Dopo la rivolta alla masseria Boncuri capeggiata dallo studente camerunense Yvan Sagnet: alla sbarra sette imprenditori salentini e nove caporali africani
di CHIARA SPAGNOLO LECCE - Dai campi delle angurie alle aule del Tribunale. Sette imprenditori salentini, accusati di avere sfruttato decine di braccianti extracomunitari, e nove complici africani, che degli stessi extracomunitari avrebbero organizzato l’arrivo illegale in Italia, sono stati rinviati a giudizio dal gup di Lecce Alcide Maritati. Saranno giudicati a partire dal 31 gennaio dalla Corte d’assise perché su di loro pende un’accusa gravissima: riduzione in schiavitù di numerosi lavoratori. Solo quattro di loro per ora hanno avuto il coraggio di costituirsi parte civile, capeggiati ancora una volta da Yvan Sagnet, lo studente camerunense del Politecnico di Torino che nell’estate 2011 diventò il leader della rivolta dei braccianti dalla pelle scura.FOTO: Nardò, chiude la masseria Boncuri
Alla luce del decreto che dispone il giudizio per quelli che la Dda di Lecce ha considerato gli schiavisti del terzo millennio, Yvan non ha dubbi: "La giustizia italiana ha dimostrato di essere imparziale” e lancia un appello a quanti, in tutta la penisola, vivono condizioni inumane di sfruttamento professionale: “Denunciate, bisogna avere il coraggio, anche mettendo a rischio la nostra vita, perché quando le denunce sono vere, la giustizia sa dare risposte”. L’euforia di Yvan è contagiosa, passa dai volontari dell’associazione
Oltre alla riduzione in schiavitù il pm Elsa Valeria Mignone ha contestato, a vario titolo, le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e permanenza in stato di irregolarità sul territorio nazionale, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione. Le indagini del Ros dei carabinieri, negli anni tra il 2009 e il 2011, portarono alla luce l’esistenza di una vera e propria associazione a delinquere, che aveva come fine lo sfruttamento lavorativo degli immigrati e il loro mantenimento in condizioni disumane. Un cartello tra gli stranieri, che organizzavano i viaggi della speranza, e gli imprenditori italiani che utilizzavano la manodopera dei disperati, con un posto anche per i caporali che concretamente tenevano sotto scacco i raccoglitori.
A far emergere l’inferno vissuto ogni estate tra i filari di angurie e pomodori di Nardò furono servizi di osservazione e intercettazioni ma anche le denunce dei lavoratori, che si spaccavano la schiena per dodici ore al giorno, finendo a dormire in casolari fatiscenti o sotto gli ulivi. «La nostra giornata lavorativa durava circa dodici ore, per i pomodori venivo retribuito 4 euro a cassa, per i meloni 15 euro al giorno, dai quali mi venivano decurtati 4 euro per il trasporto ai campi, 1 euro per ogni bottiglia d’acqua (ne bevevo due), 4 euro per un panino e 4 euro e 50 per le sigarette», raccontò un tunisino ai carabinieri e lo stesso fecero molti suoi compagni di lavoro, compreso Yvan Sagnet. Per il pm Mignone questo trattamento era da considerarsi pari alla riduzione in schiavitù. Il Tribunale del Riesame di Lecce ha poi ritenuto diversamente facendo venire meno l’imputazione, ma la Dda ha contestato ugualmente il reato, con l’ostinata volontà di far finire a processo imprenditori e caporali anche per l’articolo 600 del Codice penale. Il primo round è stato vinto dalla Procura. Gli imprenditori salentini (a partire dal “re delle angurie” Pantaleo Latino, considerato il capo e promotore del sodalizio, passando per Marcello Corvo, Livio Mandolfo, Corrado Manfredo, Giuseppe Mariano, Salvatore Pano e Giovanni Petrelli) e i loro presunti complici africani dovranno difendersi davanti alla Corte d’assise.
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