domenica 25 maggio 2025

Il punto sull'Ilva

Il Ministro Urso ha rinviato il nuovo incontro che si doveva tenere il 27 maggio a Roma coi sindacati sull'emergenza Ilva e appalto al 9 giugno, con la motivazione: "«al fine di acquisire elementi di valutazione più compiuti e tenuto conto degli impegni congressuali e internazionali di talune delle organizzazioni sindacali». (?).

Questo rinvio non va affatto bene!

Riportiamo dalla stampa borghese o esplicitamente padronale, alcune informazioni e alcune valutazioni/commenti.

Da esse emergono alcune cose:
Primo, che Baku Steel, l'attuale possibile acquirente dell'ex Ilva, pretende molto di più, mettendo in forse la sua offerta, e per questo usa chiaramente anche il grave incidente all'Altoforno 1, ma è strumentale visto che già da prima dell'incidente gli azeri avevano alzato il tiro delle pretese - e abbassato del 50% i soldi da mettere per il passaggio della fabbrica a loro.  
Secondo, anche Baku Steel, come gli altri passati padroni dell'Ilva, chiede di non essere frenato da norme ambientali e che quindi la produzione deve avere continuità in ogni modo.
Terzo, e soprattutto, dice chiaramente che il suo interesse primario è il rafforzamento con Taranto delle forniture di gas e quindi di una nave per il Gnl a Taranto. 
 
Su questo ultimo aspetto c'è la "novità" della posizione del presidente Emiliano della Regione Puglia che dice sì alla nave rigassificatrice nel porto di Taranto: "Se il gas è necessario per la decarbonizzazione è un sacrificio che può essere ipotizzato". Dichiarazioni che hanno reso molto contento il Min. Urso. Quindi val bene un nuovo inquinamento della città, e questo verrebbe fatto come primo intervento degli azeri; poi vi sarà la decarbonizzazione, che a detta degli stessi esperti ha tempi molto lunghi.
 
Questo "sacrificio", come si può leggere, è presente anche nelle dichiarazioni del presidente della Federacciai, Gozzi che dice che per fronteggiare la perdita di competitività a livello mondiale della siderurgia italiana "È essenziale correggere il tiro, bilanciando la transizione ecologica con il supporto alla capacità produttiva e alla competitività industriale». Della serie: prima salvaguardate i nostri profitti, poi si pensa alla "transizione ecologica" che comunque deve essere compatibile con la nostra competitività industriale.
 
Ora, a fronte del "rischio" che Baku Steel molli, anche i padroni cominciano a considerare l'ipotesi di un ritorno in campo dello Stato, un suo controllo pubblico al 50%. Questo è però più o meno quello che è successo con ArcelorMittal e col passaggio da Ilva ad Acciaierie d'Italia. Nello stesso tempo si lega questa prospettiva ai grandi lavori, come il Ponte sullo Stretto e, in  termini di produzione strategica dell'acciaio, allo sviluppo dell'armamento per le guerre, per le "politiche di rilancio dell'Industria della Difesa"; cioè l'Ilva si salva se si lega alla produzione bellica.
Così come i sindacati confederali, in particolare Uilm, Fiom, cominciano a parlare di "nazionalizzazione", anche momentanea, a fronte della situazione di grave crisi dell'ex Ilva (non parliamo della richiesta fatta da tanto tempo di nazionalizzazione dell'Usb che la considera la panacea di tutti i mali). 
Noi stiamo dicendo che una "nazionalizzazione", a fronte della politica di svendita che il governo Meloni/Urso intende fare con tutte le pesanti immediate ricadute sui lavoratori, sulla sicurezza, salute e ambiente, è inevitabile e necessaria perchè lo Stato si assuma la responsabilità diretta verso gli operai e la popolazione di Taranto di difesa dell'occupazione, del salario ed di effettivo intervento per l'ambiente; ma senza alcuna illusione, perchè "padroni pubblici, padroni privati, stesso sfruttamento del proletariato". Per questo o si lega la "nazionalizzazione" alla piattaforma operaia che lo Slai cobas da tempo ha espresso raccogliendo centinaia e centinaia di firme di operai diretti e dell'appalto, o la situazione non può cambiare.
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DA NOTIZIE STAMPA

L’Occidente è alle prese da tempo con grandi partite economico-industriali riguardanti l’acciaio, e l’Italia con l’ex-Ilva è tornata nuovamente a affrontare il rischio di uno stop a quello che un tempo era l’impianto siderurgico più grande d’Europa...
“Qualora l’altoforno dovesse rivelarsi danneggiato in maniera irreparabile, il piano industriale di Acciaierie d’Italia – che punta a una produzione di sei milioni di tonnellate di acciaio entro il 2026 – si rivelerebbe probabilmente infattibile“, nota StartMag, sottolineando che questo rischia di rappresentare un pregiudizio alla possibile cessione del gruppo a Baku Steel.

Gli azeri chiedono al Governo Meloni garanzie per proseguire la trattativa: innanzitutto, una garanzia di continuità operativa di fronte alle norme ambientali, ma soprattutto, la prospettiva securitaria di un rafforzamento delle forniture gasiere a Taranto tramite installazione di una nuova nave per il Gnl che si sommi alle forniture via tubo (proprio provenienti dall’Azerbaijan) del gasdotto Tap...

Resterebbe allora una sola strada: la ripresa del controllo da parte dell’azionista pubblico.

La prospettiva di un possibile ritorno dello Stato in campo come primo attore prende le mosse in una fase storica in cui Regno Unito vede lo Stato scendere in campo per rilevare la proprietà di British Steel, prevenendo una scalata cinese e in cui gli Stati Uniti, al passaggio tra Joe Biden e Donald Trump, continuano la linea operativa di fermare la scalata della giapponese Nippon Steel alla storica Us Steel di Pittsburgh in nome della tutela della sicurezza industriale nazionale.

La base di partenza del controllo pubblico al 50% di Adi tramite un soggetto legato allo Stato come Invitalia potrebbe essere interessante. E in prospettiva, da grandi agende infrastrutturali (si pensi al Ponte sullo Stretto) alle politiche di rilancio dell’industria della Difesa sono molti i campi in cui al Paese, negli anni a venire, servirà acciaio.

L’Italia in termini di produzione è dodicesima al mondo e seconda in Europa, dopo la sola Germania. Eppure il rischio di perdere il primato è alto. E sta avvenendo proprio mentre l’economia globale ridisegna le sue filiere tra reshoring e decarbonizzazione.

Nel 2024 l’industria siderurgica italiana ha realizzato 20 milioni di tonnellate di acciaio (dati Federacciai), segnando un calo del 5% rispetto all’anno precedente. Flessione divenuta strutturale: la produzione su base annua era scesa del 2,3% nel 2023 e dell’11,5% nel 2022.

A livello geografico il cuore della siderurgia italiana si trova al Nord e oltre l’85% di quel che viene prodotto è «acciaio secondario», così chiamato perché ottenuto fondendo rottame ferroso all’interno di forni elettrici.

Proprio questa dotazione impiantistica ha reso l’Italia la prima elettrosiderurgia dell’Unione Europea, alla quale contribuisce per il 30% del totale, davanti a Germania (18,5%) e Spagna (12%).

In Italia la produzione di acciaio primario – fondamentale per settori come la meccanica, i mezzi di trasporto e gli elettrodomestici – rappresenta meno del 15% dell’output nazionale. L’unico stabilimento a «ciclo integrale» in grado di produrre questa tipologia di acciaio è quello della ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, a Taranto, dotato di altoforni.

Ma oggi il gruppo, in amministrazione straordinaria, sta attraversando l’ennesima crisi industriale con la produzione che nel 2024 non è andata oltre 2 milioni di tonnellate. La crisi dell’ex Ilva, però, ne genera almeno altre due.

La quasi inattività dell’unico stabilimento a ciclo integrale sul territorio nazionale equivale a una scarsa produzione dei laminati piani: prodotti fondamentali per auto, elettrodomestici, apparecchi elettrici ed edilizia. Da qui la seconda crisi: a fronte di un consumo interno pari a 15 milioni di tonnellate, nel 2023, il Paese ha dovuto importare oltre 11 milioni di tonnellate di prodotti piani.

La Cina produce, l’India avanza e l’America protegge

La dipendenza dall’estero non rappresenta un sano stato di salute per le filiere coinvolte. Ma nel settore siderurgico il problema diventa ancor più grande perché, al livello mondiale, non c’è già più spazio per essere auto-sufficienti. L’industria siderurgica globale tutta deve fare i conti con l’eccesso di capacità produttiva della Cina che rappresenta il 55% della produzione mondiale di acciaio e occupa il posto di primo fornitore europeo e italiano.

Pechino, che nel 2024 ha prodotto oltre 1 miliardo di tonnellate di acciaio, è una delle cause del sottoutilizzo degli impianti europei e della perdita di quote di mercato per i relativi produttori. L’eccesso di capacità ha determinato un peggioramento significativo del saldo commerciale, con le vendite extra-Ue di prodotti in acciaio che tra il 2014 e il 2023 si sono ridotte del 45%. E una forte crescita della capacità produttiva nei prossimi anni è prevista anche per l’India, oggi secondo produttore al mondo con quasi 150 milioni di tonnellate annue.
A completare il quadro c’è l’America, che nel 2018 ha introdotto dazi volti a penalizzare la penetrazione dell’industria europea (poi sostituiti con un sistema meno punitivo e oggi nuovamente minacciati da Donald Trump).

«Per il 2025, la siderurgia italiana si attende una graduale stabilizzazione, favorita da politiche monetarie meno restrittive e dalla speranza di soluzioni diplomatiche ai conflitti, che potrebbero rilanciare la fiducia e gli investimenti globali. Tuttavia», ha spiegato a MF-Milano Finanza il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, «le difficoltà attuali non sono solo congiunturali, ma riflettono anche problematiche strutturali».
«La crisi dei consumi e il riposizionamento dei prezzi verso valori storici evidenziano la necessità di adeguamenti strategici. L’industria siderurgica europea soffre una progressiva perdita di competitività.... È essenziale correggere il tiro, bilanciando la transizione ecologica con il supporto alla capacità produttiva e alla competitività industriale».

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