domenica 24 aprile 2016

L'antifascismo a Taranto - Pubblichiamo con piacere uno stralcio Dal libro “Angelo Antonicelli il Sovversivo. Memorie di un contadino di Massafra”

Dal libro “Angelo Antonicelli il Sovversivo. Memorie di un contadino di Massafra”
Edizione LiberEtà 2011- passatofuturo. Testimonianza di Antonio (Juccio) Antonicelli.

 


"A Massafra, paese della Bassa Murgia, Angelo Antonicelli, al compimento dei settanta anni, scrive le sue memorie. Racconta la sua vita di contadino semianalfabeta, lo sfruttamento e le lotte per conquistare una vita dignitosa. A soli nove anni deve lasciare la scuola per lavorare, ma presto si accorge che “avere una cultura” è fondamentale se si vuole davvero uscire dallo stato di sfruttamento. Nel giro di pochi anni la sua formazione è completa: dopo il servizio militare di nuovo a lavorare la terra, poi l’emigrazione in Germania, e successivamente a combattere nella prima guerra mondiale. Al ritorno la decisione è presa: bisogna impegnarsi per cambiare la situazione. La lotta è durissima, gli avvenimenti si susseguono incalzanti e la scrittura si fa drammatica: le vittorie elettorali, le vertenze, l’avvento del fascismo, le contraddizioni dei partiti antifascisti. E la resistenza è pagata a carissimo prezzo…
Ma in questa storia non c’è un solo protagonista: ad affiancare Angelo nella fatica di vivere “in un’epoca di duro lavoro e di miseria” c’è la sua compagna, Maria Scala, formidabile eroina il cui racconto è riportato dal figlio Juccio. Due personaggi, Angelo e Maria, ciascuno a suo modo portatore di una grande passione civile e di un grande esempio per le giovani generazioni.

In quel lontano 31 ottobre 1926 mio padre era a Taranto e stava per rientrare a casa dopo una riunione segreta di partito fra i responsabili politici di Taranto e della provincia presso la casa di un compagno. Furono fermati in due mentre si recavano alla stazione ferroviaria per prendere il treno per tornare a casa, da poliziotti in borghese che si mossero su segnalazione dei fascisti. Furono accompagnati nella questura che si trovava in via Duomo e furono interrogati separatamente. Vennero arrestati tutti con un’operazione ben preparata che decapitò l’intero partito. Fu sicuramente opera di un tradimento perché i fascisti conoscevano perfettamente il giorno, il luogo e tutti i nomi dei partecipanti alla riunione. La voce della retata giunse in tutti i comuni della provincia mediante il racconto dei pendolari operai dell’Arsenale di Taranto che rientravano dal lavoro. La prima voce fu di “fermo” e non di arresto. Mia madre venne a sapere la sera da alcuni conoscenti la notizia. Al mattino, alla partenza per Taranto, mio padre si era, però, premunito di avvertirla di stare attenta e guardinga per tutto il giorno fino al suo rientro, di non temere nulla in quanto si trattava di una riunione segreta e non di una pubblica manifestazione: “ Comunque vadano le cose stai tranquilla che me la caverò… come sempre.” furono le ultime parole di mio padre nell’accomiatarsi da mia madre. Infatti, la notizia del “fermo” coatto non la preoccupò eccessivamente perché era in questura e non in mano ai fascisti capaci di massacrarlo con manganellate, calci e pugni. Pensò solo ad un’assenza forzata di qualche giorno per poi rientrare in famiglia. Alla notizia prese i bambini e andò alla casa della nonna paterna solo per sapere qualche notizia in più, magari rassicurante. Attesero invano per parecchi giorni, solo dopo si seppe dai carabinieri della stazione locale che non si trattava più di un fermo ma di “arresto per attività sovversiva”. Tutti gli arrestati di quel giorno ebbero la stessa accusa. A tale notizia drammatica, mio nonno paterno si recò da un fascista della prima ora (era un fabbro molto noto per le sue scorrerie fasciste) chiese umilmente se fosse possibile interferire sul provvedimento emanato dalla gerarchia dittatoriale. Per far comprendere le condizioni socio-economiche della famiglia decapitata del suo capo ed unico sostegno ne elencò i seguenti dati:
- Ugenti Maria Scala, moglie e madre, casalinga e bracciante occasionale, di anni 41, incinta di mesi quattro.
- Maria Pompea, apprendista sarta, di anni 15.
- Domenico di anni 10.
- Agostino di anni 7.
- Angela di anni 2.
- Addolorata di anni 1.
Con il passare dei giorni mia madre cominciò a perdere le speranze di rivedere presto il marito a casa e convincerlo finalmente a badare più alla famiglia che al suo partito oramai ridotto quasi all’inesistenza. Oltre alle preoccupazioni di carattere economico-familiare, veniva assalita dall’angoscia di essere una gestante prossima ai periodi più pericolosi per un aborto o un parto prematuro. Sebbene fosse già madre di cinque figli, in precedenza aveva subito due aborti ed era ciò che la preoccupava. Essendo donna di grande fede pregò Iddio e tutti i Santi affinché potesse giungere ad un parto normale e poter far sopravvivere il neonato. Tutto il giorno era presa da innumerevoli preoccupazioni di varia natura e la notte si svegliava spesso presa da incubi. Il mattino di buon ora si recò in chiesa per ascoltare la messa pregare per il buon esito del parto, assorta nella preghiera fece un voto al Santo di Padova di chiamare il nascituro Antonio se maschio o Antonietta se femmina. Ebbi il natale il 18 Marzo del 1927 e mi fu imposto il nome di Antonio. Con la sentenza definitiva ad otto anni di reclusione e tre di sorveglianza speciale per mio padre, si spezzò quel filo di speranza di mia madre per rivedere a casa il suo caro sposo che ella volle ad ogni costo lottando contro suo padre ed alcuni fratelli desiderosi solo di farla sposare non con un bracciante ma con qualche giovane di famiglia benestante. Le sofferenze che dovette subire furono tante, specie per il fatto che allattando una creatura, la perdita del latte materno poteva mettere a rischio la vita dell’ultimo figlio. Pregò Iddio di salvarsi almeno da quell’altra tegola della casa sulla sua testa. Lo ricordava spesso e col pianto quando anche altre volte la mia condizione di salute la faceva preoccupare, ricordo bene le sue parole: “Sa solo Dio quello che ho passato per crescerti e non farti mancare nulla.”. Dopo una notte insonne e tanti pensieri strazianti, la mattina dopo la notizia flagellante, decise di recarsi sul comune ed avere un colloquio con il podestà portandosi insieme i suoi cinque figli. Mentre percorreva il ponte “ San Marco” che divide il borgo dalla piazza municipale, fu vista da una guardia che avvertì subito il comandante (fascisti tutti e due) esternando sospetti per il passo deciso con cui mia madre procedeva con i suoi cinque figli. I dubbi divennero certezza quando il gruppo girò in direzione del Comune. Il comandante dei vigili si affrettò a raggiungere l’ufficio del podestà per preannunciare una visita scomoda. Giunti davanti la porta dell’ufficio si fece avanti un messo comunale per sbarrare loro la strada. Mia madre, decisa, disse, “Annunciami al podestà, riferisci che c’è la moglie con i figli del galeotto Angelo Antonicelli e che desidera parlargli.”. Il messo comunale rispose: “Ora il podestà è occupato con il comandante dei vigili, appena si libera vi faccio entrare.”, e lei “Io ho urgente bisogno di parlare con il podestà e mi devi annunciare presto, non ho tempo da perdere, se non lo fai ti butto giù dalle scale!”, gridò mia madre.
Il comandante che origliava dietro la porta udì la voce concitata e le minacce di mia madre, l’aprì e facendo l’ingenuo disse “Cosa desideri Maria Scala?”. Mia madre rispose: “Devo parlare assolutamente con il podestà e voglio essere ricevuta senza perdere tempo.”. Mia madre sospettava che il comandante prendesse tempo per consentire al podestà di defilarsi da qualche porta secondaria.Dall’interno dell’ufficio suonò la voce di Don Peppe Antonio Scarano che disse: “Entrate signora Antonicelli ed accomodatevi vicino alla mia scrivania.”, rivolgendosi al comandante aggiunse: “Voi potete andare!”. Mia madre entrò con tutti noi, io ero in fasce tra le sue braccia.  “Signora, su cosa posso esservi utile?”, esclamò il podestà pur prevedendo già la domanda. “Come già sapete – incominciò mia madre – mio marito è stato già condannato dal tribunale speciale ad otto anni di carcere senza aver commesso un furto, una rapina o un omicidio. Egli è stato condannato perché difendeva con tutte le sue forze la povera gente dei campi, i contadini, i poveri del paese dal sopruso dei cosiddetti galantuomini che oggi stanno al potere. “Loro hanno voluto togliere ai miei figli chi gli procurava il pane con sangue e sudore e non certo per rubare dal portafoglio di costoro un solo centesimo di lira, mio marito non ha mai commesso alcun reato contro nessuno, galantuomini o fascisti che siano, voi avete l’autorità di riferire a chi di competenza questa cruda verità.”. Il podestà che era anche padre di famiglia, con parole meditate voleva far calmare l’irruenza di mia madre sconvolta dal dolore, la interruppe e la invitò a calmarsi perché così si potevano cercare soluzioni e prendere delle decisioni al fine di attutire il colpo inferto ad un capo di famiglia che anche lui conosceva come uomo onesto e lavoratore. “Signora – prese a dire il podestà – io mi trovo in questo posto di responsabilità e comprendo bene la situazione creatasi nella vostra famiglia con bambini in tenera età, vi prego di aver pazienza e cercherò nel limite del possibile di venirvi incontro facendovi accedere alla mensa comunale insieme ai poveri”. A questa proposta del podestà mia madre, pur controllandosi nelle sue reazioni istintive, gli rispose dicendo: “Signor podestà, io sono venuta dal primo cittadino di Massafra non per ottenere l’elemosina di un piatto per i miei figli ma per ribadire che mio marito non ha ammazzato nessuno, non ha rubato il portafogli a chicchessia e tanto meno ha minacciato qualcuno.”. “Voi dovete, come galantuomo, come primo cittadino e fascista, fare scarcerare mio marito perché egli ha una forza da leone per poter lavorare pacificamente e portare un tozzo di pane sudato, come ha sempre fatto, ai propri figli.”. “Ciò che mi chiedete è impossibile, perché è stato riconosciuto come sovversivo ed è stato condannato da un tribunale, si può solo sperare ad una clemenza da parte del governo o del re in persona.”, rispose il podestà. E mia madre: “Dato che ciò che chiedo è impossibile e dato che non posso dare latte materno avvelenato a questa creatura, io ve la consegno e vi rendo responsabile della sua vita!”. Fulmineamente adagiò sulla scrivania l’involucro delle fasce con me dentro, prese per mano gli altri figli e si allontanò dall’ufficio del podestà e dalla sede comunale. Il podestà non aveva previsto quella reazione e rimase per qualche attimo smarrito, come si riprese chiamò subito il capo guardia che aveva visto uscire mia madre ma non si era accorto che era senza il bimbo in fasce e gridò: “Raggiungete presto la signora Antonicelli e ditele di tornare da me perché, come vedi con i tuoi occhi, mi ha lasciato volutamente il suo bambino.”. Il capo guardia, meravigliato anche lui rispose quasi distrattamente. “Provvedo subito signor podestà”, ed usci di tutta fretta per eseguire l’ordine superiore. Scendendo giù dal municipio il comandante chiamò un vigile e gli ordinò di raggiungere mia madre a casa per invitarla a tornare per prendersi il suo bambino. Qui disse a mia madre: “Signora Maria Scala, vengo da parte del podestà che vi invita a ritornare al comune e riprendervi il bambino”. A ciò lei rispose: “Riferite al podestà che io non sono nelle condizioni di poter accudire ai miei bambini e dovendo rinunziare a lavorare non potrei procurarli gli alimenti necessari alla loro sopravvivenza”. “Per trovare qualche soldo devo lasciarli soli in casa ed incustoditi mentre devo lavorare sodo in quanto i bambini da nutrire sono cinque e non uno solo.”. Dopo giunse anche il comandante per convincere mia madre per riprendere il suo bimbo in fasce ed accettare l’offerta concernente la possibilità di accedere alla mensa comunale e ritirare giornalmente una scodella di cibi cucinati (generalmente legumi con pasta e qualche pezzo di pane). Ella, ovviamente, non avrebbe mai lasciato suo figlio ma il suo scatto fu di grande dignità nella difesa dell’onore del compagno della sua vita, infatti, ritornò al comune e si riprese suo figlio. La convinse la promessa fatta non da un fascista ma da un “galantuomo”, Don Peppe Antonio Scarano, medico che si trovò fascista e podestà non per convinzione ma solo per servire la sua popolazione nello stesso modo con cui si prodigò prima della dittatura delle camicie nere.

“Il Sovversivo, Memorie di un contadino di Massafra”. (Edizione LiberEtà 2011 Euro 12)

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