di ALESSANDRA CAVALLARO E’
rimasto paralizzato per due minuti. Interminabili. «Dio aiutami» è
stato l’unico disegno in bianco e nero che ha prodotto la sua mente. Era
su una gru semovente Antonio Laudati, operaio dell’appalto, quando la
furia del vento, mercoledì mattina, si è abbattuta sull’Ilva. Lavorava
da poche ore nella zona delle batterie insieme a sei colleghi. Tutti
miracolosamente salvi. A tre metri da lui è crollata la torre di
cemento. Un tonfo assordante. Intorno lamiere, vetri, distruzione.
Antonio doveva tirare su una valvola, un lavoro di routine, un
intervento ordinario, ma la pioggia e la violenza di una folata anomala,
devastante, hanno generato il panico. D’improvviso tutto è diventato
nero, il cielo, l’aria, i pensieri. Lui è rimasto bloccato sulla gru e
ha incominciato a pregare, paralizzato, immobile nel terrore di
quell’incognita chiamata tornado. «Io non potevo far altro che rimanere
fermo, vedevo i miei colleghi scappare, si sono riparati sotto una
tettoia. E’ stata la loro fortuna - afferma Antonio Laudati - perché se
si fossero rifugiati dentro al furgone parcheggiato lì vicino sarebbe
stata la fine». Lo stesso furgone che in pochi secondi è stato
schiacciato dalla torre crollata.
E’ lucido, tremendamente
lucido Antonio, nel raccontare come la morte gli sia passato davanti
agli occhi. «Io mi sono salvato - dice - perché manovravo la gru dietro
ad un serbatoio che mi ha riparato, ecco perché il mezzo non si è
ribaltato» . In quei velocissimi istanti in cui la furia del tornado ha
tagliato l’Ilva, ha preso forma un ricordo, quello di un suo collega
schiacciato proprio da una gru. Lo ha cancellato in un nano secondo,
doveva cancellarlo, ed ha imboccato l’unica strada percorribile:
invocare quel Dio a cui Antonio è devoto, oggi più di ieri. Passata la
furia del tornado Antonio è riuscito a scendere a terra e nel correre si
è ferito ad un ginocchio. Tra colleghi si sono chiamati, si sono
cercati, l’appello più difficile che abbiano mai fatto. Al buio, a causa
un blackout momentaneo. Erano tutti li, ancora attoniti e spaventati.
Sopravvissuti.
Vengono raggiunti prima da un responsabile del
reparto e poi dalla notizia che è meglio lasciare lo stabilimento.
Antonio prima si reca nell’infermeria, stracolma di dipendenti con tagli
evidenti sul corpo. «Guardavo le persone con forti dolori al petto e
pensavo che il paura a volte gioca brutti scherzi». L’aria rarefatta e
satura di disperazione ha indotto Antonio a chiedere un certificato per
essere trasferito e medicato altrove. La sua contusione verrà curata
all’ospedale di Grottaglie. Poi a casa. Dalla sua famiglia. Ma il
silenzio delle stanze fa male, quando un soffio pesante a 200 chilometri
orari sfiora la vita, strappandole la pace. Si cambia e si riveste
Antonio, e alle 18 raggiunge l’oratorio a Paolo VI dove fa il
volontario. Sente il bisogno di confondersi tra quei volti che conosce.
Appartenere ancora alla storia. Raccontare quell’avventura che per tanti
è stata solo pioggia e vento. Per Antonio è il segno che è tutto già
scritto». Quasi una strada tracciata quella tormenta mai vista prima in
città. Chiude l’operaio dell’appalto: «Lo stabilimento è devastato.
Avranno bisogno degli operai per rimettere tutto in ordine». In fondo spesso è così, le sciagure portano il deserto, uno spazio vuoto sul quale ricostruire.
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