La
presentazione del libro “Ilva la tempesta
perfetta” si è tenuta a Roma nel quartiere storico, popolare di
Pietralata, al circolo Arci, con la partecipazione di compagni del
quartiere, frequentatori del circolo, di giovani, era presente anche
Claudio Sebastiani, giornalista di ex Liberazione, attualmente direttore
di controlacrisi.org.
Nell’introduzione è stato risaltato il valore e
anche di metodo con cui è stato scritto il libro, che attraverso i fatti fa comprendere la portata epocale
della battaglia che si deve ancora combattere all'Ilva e a Taranto.
Sinteticamente, i punti
evidenziati:
- Taranto non è città avvelenata che si dibatte per liberarsi dal “mostro” ma una realtà viva, attraversata da contraddizioni sempre sul punto di esplodere, dove tutti i protagonisti della “tempesta perfetta” - cioè di quella che il libro vuol restituire come una “rivolta mancata” - sono ancora in campo e potenzialmente pronti ad erompere nuovamente
- Non è l’inchiesta giudiziaria “l’inizio della storia”. In fabbrica e città si è combattuta per anni
una guerra di classe, a volte esplicita a volte sotterranea, che ha trovato proprio nella nocività in fabbrica e della fabbrica il principale terreno di scontro e dove coraggiose avanguardie operaie hanno fatto la loro parte; ma si sono trovate sole, senza alcun appoggio da parte né dei sindacati confederali, in particolare la Fiom, più o meno aziendalisti ma tutti partecipi e complici del “sistema Riva”, né di quelle forze, ambientalisti ecc., che oggi gridano alla chiusura come unica soluzione e additano come complici gli operai. Una guerra che, salvo alcune battaglie esemplari, è stata persa, ma che la “tempesta perfetta” racconta come sia ancora aperta. - L’analisi di una città stretta nella contraddizione tra fabbrica e popolo, tra operai ostaggi passivi del ricatto aziendalista e “cittadini” che si ribellano, è falsa. “Nocivo è il capitale non la fabbrica”. I “cittadini” sono in massima parte composti da operai e dalle loro famiglie. Anche i portavoce e principali attivisti della maggiore forza organizzata emersa negli anni caldi, i Liberi e pensanti, erano e sono operai. Dunque, la contraddizione è tra il sistema capitalistico, i suoi governi, e i proletari e le masse popolari. E sta nella logica in cui i padroni, privati o pubblici che siano, usano la fabbrica per il profitto a scapito della vita di chi ci lavora dentro e vive intorno. Perciò, solo un’unità tra operai e masse dei quartieri che dia battaglia e vita a una rivolta, può conquistare continuità del lavoro e ambientalizzazione della produzione. Altrimenti la fine è nota, un futuro alla Bagnoli: deindustrializzazione, desertificazione e degrado sociale, pesante riduzione dell’occupazione, nessuna bonifica.
- La parabola delle due forze emerse dalla “tempesta perfetta”, i “Liberi e pensanti” e USB. I primi sono passati dall’essere protagonisti della rivolta a organizzatori del rituale concerto del primo maggio e ora concentrati nel dibattito elettorale. L’USB che ha sprecato l’occasione per portare effettivamente l’autorganizzazione tra gli operai e dentro la fabbrica per dare battaglia e aprire un fronte di rivolta dall’interno della fabbrica, accontentandosi di sventolare la bandiera della nazionalizzazione come soluzione e adeguandosi al ruolo di ala sinistra del sindacato esistente.
- Il processo per disastro ambientale è oggi questione che riguarda tutti. È un processo in cui sono imputati tutte le componenti del “sistema Riva”, che è paradigma del sistema dei padroni in questo paese. E quando diciamo tutti intendiamo proprio tutti: dal potere politico locale, dal governatore Vendola al sindaco Stefàno, ai faccendieri di Riva, ai funzionari degli Enti di controllo, a dirigenti della polizia, fino alla curia locale… C’è una sola eccezione, purtroppo: i sindacati confederali che di quel sistema erano complici e beneficiari e oggi non sono alla sbarra ma addirittura parti civili. Perciò è una battaglia in cui è necessario che tutti si impegnino, perché anche paradigmatica di un diritto borghese incapace di dare di giustizia al popolo e della necessità di una giustizia proletaria. Giustizia proletaria che oggi può e deve vivere nell’organizzazione e sostegno generale a una partecipazione attiva e combattiva al processo e, in prospettiva, nella lotta per imporre la giustizia e il potere di un’altra classe, con una rivoluzione politica e sociale.
Riportiamo alcune domande, interventi, e le risposte ad essi, emersi nel dibattito, perchè toccano alcuni nodi importanti
A Taranto gli
operai hanno perso. Perché e per colpa di chi?
Quando
parliamo di operai che hanno perso, ci riferiamo alla lunga fase di
lotta alla nocività dentro la fabbrica precedente all’inchiesta.
Circa
le ragioni della sconfitta, essa da un lato è parte dell’arretramento generale
della classe nella lotta al capitale in questi anni, dall’altro non è certo responsabilità degli operai e di chi
ha lottato insieme a loro, ma di chi, ambientalisti, forze politiche
anche antagoniste o ex-antagoniste, quella guerra hanno disertato,
lasciandoli soli, e di chi, istituzioni, sindacati confederali,
invece che schierarsi al loro fianco li hanno sabotati e isolati,
preferendo stare dalla parte dell’azienda e integrandosi nel
sistema Riva.
Ma non è finita, le forze sono ancora in campo e continuano in vari modi a combattere, sta a noi fare altrettanto.
Mi
sono personalmente occupato di siderurgia e condivido in gran parte
l’analisi fatta sulle responsabilità, ma avrei da proporre alcuni
punti per una lettura complementare, in particolare a proposito delle
responsabilità.
Secondo me
prima di tutto ci sono le responsabilità del governo, in origine per
la scelta della privatizzazione che ha lasciato mano libera a una
produzione sempre più nociva, come si era già visto nelle
privatizzazioni in altri settori industriali, da ultimo con la serie
di decreti che hanno fermato qualsiasi tentativo di avviare il piano
di ambientalizzazione, in particolare grazie al lavoro del consulente
Ronchi. Il governo Renzi ha invece fatto nuovi decreti e imposto
nuovi commissari col solo mandato di svendere nuovamente la fabbrica
ai privati.
Poi vengono le
responsabilità delle amministrazioni locali, che si sono dimostrate
incapaci di governare l’impatto della fabbrica, basti pensare a
come hanno lasciato che crescesse il quartiere Tamburi.
Altrettanto
evidenti responsabilità di Federacciai, l’associazione datoriale
di categoria...
Non
condivido, invece la denuncia dei sindacati, non di tutti, per lo
meno. La Fiom ha mostrato negli anni maggiore sensibilità al
problema della nocività e cercato di elaborare e collaborare a piani
di riduzione della nocività e più recentemente al piano di bonifica
che il lavoro già detto di Ronchi voleva avviare.
Resta evidente
la necessità per il paese che si produca acciaio ma c’è anche una
contraddizione nel popolo da governare, tra difesa del lavoro e
protezione della salute fuori della fabbrica e per questo è
necessaria ma non sufficiente una mobilitazione dal basso, occorre
capacità di governo e un piano industriale serio e responsabile.
Condivido in
particolare le considerazioni sulla conflitto lavoro-salute, ho in
mente immagini e storie di operai che quando entrano in fabbrica e
ottengono il lavoro sentono di aver “vinto la lotteria” ma poi si
ritrovano a vivere in quartieri malsani, col polverino che entra
dalle finestre, i famigliari che si ammalano e scoprono che il prezzo
da pagare è troppo alto e ne sono schiacciati.
Su
questi punti posti da alcuni interventi, il compagno di Taranto che ha
presentato il libro, nel ringraziare per l’opportunità di tornare e
approfondire alcuni
aspetti, ha detto, però, di non essere d'accordo con quanto affermato.
Prima
di tutto la nocività della fabbrica e la devastazione del territorio
non comincia con la privatizzazione. L’Italsider statale inquinava
come l’Ilva di Riva, e, soprattutto, è sempre rimasta sorda di
fronte alle avanzate piattaforme proposte dai consigli di fabbrica in
materia di organizzazione, sicurezza e nocività delle lavorazioni.
Le ultime vicende, poi, dimostrano come l’Ilva dei commissari, di
fatto "nazionalizzata", non ha fatto meglio di quella privata in
termini di salute e sicurezza, anzi, se si comparano produzione e
incidenti dell’ultimo periodo, con quelli del più recente passato,
si può vedere che le cose vanno addirittura peggio.
Le
responsabilità delle amministrazioni locali sono ben altre e più
pesanti che il non aver vigilato sulla crescita del quartiere
Tamburi, che c'era ed era già cresciuto prima dellacostruzione della
fabbrica. Per ragioni di tempo, rimando alla lettura dell’ampio
stralcio delle conclusioni delle indagini contenuta nel libro come
pure, a proposito della discussione su privatizzazione o proprietà
pubblica, alla parte dedicata alle soluzioni. Voglio solo menzionare
che lo svuotamento del quartiere e trasferimento in nuove abitazioni
più lontane dalla fabbrica è stato uno degli argomenti di Emilio
Riva...
Circa
poi la figura di giovani operai Ilva, che in diversi libri e film è
stata descritta e che la compagna riporta, noi l’abbiamo vista,
conosciuta e vissuta da vicino, nella quotidiana presenza cancelli
dello stabilimento. Quei giovani entrati in massa in fabbrica nei
primi anni della gestione Riva per effetto del massiccio turn-over
permesso dalla legge sui benefici pensionistici per gli esposti
amianto erano in massima parte privi di qualsiasi formazione sindacale e
politica, lontani da qualsiasi fiducia nell’organizzazione sindacale in
quanto tale. Per la
maggior parte di loro il sindacato non era altro che il mediatore
clientelare della loro assunzione al posto del genitore o altro
parente e un fornitore di favori e servizi vari. Per questi giovani
l’assunzione e lo stipendio da operaio è stato effettivamente un
salto di benessere economico e una svolta nella loro vita e non è
sul piano delle rivendicazioni economiche che si sono mossi. Ma
questi giovani non hanno aspettato di trovarsi il polverino sui
davanzali o un ammalato in casa per scoprire che in quella fabbrica
si moriva, anche prima di ammalarsi, perchè le conseguenze della mancata
sicurezza,l'hanno cominciata a sperimentarla direttamente con le nuove
morti dei loro giovani compagni di lavoro. Se il polverino è tanto
nocivo
per chi abita vicino alla fabbrica, pensate che non lo sia prima e di
più per chi in quella fabbrica lavora? In questo senso, ripeto, non
esiste una contraddizione in senso al popolo, cioè tra settori di
popolo portatori di interessi confliggenti, tra operai abbarbicati al
lavoro e al reddito e i cittadini che pagano il prezzo più alto.
Ben presto quei giovani operai, pur senza esperienza e formazione di
sindacato, si sono ribellati contro la nocività e la morte in
fabbrica ma si sono scontrati con la dittatura terroristica
instaurata in fabbrica da Riva. Su questo, sul controllo e il comando
in fabbrica più che sulla violazione dell’ambiente, il sistema
Riva ha rappresentato effettivamente un salto di qualità, come la
vicenda della palazzina LAF ha simboleggiato. In più, come già
detto nell’esposizione, quei giovani operai si sono scontrati anche
con l’indifferenza generale, tranne poche eccezioni, fuori della
fabbrica e, soprattutto, con la passività e complicità dei
sindacati dentro la fabbrica e, alla fine, hanno perso quella
battaglia.
Qui
veniamo alla questione più importante per cui la “lettura
complementare” proposta è francamente inaccettabile: le
responsabilità e il ruolo dei sindacati e della Fiom in particolare.
Come si può pensare che, in una storia di disastro ambientale durata
decenni, non abbia responsabilità chi in fabbrica c’era e aveva il
compito di tutelare la difesa della salute in primo luogo di chi ci
lavorava? Come si può pensare che per decenni ci siamo state
violazioni in materia di sicurezza e inquinamento senza che nessuno
potesse accorgersene? Che chi, reparto per reparto, ha firmato decine
di accordi peggiorativi delle condizioni di sicurezza, vedi il caso
della morte di Claudio Marsella al MOF ricostruito nel libro.
Quanto alla Fiom in particolare, se anche fosse vero che il piano di
bonifiche cui Ronchi stava lavorando e la Fiom collaborando era utile, comunque è rimasto sulla carta.
I fatti riflettono una realtà ben diversa: si guardi alla vicenda di Massimo Battista e Franco Rizzo, delegati Fiom che ebbero il coraggio di fermare il reparto a fronte di un rischio grave e concreto e che furono prima licenziati, poi reintegrati per un accordo di tipo corporativo direttamente tra Riva e Vendola, infine allontanati entrambi dalla fabbrica, uno, Rizzo, dalla stessa Fiom che lo promosse nel direttivo, salvo poi destituirlo qualche anno dopo, l’altro Battista, trasferito dall’azienda a un posti isolato a guardare i cani, dopo essere stato scaricato dalla Fiom. E, come se non bastasse, c’è anche la vicenda degli ultimi segretari territoriali, tutti rimossi per storie di malaffare…
I fatti riflettono una realtà ben diversa: si guardi alla vicenda di Massimo Battista e Franco Rizzo, delegati Fiom che ebbero il coraggio di fermare il reparto a fronte di un rischio grave e concreto e che furono prima licenziati, poi reintegrati per un accordo di tipo corporativo direttamente tra Riva e Vendola, infine allontanati entrambi dalla fabbrica, uno, Rizzo, dalla stessa Fiom che lo promosse nel direttivo, salvo poi destituirlo qualche anno dopo, l’altro Battista, trasferito dall’azienda a un posti isolato a guardare i cani, dopo essere stato scaricato dalla Fiom. E, come se non bastasse, c’è anche la vicenda degli ultimi segretari territoriali, tutti rimossi per storie di malaffare…
Chiudo
tornando ancora sulla presunta contraddizione nel popolo tra
operai-cittadini. Come detto, questa non esiste sulla base dei fatti.
Quella che c’è stata, e che oggi è di ostacolo, è una
contraddizione ideologica, un processo di deriva ideologica che i
percorsi personali di figure come Battista e Ranieri (sommariamente
ricostruite) incarnano ma sono comuni a tanti altri. È il percorso
di operai che hanno avuto il coraggio di ribellarsi ma si sono
ritrovati soli e/o hanno perso la determinazione a continuare la
lotta in fabbrica e alla fine hanno maturato un distacco dalla
propria classe, quasi un disprezzo per i compagni di lavoro “non
più liberi né pensanti”, una negazione di sé e l’auto-proiezione
come cittadini difensori della città perfino contro le lotte degli
operai. Una contraddizione da risolvere e una deriva da combattere
perché solo intorno al ruolo diretto degli operai e alla lotta in
fabbrica è possibile costruire quell’alleanza con le masse
popolari e rivolta sociale che può realmente cambiare il corso delle
cose.
Sebastiani
Nel
mio lavoro di giornalista mi sono occupato di Ilva e sono stato
personalmente a Taranto e tra i lavoratori. Posso confermare e
testimoniare il clima di terrore e dittatura che gli operai
respiravano, molti avevano perfino timore a fermarsi a parlare con me
davanti ai cancelli e mi chiedevano di vederci dopo lontano dalla
fabbrica…
Posso
anche confermare che i vari segretari Fiom sono stati indifendibili e
impresentabili…
Sono anche d’accordo che la vicenda Ilva sia paradigmatica, non
solo per le ragioni dette dal compagno ma perché è lo stesso che ci
vogliono imporre in una città come Roma anche se apparentemente la
situazione è completamente differente. Se a Taranto ci dicono
statevene buoni e calmi altrimenti perdete il lavoro e morite di
fame, a Roma ci dicono statevene buoni nelle case e non chiedete
troppo, perché ad uscire fuori, si muore…
Dunque
è importante che questo paradigma venga spiegato e narrato ma occorre fare uno sforzo per un tipo di narrazione diversa, più
accattivante e affascinante, non fissarsi sulla critica a Rizzo e gli
altri…
Questo
è una lettura utile ai compagni, io per primo l’ho letto con
interesse e posso dire che è una specie di Bibbia per capire la
situazione, ma a livello di massa ci serve altro…
Le posizioni e percorsi individuali
che descriviamo non sono meramente personali ma riflettono
condizioni, traiettorie e vicende molto più comuni e generali. In
questo senso le critiche che facciamo non sono attacchi personali ma
parte di una lotta a linee e posizioni che interessano e agiscono a
livello di massa, perfino di più di quanto interessino e impattino
tra i compagni. Tutte le riflessioni, denunce, analisi e proposte
contenute nel libro non sono state pensate per i compagni e rivolte a
loro ma per e tra le masse in lotta. Non le abbiamo scritte per poi
raccoglierle in un libro e proporle. Al contrario: prima le abbiamo
diffuse, fatte vivere negli interventi in
assemblea, i volantini ai cortei, nelle nostre manifestazioni e
iniziative di lotta, nella campagna per la costituzione di massa e
organizzata delle parti civili al processo, e solo poi le abbiamo
raccolte ed edite per restituire un punto di vista e una prospettiva altra;
una narrazione che sia al servizio della lotta di classe, non di una idea da affermare…
In
conclusione. Il Circolo ha ringraziato per l’iniziativa e ha espresso
l’interesse a ritornare sul libro con un nuova iniziativa, questa
volta con più tempo a disposizione e organizzando una partecipazione del quartiere più larga.
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