martedì 28 giugno 2016

Verso la manifestazione del 30 giugno a Bari, dei lavoratori migranti delle campagne della provincia di Foggia in lotta per il loro diritto a documenti, un contratto, una casa, una vita dignitosa, Lo Slai Cobas sc parteciperà alla manifestazione con una delegazione. Ai lavoratori tutta la nostra solidarietà e il nostro appoggio. La vostra lotta è la nostra lotta!

Manifestazione di giovedì 30 giugno h 10 Piazza Umberto - Bari

Il report dell'assemblea a Villa Roth del 21 giugno

All'assemblea tenutasi presso Villa Roth il 21 giugno hanno partecipato gli abitanti della stessa Villa, i migranti del Cara e di Villa Ada a Palese e diverse realtà e singoli che in città sostengono e supportano le vertenze e le rivendicazioni dei soggetti migranti. L’assemblea
aveva l’obiettivo di lanciare e presentare la manifestazione indetta dai lavoratori delle campagne di Capitanata che si terrà il 30 giugno a Bari, e di contribuirne nei contenuti a seguito del dibattito che ha toccato diversi punti.

Tutti i migranti presenti hanno evidenziato che le problematiche principali che devono affrontare riguardano l’estrema difficoltà nell'ottenimento e nel rinnovo dei documenti. I richiedenti asilo, in particolare, lamentano i tempi lunghissimi delle Commissioni Territoriali. Alcune persone restano nel Cara anche oltre due anni, in attesa del permesso di soggiorno.
Inoltre è stato denunciato il fatto che molti richiedenti asilo del Cara nei mesi scorsi siano stati deportati in strutture di altre città senza che venisse data loro alcuna motivazione. Peraltro va ricordato che per molti di essi il tribunale di riferimento per i ricorsi contro il primo diniego della Commissione Territoriale fosse quello di Bari.
In Villa Ada, oltre a lamentare anch’essi enormi difficoltà nel rinnovare il permesso di soggiorno, in primis a causa degli enormi ritardi del Comune di Bari nel rilascio delle residenze ai tempi dell’Ex Set, hanno raccontato di come il regolamento di convivenza inizialmente stipulato grazie ad un’intesa col Comune non sia assolutamente rispettato dall’associazione che gestisce lo spazio. Nonostante gli ospiti siano a tutti gli effetti rifugiati, e quindi soggetti che dovrebbero godere di una seconda accoglienza, liberi di uscire ed entrare dalla struttura a proprio piacimento, raccontano invece di forti limitazioni delle proprie libertà e nuove regole non condivise, imposte da un giorno all’altro dall’associazione assegnataria del progetto temporaneo.
I migranti scriveranno un proprio documento di rivendicazioni che tradurremo in italiano.

Dopo questi interventi il dibattito è continuato evidenziando in primis come i fenomeni del caporalato e dello sfruttamento dei braccianti agricoli non riguardino ovviamente solo alcune aree della Regione, come la Capitanata o il Salento, ma anche la provincia di Bari, benché in dimensioni sicuramente minori. Si è ricordato il caso di Paola Clemente, morta di fatica nelle campagne andriesi, ed il cui dramma fece grande scalpore.
Si è convenuto sul fatto che non si può pensare che i “caporali” siano l’origine e la fine di ogni male. Essi sono, bensì, l’ingranaggio necessario alla grande macchina produttiva per continuare a funzionare. I caporali soddisfano il bisogno di forza-lavoro a basso costo di quelle aziende che attraverso la Grande distribuzione (GDO) riempiono gli scaffali dei supermercati. Eventuali azioni repressive nei confronti del caporalato, quindi, non saranno mai sufficienti da sole al superamento della condizione di sfruttamento dei lavoratori. Sarebbe necessario, invece, capovolgere totalmente l’attuale filiera produttiva agroalimentare che massimizza i profitti sulla pelle dei braccianti e di piccoli produttori agricoli ai quali vengono imposti prezzi di mercato insostenibili.
Evidentemente le Istituzioni, al di là delle parole di circostanza e delle blande iniziative di facciata, non hanno interesse nel mettere in discussione i meccanismi di fondo, anche perché significherebbe aprire uno scontro con gruppi industriali molto forti.

Non si può parlare di caporalato senza fare una riflessione sui ghetti. In primis su quei ghetti informali che nascono nei pressi dei luoghi di lavoro, e che diventano zone di reclutamento selvaggio da parte anche della stessa criminalità più o meno organizzata. La totale assenza di politiche di inclusione e di welfare, e di servizi basilari, come l’assistenza sanitaria (ovviamente in alcuni casi c’è il meraviglioso lavoro volontario di alcune realtà come Emergency), ed il trasporto pubblico, (che darebbe la possibilità ai migranti di raggiungere i luoghi di lavoro senza doversi affidare ai caporali) portano questi ghetti a prosperare nel pieno abbandono istituzionale.
In alcuni casi, in prossimità dei periodi di raccolta, o di fiere o sagre, sono proprio i Comuni ad allestire tendopoli ai margini dei paesi per facilitare il reclutamento dei migranti da sfruttare, il più delle volte a nero, da parte dei rivenditori. Un esempio potrebbe essere quello di Turi, dove l’amministrazione, qualche giorno prima della celebre sagra delle ciliegie, “ospita” i migranti che si occupano della raccolta in una tendopoli lontana dal centro abitato, e dagli occhi dei cittadini, nei pressi del cimitero.

Abbiamo assistito negli ultimi anni ad una vero e proprio sdoganamento del “modello ghetto”. Si è passati dall’informalità addirittura anche all’istituzionalizzazione, spesso con l’alibi di un’emergenzialità che in verità non esiste. E così, gli enti locali arrivano a negare definitivamente il diritto ad una seconda accoglienza dignitosa, ricorrendo all’uso di ghetti, temporanei o permanenti che siano.
Un caso è stato quello dell’Ex Set, un capannone fatiscente in cui hanno vissuto fino a marzo scorso, per più di un anno e mezzo, 150 rifugiati politici sgomberati dall’ex convento di Santa Chiara. La tendopoli dell’Ex Set è balzata agli onori della cronaca nazionale per le ignobili condizioni di vita che offriva, denunciate anche da Medici senza Frontiere ed Emergency: topi, piccioni, sporcizia, amianto, temperature rigidissime d’inverno e roventi d’estate, e tanto altro, hanno reso la vita dei migranti davvero difficile. In seguito a tante proteste, sia dei rifugiati che di chi li ha sempre sostenuti, il Comune ha progressivamente chiuso la tendopoli. Ma la vertenza è ancora apertissima: se è vero che alcuni di essi, tra cui i nuclei famigliari, gli anziani ed i malati (ed in seguito altri) sono stati trasferiti presso Villa Roth, soluzione più che dignitosa, tanti altri sono tornati incredibilmente per strada, oppure a Villa Ada.
Ma il progetto di Villa Ada è a tempo determinato, e tra al massimo un anno i rifugiati verranno trasferiti altrove. Ovviamente in un nuovo ghetto, questa volta non di tende, ma di container in legno e metallo, nei pressi della Fiera del Levante, vicino ad un altro ghetto, la tendopoli della Croce Rossa, che ospita molte famiglie baresi sfrattate. Insomma sarà un apartheid nell’apartheid.

Ricordiamo che più volte si è chiesto alle istituzioni di poter usufruire di uno stabile pubblico abbandonato per poterlo autorecuperare a scopo abitativo. Ma questa richiesta è sempre stata seccamente respinta.
E’ interessante notare che procedendo dalla tendopoli della Croce Rossa verso nord (quindi allontanandosi ulteriormente dal centro cittadino) ci si imbatte in altri due ghetti, il Cara ed Enziteto. Perché sì, i ghetti non sono riservati solo ai migranti, ma più in generale alle classi meno abbienti.

Ecco, il 30 giugno vogliamo ribadire che nella nostra città, così come ovunque, non devono più esserci ghetti, e persone e intere comunità lasciate a se stesse, ma vere politiche abitative, di welfare e di inclusione sociale.
Ma la cosiddetta 'seconda accoglienza', oltre ad essere dignitosa, è bene che permetta alle persone di vivere in autonomia e in autogestione come dimostra la convivenza e l'esperienza di accoglienza dal basso in Villa Roth tra migranti e nativi, senza nessuna 'impresa sociale' di mezzo. In primis perché non possiamo tollerare che il disagio sociale continui a produrre business per grandi cooperative e associazioni che non hanno alcun interesse nel raggiungimento dell’indipendenza personale da parte dei rifugiati, ma che anzi è funzionale a trarre profitto dalla cronicizzazione di quella condizione di emergenzialità indotta dalle stesse politiche istituzionali sull'immigrazione.
A questo si aggiungono anche le difficili condizioni di lavoro degli operatori sociali, che anche a Bari iniziano a denunciare lo stato permanente di precarietà contrattuale in cui sono costretti a lavorare, senza poter erogare i servizi basilari di inclusione sociale.

Il 30 giugno in piazza insieme ai lavoratori delle campagne della provincia di Foggia scenderemo in piazza per camminare insieme alle voci e allo lotte migranti, per riprenderci tutti e tutte insieme ciò che ci spetta: giustizia sociale, diritti e dignità, perchè come ci insegnano i braccianti della Capitanata la nostra lotta è anche vostra lotta!

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