Prima la grana: inchiesta sul sistema d’accoglienza di Taranto
Se da un lato la manifestazione provinciale convocata dalla rete Campagna Welcome Taranto per chiedere l’apertura dei porti, il superamento dell’approccio hotspot, contestare il Decreto Sicurezza, si è rilevata un successo-secondo gli organizzatori-in termini di numeri, alleanze (hanno aderito decine di associazioni, partiti e sei amministrazioni comunali, capoluogo compreso) e di proposta politica; dall’altra parte sul fronte della gestione istituzionale locale dell’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati se ne sono moltiplicate, invece, nell’ultimo anno le ombre.
Così, tra i rilievi mossi lo scorso marzo dall’Autorità nazionale Anticorruzione (Anac) sull’affidamento e la gestione dell’hotspot di Taranto all’associazione Noi è Voi, ai due diversi processi giudiziari, ancora alle battute iniziali, l’uno sulla gestione dei centri di accoglienza straordinari, l’altro sulla gestione dello Sprar nel comune di Massafra, che vede tra gli imputati con l’accusa di peculato il direttore tarantino della Caritas diocesana, il parroco del quartiere Tamburi, Don Nino Borsci, l’anno appena trascorso si è chiuso in bellezza a Taranto sul fronte delle ombre proiettate sul sistema d’accoglienza dei migranti. Ciò anche a causa dell’arresto, per altre vicende e con le accuse di associazione a delinquere e di truffa aggravata ai danni dello stato, di uno degli imprenditori, Salvatore Micelli, che negli anni ultimi anni, a Taranto, hanno fatto più affari con il sistema di accoglienza. Ma non soltanto.
Di Micelli avevamo già parlato appunto due anni fa, raccontando che la cooperativa sociale di cui era socio, la Indaco Srl era stata esclusa in un primo momento dalla gara d’appalto bandita dalla locale prefettura per mancanza dei requisiti esperienziali, e a causa dei precedenti penali che gravavano sui soci, ma che, poi la società era stata riammessa nella stessa gara d’appalto «non rilevando i precedenti penali di un socio per detenzione di arma di fuoco», così come avevano motivato la decisione i giudici del Tribunale amministrativo (Tar) di Lecce.
Di Micelli avevamo già parlato appunto due anni fa, raccontando che la cooperativa sociale di cui era socio, la Indaco Srl era stata esclusa in un primo momento dalla gara d’appalto bandita dalla locale prefettura per mancanza dei requisiti esperienziali, e a causa dei precedenti penali che gravavano sui soci, ma che, poi la società era stata riammessa nella stessa gara d’appalto «non rilevando i precedenti penali di un socio per detenzione di arma di fuoco», così come avevano motivato la decisione i giudici del Tribunale amministrativo (Tar) di Lecce.
In questo modo la Indaco Srl ha potuto fare affari con lo stato, e grazie ai migranti, fino al 26 giugno del 2017, il giorno in cui l’allora prefetto di Taranto, Donato Cafagna, in seguito alle ispezioni dei carabinieri dei Nas e della Asl di Taranto chiude con un’ ordinanza i centri gestiti dalla Indaco contestando «gravi inadempienze contrattuali, anche a causa di carenze igieniche sanitarie», e con la Procura di Taranto che contestualmente apre le inchieste, accendendo i riflettorianche su altre società impegnate nel settore dell’ accoglienza dei migranti in provincia di Taranto.
In uno dei procedimenti, il magistrato che ha condotto le indagini ha chiesto di recente il rinvio a giudizio per l’ex giudice di pace Antonio Damiano Milella, legale rappresentante della Indaco Srl, il quale è accusato dai giudici di aver falsificato documenti «attestanti la sussistenza dei requisiti necessari per partecipare e successivamente conseguire l’aggiudicazione della gara», alterandone così il funzionamento. Requisiti in materia di urbanistica, edilizia, prevenzione degli incendi, oltre che relativi alla stessa agibilità del fabbricato. Secondo i giudici tarantini il Convento Santa Maria Galeso per esempio (una antica struttura del 1200, che si trova a cinque chilometri dal centro abitato della città, tra la ferrovia e le fabbriche e che ospitava i migranti della Indaco) non aveva l’agibilità; lo stesso tecnico che viene citato ha ribadito ai giudici di non aver mai sottoscritto i documenti urbanistici presentati dalla società per partecipare agli appalti.
MA OLTRE INDACO C’È DI PIÙ
E non c’è solo una vecchia vicenda tutta da provare risalente al 2014 per cui la procura di Taranto ha chiesto il processo nei confronti del direttore tarantino della Caritas diocesana, e del direttore dello Sprar di Massafra, accusandoli entrambi di peculato, perché-secondo l’accusa-si sarebbero appropriati di poco meno di centomila euro, soldi oggetto di trasferimento da parte del Comune di Massafra, e per cui mancherebbe, però, la documentazione giustificativa. Al direttore dello Sprar di Massafra, Domenico Perillo, e solo a lui, l’accusa ha contestato anche le accuse di maltrattamenti e lesioni nei confronti degli ospiti della struttura. Accuse tutte da provare in sede processuale, comunque.
L’ISTRUTTORIA SULLA GESTIONE DELL’HOTSPOT APERTA DALL’ANAC
È all’attenzione della Procura Generale della Corte dei Conti anche la gestione dell’hotspot, uno dei cinque centri esistenti in Italia per l’identificazione e il fotosegnalamento. Il faro giudiziario, anche qui, è stato aperto dalla delibera inviata alla magistratura contabile da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. L’attenzione di Anac ebbe origine in seguito ad un esposto presentato all’Autorità garante da parte del deputato del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Brescia. Nella delibera che risale al marzo scorso, il presidente di Anac, Francesco Merloni ha scritto: «il Comune di Taranto avrebbe potuto più correttamente gestire l’Hotspot tramite una gara unica o un numero limitato di gare suddivise in lotti aventi ad oggetto prestazioni omogenee, finalizzate alla sottoscrizione di un contratto o di un accordo con gli operatori economici», e invece-sostengono dall’Autorità nazionale Anticorruzione- «c’è stato un improprio utilizzo delle proroghe negli affidamenti di appalti di servizi e forniture nei confronti dell’Associazione Noi è Voi». Sia chiaro: accuse anche queste tutte da dimostrare.
CHE FINE HA FATTO QUELLO SPRAR IMMERSO NELLA ZONA INDUSTRIALE?
L’hotspot di Taranto-come è noto-è situato all’interno della zona industriale della città, stretto tra gli edifici dell’Ilva, il vecchio cementificio, Cementir, la raffineria dell’Eni: un complesso nocivo e inquinante, che è evidentemente già metafora dello spazio marginale e insalubre riservato all’umanità migranteconsiderata in eccesso.
Fino a qualche tempo fa, lì, nei pressi della zona dell’hotspot, c’era addirittura uno Sprar. E la storia era andata così: il Comune di Taranto aveva messo a disposizione una struttura di sua proprietà, l’ex convento dei cappuccini, un luogo oggi semi fatiscente che si trova a un paio di chilometri dal centro abitato, come quota di cofinanziamento del progetto “Taranto… oltre confine” individuando nella Caritas diocesana locale, e nel centro di formazione Programma Sviluppo, i soggetti attuatori del progetto, nel triennio 2014/2016, ognuno per la parte di propria competenza. Nell’anno 2016 lo Sprar di Taranto è stato poi ampliato, per ulteriori sei posti, oltre gli iniziali 21. Ma a partire dai mesi successivi, di quel centro cofinanziato con la sede del Comune non se ne saprà più nulla, e sul perché la convenzione con i soggetti non è mai stata oggetto di proroga fino alla pubblicazione del nuovo bando, le bocche sono cucite. Quel che è certo è che le ultime ombre in ordine di tempo sul sistema di accoglienza sono state proiettate, invece, a partire dall’ultimo bando comunale del sistema Sprar, che ha visto l’aggiudicazione da parte di una cooperativa neofita del settore, ma, soprattutto, con a capo un sacerdote dal profilo- diciamo così- politicamente discutibile. Già, perché, don Luigi Larizza, il prete di riferimento della cooperativa, la Giovanni Paolo II, che ha vinto l’appalto comunale da un milione e duecentomila euro per la gestione dello Sprar comunale così scriveva sulla sua pagina facebook, appena due mesi fa: «Qualche ignorante e accecato dai soldi che sta guadagnando, dice che sono xenofobo e razzista, meglio essere definito da questi ignoranti, xenofobo e razzista, piuttosto che essere complice con gli oltre 80.000 mafiosi sbarcati in Italia», riferendosi ai migranti sbarcati nell’ultimo anno. E ancora don Luigi Larizza, il 23 novembre scorso, si scagliava contro lo scrittore Roberto Saviano in questo modo: «Senti chi parla, non sa fare altro che bla, bla, bla, e noi da cretini, gli garantiamo tutto, scorta presidenziale compresa». E così, invece, dichiarava alla stampa nazionale più o meno nello stesso periodo: «Salvini è coerente con la dottrina cattolica. Se io sono a capo di una famiglia devo provvedere prima di tutto ai miei figli, dopo a chi arriva». E ancora, sosteneva don Larizza: «Anche a Taranto alcuni, nel nome dell’accoglienza, sono finiti per arricchirsi».
L’altra parte più nebulosa, infine, di questa storia, la raccontano in apparenza le operazioni di gara, le informazioni contenute nel verbale di assegnazione dello Sprar tanto che due società, tra le escluse, hanno deciso di ricorrere ora al Tribunale amministrativo regionale. In un primo momento, infatti, tutte le partecipanti alla gara erano state ammesse, ma con riserva; finalizzata alla produzione, per tutte, quindi, di ulteriore documentazione che era mancante in sede di prima apertura delle buste. Tutte le coop, in seguito, avevano presentato tali fascicoli integrativi; e tra di loro c’era Indaco Srl, ma soltanto la coop Giovanni Paolo II era rimasta in gara. Così il rappresentante legale della Giovanni Paolo II, l’ex dirigente provinciale di Sinistra Ecologia e Libertà, Marcello Caracciolo, ha potuto apprendere dal responsabile del procedimento (Rup) la notizia che la coop di Don Larizza era l’unica rimasta in gara e che «la discussione sarebbe proseguita quindi in via riservata per la successiva valutazione dell’offerta tecnica».
Questi, dunque, sono solo alcuni degli italiani pronti a fare affari alle spalle del sistema di accoglienza per i richiedenti asilo e rifugiati. Come dire che, prima degli ideali, prima degli italiani, prima c’è la grana.
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