Ieri si è tenuta una conferenza on line sul "futuro dell'ex Ilva" organizzata da Federmanager e a cui hanno partecipato e sono intervenuti, oltre il presidente della Confindustria di Taranto e commissari Ilva AS, i segretari di Fim, D'Alò, di Uilm, Palombella e per la Fiom, Bruno Manganaro da Genova.
Una conferenza che aveva come obiettivo di dare una soluzione per il rilancio dello stabilimento siderurgico di Taranto, "tecnicamente compatibile con gli obiettivi di produzione e di sostenibilità, per riportare l’ex-Ilva sul mercato".
Da parte dei sindacati:
La Fim, attaccando gli "opposti estremismi", ha fatto al solito il megafono dell'azienda: sul no allo scudo penale; Aia, sì ma non si può cambiarla ogni due mesi; AM sta pagando le ditte dell'appalto; ci vuole un ruolo attivo dello Stato nell'entrata nella società; non si può parlare di "forni elettrici" e poi pensare di bloccare la Tap...
La Uilm di Palombella ha detto che non esiste la produzione dell'acciaio in Italia senza il ciclo integrale di Taranto che non può funzionare senza area a caldo; che Mittal se va via pretenderà tantissimi soldi; che parlare di ambiente pensando di chiudere l'Ilva è fare dello stabilimento una polveriera: se ci sono voluti 25 anni per cominciare a parlare di risanamento per la Belleli - che è grande 364 metri quadri, figurarsi quanti anni ci vorranno per l'Ilva che è 2 volte la città... (e questo è vero - ndr), e comunque non si può risanare se non ci sono gli impianti che marciano e non si mettono i fondi. Ma qui noi diciamo invece: non si può risanare senza gli operai in fabbrica, con gli operai mandati a casa.
Invece "novità" - nel senso di chiarezza di posizioni sono venute dalla Fiom di Genova. Che, sgomberando il campo da qualsiasi equivoco e populismi che vengono ogni tanto dalla Fiom di Taranto,
e da altre sponde, ha detto, dopo aver salutato positivamente il piano di Federmanager:Quindi, in conclusione, riprendendo la linea corporativa che ha sempre caratterizzato la Fiom di Genova ha concluso col ricatto: "se non manteniamo la bandiera dell'area a caldo, se chiude Taranto, Genova e Novi Ligure cercheranno da altre parti le bramme che servono per la loro produzione...
QUINDI, LA CHIUSURA A GENOVA DELL'AREA A CALDO NON FU AFFATTO FRUTTO DELLA LOTTA DEGLI OPERAI, O DELLA POPOLAZIONE; MA INTERNA AD UN "DARE E AVERE" (SOPRATTUTTO AVERE DA PARTE DI RIVA) TRA ISTITUZIONI E PADRONE, E NON IN CONTRASTO CON UNA STRATEGIA PRODUTTIVA CHE PUNTAVA A RAFFORZARE L'AREA A CALDO, IL CICLO INTEGRALE DELLO STABILIMENTO DI TARANTO PIU' GRANDE DI EUROPA, E NON AVEVA VANTAGGIO A TENERE DUE STABILIMENTI SIMILI.
Speriamo che Taranto, gli ambientalisti, e anche parte degli operai capiscano finalmente questa "chiarezza"! Soprattutto gli operai che guardano sempre a Genova come un esempio da seguire.
Al di là di alcuni momenti buoni di lotta, la linea della organizzazione principale a Genova, la Fiom, è stata sempre e lo è tuttora una linea corporativa, che guarda solo ai suoi interessi, ed è pronta a mettere i piedi sopra agli operai di Taranto.
Ma, chiarezza per chiarezza, lo Slai cobas sc ha da sempre sfatato questo mito di Genova.
In uno dei primi convegni fatti dalla Rete nazionale per la sicurezza a Taranto nel 2012, un ex delegato Fiom dell'Ilva, Francesco Maresca, chiarì anche lui la realtà di questa chiusura a Genova dell'area a caldo - riportiamo questo pezzo del suo intervento:
"Tirano poi in ballo, a sproposito, l’esempio della chiusura dell’area a caldo di Genova, frutto di presunte grandi mobilitazioni di cittadini, quando in realtà i nostri compagni che a Genova vivono e operano ci hanno confermato che a suo tempo ci furono mobilitazioni di circoli ristretti rispetto alla dimensione della città... È vero che a Genova Riva ha chiuso l’area a caldo ma nessuno vuole ammettere che per farlo Riva ha beccato un sacco di milioni. Nel '98, quando io ero ancora in fabbrica, Riva fece un accordo che discutemmo in consiglio di fabbrica, dove ci raccontarono la barzelletta che sarebbe stata spostata a Taranto la produzione di altri due milioni di tonnellate quando già la produzione, che allora era su cinque altiforni, aveva raggiunto il suo massimo. Comunque sia, nel '98 si fa quell’accordo ma l’area a caldo è stata chiusa solo nel 2005. Se si considera che un altoforno ha una campagna produttiva da 5 a 8 anni, dopo i quali l’altoforno va rifatto. Dunque nel 2005 Riva aveva l’alternativa: spendere 15, 20, qualcuno dice 30 milioni per rifare l’unico altoforno ancora attivo a Genova, o incassare i 50 milioni che lo Stato e la Regione gli offrivano per chiuderlo, più la gestione per 50 anni dell’area demaniale del porto? Secondo voi Riva che cosa poteva scegliere? Perché gridare alla vittoria, quando, nel migliore dei casi, è una vittoria di Pirro?..."
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