giovedì 9 luglio 2020

Dalla presentazione del Dossier "L'impero Mittal" - 2° relazione del Prof. Di Marco

Questa 2° relazione del Prof. Di Marco è importante e va letta con attenzione, perchè anche affronta in modo nuovo, niente affatto scontato, temi, quali rapporto tra lotta per la giornata lavorativa e lotta ambientale; contraddizione apparente tra popolazioni che lottano contro la devastazione delle loro terre da parte dell'industria e lavoratori che lottano per la difesa delle fabbriche.
Invitiamo anche a porre eventuali domande, o ad intervenire, mandare commenti.
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Nella prima parte ho parlato del rapporto tra il capitale e il suo Stato, quindi tra mercato mondiale e il suo Stato, nella seconda vediamo le conseguenze di tutto questo sulle sorti della classe salariata cioè sulla sorte dei lavoratori. 
Prima però, alla luce delle osservazioni ampie che sono state fatte dagli interventi che ci sono stati, occorre una piccolissima integrazione sul primo punto.
Quella triplice rappresentanza che realizza Mittal: mercato mondiale - nel suo duplice carattere di mercato mondiale e crisi - e rapporto tra un capitalista globale e gli Stati, in fondo la si può riscontrare non solamente Mittal ma anche in altre figure assolutamente emblematiche di settori di
produzione che sono quanto di più opposto a quella dell'acciaio. Faccio gli esempi di Zuckerberg o Bill Gates, anche qui troviamo: mercato mondiale, capitalisti globali, intreccio con gli Stati; e sapete quanto le controversie fiscali stiano al cuore di tutte le loro vicende.
Allora, vedete che, poiché si comportano allo stesso modo, il problema non è il contenuto materiale della produzione ma la sua forma sociale. Si comprende allora che è priva di senso la disputa se occorra più acciaio o meno acciaio, più produzione immateriale o meno immateriale, è una disputa del tutto astratta. Entro quale forma sociale? Questo è il punto!
Entro quale forma sociale discutiamo di quanto acciaio occorra o di quanta informatica? Tutto il mio intervento mira a mettere in luce l'importanza della forma sociale e, a proposito appunto di sovrapproduzione, ciò che è sovrapproduzione nel capitale in un'altra forma sociale, nel socialismo, è base di un fondo di riserva e di accumulazione per i bisogni della popolazione.
Di che cosa mai si parla discutendo in astratto? Tutto dipende sempre dalla forma sociale. 
E ultimissima osservazione, è mia conoscenza che a Bagnoli dopo lo smantellamento della produzione dell'acciaio, altro che postindustriale! Il divertimento, la “movida”, sta assumendo la forma di una caratteristica industria capitalistica, con i classici problemi dell'antagonismo tra capitale e lavoro salariato per ciò che riguarda non solo la giornata lavorativa ma la stessa questione ambientale. Quindi, vedete che è la forma sociale il punto che ci guida anche per quanto riguarda le osservazioni che avete fatto sulle nazionalizzazioni e sulla forma sociale entro cui le nazionalizzazioni avvengono.

Veniamo adesso alle sorti della classe salariata. Parto dalla lettura di un brano del dossier: “La logica che ha sempre guidato Mittal nell'acquisizione delle aziende vale anche per l'Ilva: prendersi ciò che gli può servire dello stabilimento e buttare il resto, prima di tutto gli operai che non servono, comprarlo a pochi soldi e non impegnare i suoi per accollarsi il risanamento, fare un'operazione volta a bloccare la concorrenza di altri paesi”. Questo è ampiamente documentato soprattutto dalle parti del dossier sull’andamento di produttività del lavoro e occupazione. A Cleveland cioè si passa da un'occupazione di 15.000 a 1.500, e le cifre di Galati in Romania, sono più o meno dello stesso tenore.
Nelle miniere di cui Mittal è anche proprietario, e quindi ha una doppia funzione: di capitalista e proprietario fondiario, incassa oltre i profitti in quanto capitalista, quella parte dei sovraprofitti che non entrano, per il sistema capitalistico, nella formazione dei costi di produzione ma diventano rendita fondiaria. Anche qui, scrive il dossier: “la strategia di riduzione dei costi che Mittal ha adottato in molte delle sue acciaierie e miniere mette a così a rischio la salute e la sicurezza dei lavoratori e di chi vive vicino ai suoi stabilimenti”. Che cosa sta facendo qui Mittal? Di nuovo si sta comportando secondo la legge più propria del capitale, quella della accumulazione capitalistica. Ecco qui ritroviamo la legge della sovrappopolazione relativa che è caratteristica del modo di produzione capitalistico. Qual è il primo mezzo del capitale per l'accumulazione? Attenzione, non per la produzione del plusvalore e basta, ma per quella produzione del plusvalore che serve all’accumulazione, cioè alla trasformazione del plusvalore in capitale. Il primo mezzo di produzione è la popolazione di disoccupati, che, attenzione, è un “mezzo di produzione”, questo è importante sapere. Ecco perché la sovrappopolazione relativa è creata dal capitale perché mediante la pressione dei disoccupati sugli occupati, mediante la concorrenza tra occupati e disoccupati, è possibile aumentare la massa di lavoro senza aumentare la massa di operai. 
Vedete che anche qui Mittal agisce in maniera proprio da manuale, secondo la legge dell'accumulazione.
Insisto tanto su questo perché effettivamente è molto importante per la lotta. Perché, malgrado tutte le difficoltà, malgrado il fatto che sia ancora lungo il cammino per creare un'organizzazione. ecc., il capitalismo della globalizzazione sta esibendo le sue contraddizioni più caratteristiche, cioè quelle della sua fase più avanzata, quelle in cui il capitale stesso scopre di essere in contraddizione con se stesso. Ne abbiamo parlato a proposito di “lotte di classe in Francia”, di quel lavoro della talpa che si spinge fino al punto di semplificare la contraddizione, di esibire la contraddizione centrale, che è quella tra capitale e lavoro salariato. E questo lo vediamo paradossalmente proprio attraverso quella questione che sembra la più neutra, proprio la questione ambientale.
Data questa premessa, Mittal si comporta da coerente capitalista, applica la legge dell’accumulazione capitalistica. Allora il problema degli esuberi è la declinazione della creazione della sovrappopolazione relativa come primo mezzo di produzione. 
Questo ci consente di fare una critica scientifica coerente alla situazione che è così descritta nel dossier: “un'importante problema deriva dai rapporti di forza squilibrati tra società e governi. Nella maggior parte dei casi i decisori governativi sono riluttanti a fare pressioni significative su Mittal perché migliori i propri standard dato che i suoi stabilimenti impiegano un gran numero di persone ed è spesso il principale datore di lavoro dell'area”. Qui ci troviamo dinanzi a un problema che tutti quanti riconosciamo subito: lavoro o ambiente, la falsa contrapposizione. Questo è il secondo dei nessi importanti tra il capitalista globale e lo Stato.
Ritorniamo alla legge della creazione della sovrappopolazione relativa perché è alla luce di questa che si comprende quanto questa modalità di presentare il problema sia ideologica, e quindi mistifichi. Che cosa produce la sovrappopolazione relativa? Essa è un prodotto del rapporto tra capitale costante capitale variabile; cioè con il progresso dell'accumulazione cresce il capitale costante, può aumentare anche la massa di lavoro richiesta dall'aumento dei mezzi di produzione, ma la media a cui cresce il valore dei mezzi di produzione è superiore alla media con cui cresce capitale variabile.
Cioè aumenta la massa di lavoro ma non la massa e dei lavoratori. Perciò la formulazione classica “il capitale con la grande industria porta lavoro e molto lavoro” è inoppugnabile. Il capitalista dà lavoro, ma quanto lavoro? Che significa che dà lavoro? Significa che simultaneamente, dialetticamente, richiede meno lavoratori.
Vedete tutto l'equivoco è dato dalla confusione, che fa già l'economia classica, da Riccardo in poi, tra lavoro e forza lavoro. L'aumento della massa di lavoro non significa aumento dei lavoratori. È del tutto mistificatorio ma è perfettamente comprensibile come ideologia del capitale.
Diventa, purtroppo, incomprensibile quando la cosa diventa coscienza operaia o coscienza delle popolazioni anche tramite le loro organizzazioni, fossero anche le più ufficiali. Cioè abbiamo una non conoscenza, che non è casuale, della legge fondamentale, la più importante, dell'accumulazione capitalistica, dopo quella del plusvalore e accanto a quello della caduta tendenziale del saggio di profitto, della creazione della sovrappopolazione, che occulta la differenza per cui l'aumento di lavoro non è aumento dei lavoratori. E anche qui Mittal si comporta in modo assolutamente classico.
Questa enunciazione ci porta al problema dell'ambiente. Come mai, come lamenta il dossier, gli Stati danno un sacco di fondi per l'ambiente, fin dagli anni 2000, ma non se ne fa nulla? Tutto il dossier è articolato per documentare come questo si ripeta in tutte le situazioni. 
Che cosa dice Mittal? e anche questa è una argomentazione classica. Mittal dice “ Sì, io investo per l'ambiente però i tumori non dipendono solamente dalla fabbrica, hanno tutta un'altra serie di cause rispetto alle quali io non so che possa fare”. Disloca la questione su altre cause. 
Perché il ragionamento possa essere rigoroso dobbiamo procedere attraverso l'ipotesi, assumere in parte anche che l'inquinamento possa venire non solo da una grande industria ma anche da altrove. Questo però non risolve assolutamente il problema. Perché cosa avviene dentro la fabbrica? Avviene qualcosa che ci permette di dislocare la questione dell'ambiente dalla questione generale, per cui non è l'industria ma è il capitale che inquina, che è giustissimo, e di concentrarla precisamente sulla questione interna alla fabbrica, che è la questione a della giornata lavorativa e della giornata lavorativa normale.
Io cerco ora di riportare la questione ambientale alla questione della giornata lavorativa, dentro la fabbrica. 
Nel primo libro del capitale c’è quello scontro che Marx mette in scena tra capitalisti e lavoratori sulla questione della giornata lavorativa. Che cosa chiede il capitalista al lavoratore, avanzando il suo diritto di consumatore? Dice: “la merce che ho comprato, cioè la forza-lavoro, l'ho comprata esattamente per la sua qualità merceologica - cioè il suo valore d'uso, non il valore di scambio, il suo valore d'uso che non attiene solo al modo di produzione capitalistico ma tutti i modi di produzione da che l'uomo è uscito dall'antropofagia - e cioè quella di produrre più prodotti di quanti basterebbero a reintegrare i sui mezzi di sussistenza - il pluslavoro, che non è invenzione del capitale. L'ho comprata per questo. E che cosa ho pagato? Ho pagato al giusto prezzo la tua forza lavoro proprio in quanto mi dà questo prodotto, questo valore d'uso. Quindi, se tu lavoratore chiedi di potere lavorare meno, allora mi derubi”.
Risponde il lavoratore:  “Tu, e non sto parlando alla tua persona, tu puoi anche essere in odore di santità ma ciò che tu rappresenti so che non ha cuore, anzi in essa batte il palpito del mio cuore. Parliamo di affari, tu hai ragione, e io non voglio negartelo, te lo voglio dare un pluslavoro - cioè un lavoro superiore - so bene che tu l'hai comprata (la mia forza-lavoro) per questo. Ma, se tu avanzi il tuo buon diritto di consumatore, io avanzo il mio buon diritto di produttore, quindi di venditore. Se tu sei il compratore che vuole consumare produttivamente la mia forza-lavoro, mi devi dare la possibilità di reintegrare questa forza-lavoro. Se tu me la massacri con una giornata lavorativa infinita, io non la posso rivendere integrale. Facciamoci due conti: mettiamo che una forza lavorativa media duri 30 anni e che tu la paghi un euro al giorno, qual è la frazione? 1/365x30 = cioè 1/10950. Ma se tu la forza-lavoro media la dilapidi in 10 anni invece che in 30 anni, facciamoci ancora i conti: tu mi dai la stessa paga di un euro x 365x10 = 3650. E allora chi è che deruba?” 
Qui, dice Marx, si vede chiaramente che ci sono due eguali diritti da un lato il diritto del compratore capitalista dall'altro quello del venditore lavoratore. Diritto contro diritto, tra i quali diritti decide la forza. La lotta per la giornata lavorativa normale è quella che attraversa tutta la guerra civile di classe nella lunga storia del modo di produzione capitalistico moderno. Che cosa significa lotta per la giornata lavorativa normale? Come ha detto il lavoratore al capitalista, non importa che brava persona tu sia, tu rappresenti il capitale, rappresenti una classe e io rappresento un'altra classe. Questo è il nodo del problema: significa che, cito a memoria: la lotta per la giornata lavorativa, in uno stadio in cui il capitale ha raggiunto una fase avanzata, dimostra senza eccezione che l'operaio, il quale voglia lottarvi singolarmente, cade senza resistenza. mentre è una lotta che vede classe contro classe.

Ecco allora il problema dell'ambiente, che sia la nocività della fabbrica o l'andamento della media dei cancri che venga da non so quale altra condizione, tutte queste concause che fanno? Dilapidano la forza lavoro dalla sua media durata di 30 anni alla durata di 10 anni. Questo è il nodo. Ecco perché la lotta ambientale è parte integrante e sostantiva di quella che è la madre di tutte le lotte operaie, la lotta di classe sulla giornata lavorativa normale che è il cuore del cuore dei cuori. 
Quindi la battaglia ambientale, vista in questa prospettiva, è l'hard core di tutta quanta la questione della giornata lavorativa. Questa è una declinazione che inchioda al muro l'argomento “la nocività non viene dalla fabbrica ma da fuori”. Dovunque provenga e chiunque debba risponderne, il Comune, la Provincia, un l'altro capitalista o chicchessia, entra nei nostri rapporti sulla giornata lavorativa.
Si rivela qui, e mi sento di dirlo con molta forza, estremamente fallace la tesi degli ambientalisti che dicono “la soluzione è spostare la produzione, riconvertirla, invece di acciaio produciamo altro”. Non perché in astratto non si possa produrre altro, ma vale il discorso che acciaio o immateriale che sia la produzione, conta entro quale forma di società la si produce. Se il problema si potesse risolvere con la riconversione, seguiremmo filo filo il discorso di Mittal, che dice non dipende da me, significherebbe deresponsabilizzare il capitalista da una questione che lo riguarda in prima persona, la questione sostantiva, cruciale, della giornata lavorativa.
Se per ipotesi a Taranto i problemi ambientali provenissero da altra fonte, la questione riguarderebbe comunque Mittal in prima persona, perché riguarda quella dinamica interna che ho detto. Mittal dice che fa il possibile sulla fabbrica ma, anche a volergli credere, il problema non è risolto. La questione è interna, sostantiva, della fabbrica. Anche se sei un capitalista che rispetta l'ambiente, il punto è l’impatto sulla giornata lavorativa.
Marx nel terzo libro del capitale dice che quando il plusvalore prodotto deve essere realizzato, il capitale merce deve essere venduto, e questi sono due processi molto diversi perché la produzione del plusvalore dipende dal grado di sviluppo della forza produttiva della società, la vendita, invece, dipende dalla capacità di consumo della società e nel capitalismo la capacità di consumo della società dipende dall’ineguale distribuzione dei mezzi di produzione nella società. Per cui, conclude Marx, anche se il capitale occupasse tutta la popolazione, che è anche teoricamente possibile, resterebbe sempre la contraddizione tra le condizioni in cui il plusvalore è prodotto e quelle in cui viene realizzato. Questo porta il capitale in contraddizione. Allora la lotta a mio avviso va posta su questo livello. Ecco perché la giornata lavorativa è la chiave di tutte le chiavi.

Veniamo ora al problema della forma di lotta. Potrebbe sembrare a prima vista molto strano che all'Ilva di Taranto appaia coerente e giustificato dire che la soluzione non è quella di chiudere la fabbrica e riconvertire la produzione ma quella di fare una bonifica radicale della fabbrica e del territorio, lasciando la fabbrica aperta, mentre ad esempio in India la lotta è affinché non venga devastato l'ambiente con l'impianto di una industria. Può sembrare a prima vista una contraddizione che non si risolve dicendo il capitale distrugge il lavoratore e la terra, perché rimane un’affermazione generica. Anche questa apparente contraddizione dobbiamo risolverla sempre con le leggi fondamentali della produzione capitalistica e con le sue contraddizioni. 
Il dossier riporta l'esperienza degli abitanti di 17 villaggi che hanno chiesto che le terre non fossero vendute per l'acciaieria di Mittal. “I terreni richiesti per il progetto sono suoli agricoli multi raccolto fertili e irrigati, la voce di queste persone è forte ed è probabile che non abbandonino facilmente le loro terre, il che sarà un problema sia per il governo dell'Orissa che per Mittal”.
Io qui non entrerei nel merito delle linee politiche, voglio assumere come elementi di resistenza anche gli ambientalisti in America. Quale che sia la linea politica questa non agisce nel vuoto, avviene sempre con azioni di resistenza della popolazione, che esse vadano verso una prospettiva socialista o no. Il capitalismo, come dice Marx, non è un solido cristallo ma un organismo in movimento, e quindi è giusto che il dossier faccia una ricognizione di tutte le resistenze più varie, facendone una ricognizione si ha un quadro delle lotte che anche se non sono immediatamente lotte comuniste, danno il quadro della contraddizione.
Anche da questo punto di vista il dossier è uno strumento che mi piacerebbe avere più tempo per rileggerlo, ritornarci, perché è un pò una miniera da cui si ricavano tante cose.
Perché gli abitanti, che ne abbiano coscienza o no - attenzione, stiamo vedendo l'oggettività della lotta in sé non quella per sé, la sua potenzialità per dirla più semplicemente, che per il comunista è importante sapere per portare da “in sé” a “per sé”, per rendere consapevoli del vero motivo che ci sta dentro la lotte - hanno questa radicale opposizione così immediata? Perché i contadini, la popolazione della foresta che si oppone, hanno letto la Vandea, gli autori reazionari? Oppure perchè nascono cattivi, secondo la tesi dei reazionari? Ma è perchè potenzialmente, a prescindere dal grado di coscienza, comprendono che l'industria che viene non ha come obiettivo quello di dar loro lavoro o quello di soddisfare i loro bisogni, per il semplice fatto che non hanno avuto nessuna voce in capitolo per dire che si fa questa riconversione produttiva dalla agricoltura all'industria.
E che cosa è in questione? Non l'industria ma la capacità di autodeterminazione, cioè la capacità di auto-emancipazione umana. È lo stesso problema della TAV. Il problema non è il treno veloce, il problema è sapere a che serve, quali sono le condizioni e se qui ci sono condizioni idonee a questo tipo di trasformazione. E che cosa decide l'idoneità delle condizioni o l'opportunità della condizione? I bisogni della popolazione. E siccome è popolazione umana, con il progresso i bisogni sono di sicuro universali, non particolari. In questione è il nodo tutto sociale, politico come forma sociale, di decidere del proprio futuro.
Se vogliono costruire una ferrovia veloce solo perché il tempo di circolazione capitalistico deve essere ridotto, senza tenere presente tutto il contesto e le conseguenze, è chiaro che la popolazione si ribella, ma non perché sia oscurantista. Se si devasta la foresta dove l'agricoltura è una fonte rigogliosa di produzione, allora occorre capire se quello è un passo in avanti o un passo indietro, quando il problema sarebbe casomai quello di informatizzare l'agricoltura, non mettere l'industria.
È chiaro che il valligiano, l'abitante della foresta, non sono consapevoli di questo, però questa è la potenzialità di quel ragionamento. È chiaro che il valligiano o l'abitante della foresta confondono tecnica e il suo uso capitalistico. 
Ci vorrà tempo ed esperienza, dice Marx, affinché gli operai - ma non vale solo per gli operai - imparino a distinguere tra tecnica e uso capitalistico, ma il compito non è quello di dare nuovi principi, ma di cavare dalla stessa lotta il suo stesso principio, cioè dove porta nel suo vero senso. Questo mi sembra il nodo del problema.

Vedete che a questo punto non c'è contraddizione tra una lotta per mantenere la fabbrica perché significa mantenere l'occupazione, mantenerla in condizioni decenti, e la lotta degli abitanti della foresta; che significa: io voglio decidere della forma della produzione e quindi sapere se industria significa necessariamente acciaio in condizioni che non siano in contraddizione con la salute, o cambiare e industrializzare, tecnologizzare l'agricoltura. Ecco, questo è il nodo politico. È questo il punto che lega le due lotte apparentemente opposte a che vanno recate a quest'unico principio.

Una società socialista che fa allora? Intanto, prima di venire al socialismo, le popolazioni della foresta impediscono che si costruisca qualcosa che li espropria della capacità di decidere in profondo del loro destino e i lavoratori che lottano perché invece si mantenga l’industria lottano perché possano decidere del loro destino, cioè un lavoro che mantenga la loro possibilità di vivere e vivere decentemente, anche di vendere la loro forza lavoro in condizioni umane, cosa che però poi il capitale non in grado di realizzare.
Una società socialista che farà? Tutti questi stabilimenti sparsi nel mondo li centralizza e la produzione non è che diventa diventa immobile, in eterno a Taranto o in Bosnia-Erzegovina, ma la distribuzione delle produzioni, dei vari valori d'uso, vengono pianificati in base a bisogni umani. Perché il capitale non lo può fare? Non perché sia cattivo, ma perché, come ci spiega Marx nel discorso sul libero scambio, essendo produzione e consumo opposti, per il meccanismo che ho detto prima, la capacità di produzione dipende dalla forza produttiva della società, quella di consumo dipende dalla distribuzione ineguale dei mezzi di produzione, il Capitale persegue l'accumulazione, il profitto e non può fare diversamente. Allora, il problema non è distruggere gli stabilimenti là dove già ci sono ma di riorganizzarli, mantenerli o riconvertirli secondo bisogni umani.

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