Ciò significa che una parte del capitale “liberato” si sposta in un altro settore, per esempio, nella produzione delle macchine, ma anche qui, dice Marx “Nel migliore dei casi, la costruzione delle macchine occupa meno lavoratori di quanti ne scacci il loro uso.” E all’inizio di questo processo questo nuovo settore può impiegare un numero addizionale di operai, ma la macchina dura molto tempo per cui “per occupare durevolmente il numero addizionale di meccanici, un fabbricante … dopo l’altro dovrà soppiantare operai con macchine.”
Gli economisti, apologeti del capitalismo, hanno un loro linguaggio per descrivere questi fenomeni, per cui, dice Marx “Il semplice dato di fatto, per nulla nuovo, che le macchine liberano l’operaio dei suoi mezzi di sussistenza” che, cioè, le macchine prendono il posto degli operai che vengono licenziati per cui questi non hanno più la possibilità di acquistare ciò che serve loro per sopravvivere “suona dunque in linguaggio economico che le macchine liberano mezzi di sussistenza per l’operaio, ossia li trasformano in capitale per occupare l’operaio.” Quindi, gli operai licenziati senza lavoro, per gli economisti borghesi, sono una cosa buona dato che così con il nuovo capitale “liberato” si possono avere operai con il lavoro!!! Bella logica! Gli operai devono solo avere la pazienza di aspettare il tempo necessario per costruire nuove macchine, impiantare nuove fabbriche, dare inizio ad una nuova produzione e infine si incontrano di nuovo con il capitale! E sarebbe questa la teoria della compensazione? Marx aggiunge ironicamente che “Le sofferenze degli operai soppiantati dalle macchine” per i borghesi “sono dunque transeunti come le ricchezze di questo mondo.”
Quel che l’economista borghese nasconde, in realtà, ci dice Marx, è che il capitale che si
libera sotto forma di salari non si era mai contrapposto agli operai licenziati come capitale. Questa parte del capitale in salari gli operai la trasformano in merci, quindi gli operai sono qui compratori. “La circostanza che le macchine li hanno «liberati» di mezzi d’acquisto, li trasforma da compratori in non-compratori.” Quindi, diminuisce la domanda di quelle merci. Ecco tutto! Se questa domanda diminuita non viene compensata da una domanda aumentata da un’altra parte, il prezzo di mercato delle merci cala. Se ciò dura piuttosto a lungo e in una sfera piuttosto ampia, si ha uno spostamento degli operai occupati nella produzione di quelle merci. Una parte del capitale che prima produceva mezzi di sostentamento necessari, viene riprodotta in altra forma. Durante la caduta dei prezzi di mercato e lo spostamento di capitale, anche gli operai occupati nella produzione dei mezzi di sussistenza necessari vengono « liberati » di una parte del loro salario.” Dunque “le macchine gettano operai sul lastrico non soltanto nella branca di produzione dove vengono introdotte, ma anche nelle branche di produzione dove non vengono introdotte.”
“I dati di fatto reali”, aggiunge Marx, “che erano stati travestiti dall’ottimismo economico, [gli uomini al governo e gli economisti dei nostri tempi sono un esempio illuminante di questo tipo di ottimismo!] sono questi: gli operai soppiantati dal macchinario vengono gettati fuori dell’officina, sul mercato del lavoro, e quivi accrescono il numero delle forze-lavoro già disponibili per lo sfruttamento capitalistico. Nella settima sezione si vedrà che quest’effetto delle macchine che ora qui ci viene presentato come una compensazione per la classe operaia, colpisce al contrario l’operaio come il più terribile dei flagelli. Qui diciamo solo questo: certamente, gli operai scacciati da una branca dell’industria possono cercare occupazione in un’altra qualsiasi. Se la trovano, e se si riannoda così il vincolo fra loro e i mezzi di sussistenza insieme ad essi messi in liberta, ciò avviene per mezzo di un capitale nuovo, addizionale, che preme per essere investito, ma mai per mezzo del capitale che funzionava già prima e che ora è trasformato in macchinario.”
“È un dato di fatto indubbio”, puntualizza Marx, “che le macchine in sé non sono responsabili di questa «liberazione» degli operai dai mezzi di sussistenza. Le macchine riducono più a buon mercato e aumentano il prodotto nella branca che conquistano e in un primo momento lasciano inalterata la massa di mezzi di sussistenza prodotta in altre branche dell’industria. Dunque la società possiede, prima e dopo la loro introduzione, altrettanti mezzi di sussistenza, o anche di più, per gli operai soppiantati, fatta completamente astrazione dalla enorme parte del prodotto annuo che viene sperperata da non-operai. E qui sta il punto culminante dell’apologetica degli economisti!” per i quali “Le contraddizioni e gli antagonismi inseparabili dall’uso capitalistico delle macchine non esistono” perché per il loro cervello l’unico uso che si può fare delle macchine è quello capitalistico!
“Poiché dunque”, continua Marx, “le macchine, considerate in sé, abbreviano il tempo di lavoro mentre, adoprate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa, poiché le macchine in sé alleviano il lavoro e adoprate capitalisticamente ne aumentano l’intensità, poiché in sé sono una vittoria dell’uomo sulla forza della natura e adoprate capitalisticamente soggiogano l’uomo mediante la forza della natura, poiché in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo pauperizzano, ecc., l’economista borghese dichiara semplicemente che appunto bisogna considerare le macchine in sé. Così, dice Marx, “risparmia di doversi ulteriormente stillare il cervello, e per giunta addossa al suo avversario la sciocchezza di combattere non l’uso capitalistico delle macchine, ma le macchine stesse” e dunque “chi rivela come stanno in realtà le cose quanto all’uso capitalistico delle macchine” viene accusato dall’economista borghese di non volere addirittura che le macchine siano usate in genere, è diventa un avversario del progresso sociale!
L’introduzione delle macchine da un lato crea disoccupazione in un settore, ma nello stesso tempo, dato che aumenta la produttività e dunque la produzione, viene richiesta più materia prima e materiale accessorio di prima, per cui essa può creare un aumento momentaneo di lavoro in altri settori.
“Il primo risultato delle macchine”, dice Marx, “è di ingrandire il plusvalore e insieme la massa di prodotti nella quale esso si presenta, e dunque di ingrandire, assieme alla sostanza di cui si nutrono, la classe dei capitalisti e le sue appendici, questi stessi strati della società.” Insomma “Una parte maggiore del prodotto sociale si trasforma in plusprodotto, e una parte maggiore del plusprodotto viene riprodotta e consumata in forme raffinate e variate, in altre parole: cresce la produzione di lusso. La raffinatezza e la varietà dei prodotti deriva anche e nella stessa misura dalle nuove relazioni col mercato mondiale create dalla grande industria. Ormai non solo si scambiano mezzi di consumo esteri con il prodotto domestico, ma inoltre nella industria domestica affluisce una massa maggiore di materie prime, di ingredienti, di semilavorati, ecc. stranieri come mezzi di produzione. Assieme a queste relazioni col mercato mondiale cresce la richiesta di lavoro nella industria dei trasporti, che a sua volta si scinde in numerose nuove sottospecie.”
“L’aumento dei mezzi di produzione e di sussistenza, mentre il numero degli operai relativamente diminuisce, spinge alla estensione del lavoro a branche di industria i cui prodotti, come canali, docks di merci, tunnel ponti, ecc. portano frutti solo in un lontano futuro. Si formano, o direttamente sulla base delle macchine, o ad ogni modo della generale rivoluzione industriale che corrisponde alle macchine, branche della produzione del tutto nuove, e quindi nuovi campi di lavoro. Tuttavia lo spazio che questi nuovi campi di lavoro prendono nella produzione complessiva non è affatto considerevole, neppure nei paesi più progrediti.”
“Infine, lo straordinario aumento raggiunto dalla forza produttiva nelle sfere della grande industria, accompagnato com’è da un aumento, tanto in estensione che in intensità, dello sfruttamento della forza-lavoro in tutte le restanti sfere della produzione, permette di adoprare improduttivamente una parte sempre maggiore della classe operaia, e quindi di riprodurre specialmente gli antichi schiavi domestici sotto il nome di «classe dei servitori», come domestici, serve, lacché, ecc. sempre più in massa.” Per dare un quadro della situazione di allora in Inghilterra, Marx riporta infine una tabella in cui l’insieme degli operai veri e propri impiegati nelle fabbriche tessili, miniere di carbone e di metallo, officine e manifatture metallurgiche, “è minore del numero degli schiavi domestici moderni.” E conclude: “Che edificante risultato dello sfruttamento capitalistico delle macchine!”
Repulsione e attrazione di operai a mano a mano che si sviluppa l’industria meccanica
“Tutti i rappresentanti dell’economia politica dotati di senso di responsabilità”, dice Marx, “ammettono che la prima introduzione delle macchine ha in certo modo l’effetto della peste sugli operai dei mestieri e delle manifatture tradizionali con i quali le macchine dapprima si trovano in concorrenza. Quasi tutti gemono sulla schiavitù dell’operaio di fabbrica. E qual è l’asso pigliatutto che tutti giocano? Che le macchine, dopo gli orrori del periodo della loro introduzione e del loro sviluppo, in ultima istanza aumentano gli schiavi del lavoro invece di finire per diminuirli! L’economia politica gavazza addirittura nell'orribile teorema — orribile per ogni «filantropo» che creda al'eterna necessità naturale del modo capitalistico di produzione — per il quale anche la fabbrica già fondata sul sistema delle macchine, dopo un periodo determinato di crescita, e dopo un «tempo di transizione» più o meno breve o più o meno lungo, ammazza di lavoro più operai di quanti ne abbia gettati sul lastrico da principio!”
Via via che aumentano, le macchine sostituiscono operai. Questo non significa però che col progresso dell’industria meccanica gli operai diminuiscano in senso assoluto. La diminuzione è soltanto relativa, ossia rispetto al capitale complessivo anticipato; ed è perfettamente compatibile con l’aumento in assoluto degli operai occupati.
Appena il sistema delle macchine si impadronisce dei rami di industria prima dominati dall’artigianato o dalla manifattura, esso avanza a colpo sicuro, realizzando profitti straordinari, che accelerano l’accumulazione. Quando poi perfezionandosi, il macchinario raggiunge un alto grado tecnico e si sono poste le basi della grande industria, il sistema acquista elasticità ed una improvvisa capacità di espansione a grandi balzi, che incontra limiti solo nella materia prima e nel mercato di sbocco.
“Da una parte”, aggiunge Marx, “le macchine operano un aumento diretto della materia prima, come per esempio il cotton gin ha aumentato la produzione del cotone. Dall’altra parte il buon mercato del prodotto delle macchine e il sistema dei trasporti e delle comunicazioni rivoluzionato sono armi per la conquista di mercati stranieri. L’industria meccanica, rovinando il loro prodotto di tipo artigianale, trasforma con la forza quei mercati in campi di produzione delle sue materie prime. Così le Indie Orientali vennero costrette a produrre cotone, lana, canapa, iuta, indaco, ecc. per la Gran Bretagna. Il costante «mettere in soprannumero» gli operai nei paesi della grande industria promuove una emigrazione intensa e artificiale e la colonizzazione di paesi stranieri che si trasformano in vivai di materia prima per la madre patria, come per esempio l’Australia è stata trasformata in un vivaio di lana.”
Si crea una nuova divisione internazionale del lavoro che in corrispondenza delle sedi principali del sistema di macchine trasforma una parte del globo in campo di produzione prevalentemente agricola per l’altra parte che costituisce il campo di produzione prevalentemente industriale. La capacità immensa di espandersi a sbalzi spinge la grande industria ad un’attività frenetica. Ma dipendendo dal mercato mondiale essa va incontro alla paralisi non appena questo è sovraccarico.
La vita dell’industria diventa quindi una serie di periodi di vitalità media, di prosperità, di sovrapproduzione, di crisi e stagnazione.
Ora l’aumento del numero degli operai di fabbrica è condizionato all'aumento proporzionalmente maggiore del capitale complessivo investito nelle fabbriche. Questo aumento si verifica nell'ambito del flusso e riflusso del ciclo industriale ed inoltre viene introdotto dal progresso tecnico che soppianta operai. Dunque, da un lato il perfezionamento del macchinario (variazione qualitativa) allontana gli operai dalla fabbrica; dall'altro l’alto aumento delle fabbriche (estensione quantitativa) attira nuovi contingenti operai oltre quelli gettati fuori. In tal modo gli operai vengono continuamente respinti e continuamente attratti. Vengono gettati continuamente da una parte e dall'altra, in un incessante cambiamento d’età, sesso, abilità.
L’incertezza e l’instabilità, alle quali è sottoposta l’occupazione (la condizione di esistenza del salariato) nell'industria meccanica, diventano col variare delle fasi del ciclo industriale, lo stato normale della classe operaia.
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