giovedì 1 dicembre 2016

Migranti: noi non dimentichiamo! Lo Slai cobas sc presenta il 6 dicembre denuncia alla Procura sulle violenze/torture nell'Hotspot di Taranto

In riferimento alle gravi notizie e testimonianze su violenze e torture avvenute nell'Hotspot di Taranto ai danni di persone migranti, di cui si riportano di seguito stralci tratti dal “Report di Amnesty International”, lo Slai cobas sc - che ha nel suo statuto e nella sua attività la difesa dei diritti dei migranti - 
chiede alla Procura di accertare la veridicità dei fatti denunciati da AI e di perseguire i responsabili degli stessi.

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Dal Rapporto di Matteo de Bellis, ricercatore di Amnesty International
Impronte digitali prese con la forza
Le informazioni presentate in questo documento sono state raccolte da rappresentanti di Amnesty International durante il 2016, attraverso quattro visite a diverse città e centri di accoglienza in Italia: Roma, Palermo, Agrigento, Catania e Lampedusa (marzo), Taranto, Bari e Agrigento (maggio), Genova e Ventimiglia (luglio), Roma, Como e Ventimiglia (agosto). Alcune informazioni sono basate su precedenti visite in Italia, comprese quelle ai centri di accoglienza di Lampedusa e Pozzallo a luglio 2015. Durante queste visite, Amnesty International ha intervistato 174 rifugiati e migranti e ha avuto conversazioni più brevi con molti altri. Le interviste hanno avuto luogo in centri di accoglienza che hanno la funzione di hotspot (Lampedusa e Taranto)


Dopo il suo salvataggio, Salih e altri nuovi arrivati sono stati portati in autobus al così detto «hotspot» di Taranto. L'approccio hotspot, introdotto nel 2015 su raccomandazione della Commissione europea, è un sistema creato per identificare tutti i nuovi arrivati, valutare velocemente i loro bisogni di protezione e incanalarli nelle procedure d'asilo oppure rinviarli nel loro paese d'origine. Il punto cruciale è che questo prevede che l'Italia identifichi e rilevi le impronte digitali di tutti i nuovi arrivati. Ma persone come Salih, che vogliono chiedere asilo in altri paesi europei dove sono i loro parenti, hanno un forte interesse a evitare che gli vengano prese le impronte digitali dalle autorità italiane. Farlo significherebbe poter essere rimandati in Italia paese di primo ingresso - se tentassero di continuare il viaggio nell'Unione europea.
«Non volevamo che ci prendessero le impronte digitali ma quattro poliziotti ci hanno trascinati fuori dall'autobus e fino all'ufficio, dove hanno cominciato a picchiarmi» mi ha detto Salih.
«Mi hanno colpito almeno quattro volte con un manganello e poi ho sentito una scossa elettrica sulla schiena. Sono collassato e ho iniziato a vomitare. Dopo 10 minuti sul pavimento ho accettato di dare le impronte digitali».
Dopo quattro giorni nell'hotspot di Taranto, Salih è stato portato alla stazione ferroviaria e lasciato lì. «Nessuno mi ha chiesto se volevo chiedere asilo o nient'altro» mi ha detto. «Voglio andare via dall'Italia. Voglio stare con mio zio e la sua famiglia, in Inghilterra»
Ibrahim, 47 un uomo di 27 anni del Sudan, che cerca di raggiungere il fratello nel Regno Unito, ha raccontato in modo dettagliato che il gruppo era sbarcato a Reggio Calabria il 23 giugno, prima che la polizia li trasferisse su sei autobus all’hotspot di Taranto, dove sono arrivati la mattina presto. Non appena gli autobus si sono fermati di fronte al centro, le persone si sono rifiutate di scendere, temendo che avrebbero immediatamente preso le loro impronte digitali. “Sette poliziotti sono saliti sull’autobus e ci hanno preso con la forza a uno a uno, mi hanno circondato. Uno di loro ha preso il bastone elettrico e me lo ha messo sul braccio destro. Sono caduto svenuto. Mi hanno svegliato con un ventaglio. Sentivo molto dolore al braccio… Due poliziotti mi hanno sollevato e portato nell’ufficio. La polizia mi ha chiesto nome, nazionalità e data di nascita... Da lì mi hanno portato di forza all’ufficio accanto per fare la foto… Mi hanno preso le impronte digitali, prima un dito alla volta e poi all’intera mano”.
Ramadan, 49 Sudanese di 23 anni, sbarcato a Catania e poi trasferito all’hotspot di Taranto, ha spiegato come poliziotti lo abbiano fatto scendere dall’autobus ed entrare nell’ufficio della polizia: “Lì mi hanno preso a pugni, forte e dappertutto, mi si è gonfiata la faccia, con pugni, schiaffi, calci... Poi hanno cercato di mettermi la mano sulla macchina per le impronte, io l’ho ritratta, allora con i manganelli mi hanno picchiato sulle due braccia, vicino alle spalle, così da farmi tanto male da non poter resistere.” Amnesty International ha visto segni sulla spalla sinistra e sulle gambe di Ramadan, coerenti con il suo resoconto. Abass, di 22 anni, e Salih, 51 di 16, hanno vissuto storie simili. In due casi, persone hanno detto ad Amnesty International che la polizia li aveva maltrattati causando loro forti dolori ai genitali e infliggendo umiliazioni sessuali. Ishaq52 ha affermato di essere stato umiliato sessualmente
Ibrahim, descrivendo cosa è accaduto quando è arrivato all’hotspot di Taranto il 24 giugno 2016, ha spiegato come gli avvertimenti dell’interprete che lavorava con la polizia siano pian piano diventati minacce di violenza fisica e detenzione prolungata: “L’interprete somalo ci ha detto che dovevamo lasciare le impronte digitali, che lo volessimo o meno. Abbiamo chiesto garanzie che fosse solo per ragioni di sicurezza. Ci ha detto di scendere dall’autobus ma ci siamo rifiutati. Così l’autobus è stato portato dentro al cancello. Il somalo ci ha detto: ‘È la vostra ultima opportunità’… 7 poliziotti sono saliti sul bus e ci hanno preso uno a uno, ero il primo e sono sceso…Poi ho visto l’interprete, che mi ha detto ‘Vuoi dare le impronte digitali o no? O lo fai o soffrirai come gli altri’… [Più tardi] l’interprete mi ha detto che non mi avrebbero lasciato andare finché non avessi dato le impronte”.

Sempre in relazione agli eventi nell’hotspot di Taranto, Abass ha spiegato in modo dettagliato come l’interprete lo aveva minacciato e aveva fatto riferimento alla pressione esercitata dai governi europei per spingere l’Italia a prendere le impronte digitali: “Un interprete, algerino o tunisino, ci ha spiegato che dovevamo dare le impronte perchè l’Italia altrimenti avrebbe preso una multa. Ha detto che c’erano altri poliziotti europei che controllavano se tutti davano le impronte. E che chi non lasciava le impronte sarebbe stato picchiato dalla polizia italiana”.
Khider, parlando degli incidenti all’hotspot di Taranto del 24 giugno 2016, ha parlato di un altro uomo: “L’ultimo continuava a rifiutarsi di dare le impronte digitali e alla fine lo hanno picchiato, gli hanno dato scosse elettriche quando era ormai a terra da cinque minuti. Alla fine ha detto che potevano fargli tutto quello che volevano. Ero nell’ufficio… Ho sentito le urla e ho visto la scena dalla finestra. Quando sono andato fuori era ancora a terra, privo di sensi. Quattro ore dopo è tornato e aveva difficoltà a camminare”.
A maggio 2016, Amnesty International ha visitato anche l’hotspot di Taranto, dove un altro ufficiale di polizia ha confermato: “La legge consente un uso proporzionato della forza – c’è una circolare del ministero dell’Interno su questo – ma qui non ce ne è mai stato bisogno”.38 Quattro mesi dopo, lo stesso funzionario ha dichiarato ad Amnesty International che durante l’estate la polizia aveva fatto ricorso all’uso della forza per ottenere le impronte digitali di rifugiati e migranti che non volevano collaborare, nei casi in cui era stato ritenuto necessario, sottolineando tuttavia che “l’uso della forza è esercitato raramente, in maniera commisurata e senza usare violenza”. Tutte le fonti consultate da Amnesty International hanno affermato in maniera coerente che la polizia ha fatto ricorso all’uso della forza in diverse occasioni durante il 2016.

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