Il “prolungamento della giornata lavorativa” è tra quegli “effetti immediati dell’industria meccanica sull’operaio” contro cui gli operai hanno storicamente scatenato la guerra…
Le macchine, abbiamo visto, “sono il mezzo più potente per aumentare la produttività del lavoro ossia per accorciare il tempo di lavoro necessario alla produzione di una merce,” ma “in quanto depositarie del capitale esse diventano, da principio nelle industrie di cui si impadroniscono direttamente, il mezzo più potente per prolungare la giornata lavorativa al di là di ogni limite naturale. Esse creano da un lato condizioni nuove che mettono il capitale in grado di lasciar briglia sciolta a questa sua tendenza costante, dall’altro creano motivi nuovi per istigare la sua brama di lavoro altrui.”
“In sè e per sè il mezzo di lavoro diventa un perpetuum mobile industriale che continuerebbe ininterrottamente a produrre, se non si imbattesse in determinati limiti naturali dei suoi aiutanti umani: la loro debolezza fisica e la loro volontà a sè. Come capitale e in quanto tale la macchina automatica ha consapevolezza e volontà nel capitalista; il mezzo di lavoro è quindi animato dall’istinto di costringere al minimo di resistenza il limite naturale dell’uomo, riluttante ma elastico.”
L’allungamento della giornata lavorativa serve al capitalista, dice Marx, perché la macchina si consuma ed egli cerca di recuperare il valore della macchina nel periodo più breve possibile. Ma a proposito di logorio Marx puntualizza che se una macchina per esempio lavora per 7 anni e mezzo per 16 ore al giorno e un’altra macchina per 15 anni e 8 ore al giorno hanno fatto sì la stessa produzione ma “nel primo caso il valore della macchina sarebbe riprodotto con rapidità due volte maggiore che non nel secondo caso, e il capitalista avrebbe ingoiato per mezzo della macchina nel corso di 7 anni e mezzo la stessa quantità di pluslavoro che altrimenti in 15.”
E inoltre anche “l’usura materiale della macchina è di duplice natura. C’è una usura che nasce dall’uso della macchina allo stesso modo che le monete si deteriorano con la circolazione; e un’altra che deriva dal rimanere la macchina inadoperata allo stesso modo che una spada inoperosa arrugginisce nella guaina.” E vedremo quanto il capitalista non possa sopportare questo tipo di usura!
“Ma oltre all’usura materiale la macchina sottostà anche a un’usura per così dire morale.” Cioè si svalorizza quando per esempio “macchine della stessa costruzione possono essere riprodotte più a buon mercato oppure nella misura in cui le arrivano accanto, facendole concorrenza, macchine migliori.” Per questo il suo valore deve essere riprodotto in breve tempo e perciò la giornata di lavoro deve essere più lunga. E dato che “Alla prima introduzione delle macchine in una branca qualsiasi della produzione, si susseguono uno all’altro metodi nuovi per la loro riproduzione più a buon mercato e perfezionamenti che non s’impadroniscono solo di parti o apparecchi singoli ma di tutta la loro costruzione, nel loro primo periodo di vita quindi questo motivo particolare di prolungare la giornata lavorativa agisce in modo acutissimo.”
Se il capitalista poi vuole sfruttare un numero raddoppiato di operai ciò richiede “anche il raddoppiamento della parte del capitale costante spesa in macchine e in edifici come anche di quella spesa in materie prime, materie ausiliarie, ecc.
Con il prolungamento della giornata lavorativa la scala della produzione si estende, mentre la parte di capitale spesa in macchine e in edifici rimane invariata. Quindi non soltanto il plusvalore aumenta, ma diminuiscono le spese necessarie al suo sfruttamento. È vero che questo avviene più o meno anche in tutti i casi quando si prolunghi la giornata lavorativa, ma qui il fatto ha un peso più decisivo perché la parte di capitale trasformata in mezzi di lavoro ha in genere qui maggior peso.” Qui Marx in una nota rimanda ad un approfondimento nel terzo libro del Capitale quando tratta del saggio del profitto e cioè del rapporto fra il plusvalore e il capitale complessivo anticipato. “Infatti – continua Marx - lo sviluppo dell’industria meccanica vincola una parte costitutiva del capitale sempre maggiore in una forma in cui da un lato è sempre valorizzabile, e dall’altro perde valore d’uso e valore di scambio non appena il suo contatto con il lavoro vivente venga interrotto.” E qui torniamo al punto del perché le macchine non possono stare ferme! E Marx riporta le parole stesse di un capitalista di allora: “«Se», insegnava il signor Ashworth, magnate inglese del cotone, al professore Nassau W. Senior, «se un lavorante agricolo depone la sua vanga, egli rende infruttifero per questo periodo, un capitale di 18 pence. Se uno dei nostri uomini (cioè degli operai della fabbrica) lascia la fabbrica, egli rende infruttifero un capitale che è costato 100.000 lire sterline». Si pensi! Un capitale che è costato 100.000 lire sterline, renderlo «infruttifero», foss’anche per un solo istante! Effettivamente è cosa che grida al cielo, che uno dei nostri uomini lasci mai in generale la fabbrica! L’aumento della diffusione delle macchine rende «desiderabile», come capisce il Senior ammaestrato dall’Ashworth, un prolungamento sempre crescente della giornata lavorativa.”
Il capitalista inoltre si avvantaggia della macchina anche quando “al momento della sua prima introduzione sporadica, il lavoro impiegato dal possessore della macchina” si trasforma “in lavoro potenziato, aumentando il valore sociale del prodotto della macchina al di sopra del suo valore individuale e mettendo in tal modo il capitalista in grado di reintegrare il valore giornaliero della forza-lavoro con una parte minore di valore del prodotto giornaliero. Durante questo periodo di transizione, in cui l’industria meccanica rimane una specie di monopolio, i profitti sono quindi straordinari, e il capitalista cerca di sfruttare più a fondo possibile «questo primo periodo del giovane amore», prolungando il più possibile la giornata lavorativa. La mole del profitto istiga la brama di un profitto anche maggiore.”
“Con l’introduzione generale delle macchine in uno stesso ramo della produzione il valore sociale del prodotto delle macchine scende al suo valore individuale, e entra in azione la legge per la quale il plusvalore non deriva dalle forze-lavoro - sostituite dal capitalista con le macchine, bensì, viceversa, dalle forze-lavoro che egli impiega per il loro funzionamento.” Marx ribadisce costantemente che “Il plusvalore nasce dalla parte variabile del capitale soltanto, e abbiamo visto che la massa del plusvalore è determinata da due fattori ossia dal saggio del plusvalore e dal numero degli operai impiegati simultaneamente. Data la durata della giornata lavorativa, il saggio del plusvalore è determinato dalla proporzione in cui la giornata lavorativa si scinde in lavoro necessario e in pluslavoro. Il numero degli operai impiegati simultaneamente dipende a sua volta dalla proporzione in cui si trovano la parte variabile del capitale e quella costante. Ora è chiaro che l’industria meccanica, qualunque sia la misura in cui essa, mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro, estenda il pluslavoro a spese del lavoro necessario, raggiunge questo risultato solo diminuendo il numero degli operai impiegati da un dato capitale.” E come si arriva a questo effetto? “Essa trasforma una parte del capitale, che prima era variabile ossia si trasformava in forza-lavoro viva, in macchinario, vale a dire in capitale costante che non produce plusvalore.” È chiaro, intende Marx, che se si sposta una parte del capitale complessivo nell’acquisto di macchinari, si riduce nello stesso tempo la parte destinata ad “acquistare” operai. Ma appunto per questo il capitale si trova in contraddizione perché “È impossibile per esempio, spremere da due operai il plusvalore che si spreme da ventiquattro. Se ognuno dei ventiquattro operai fornisce su dodici ore solo un’ora di pluslavoro, insieme forniranno ventiquattro ore di pluslavoro, mentre il lavoro complessivo, dei due operai ammonta a sole ventiquattro ore. Nell’uso del macchinario per la produzione di plusvalore vi è quindi una contraddizione immanente, giacchè quest’uso ingrandisce uno dei due fattori del plusvalore che fornisce un capitale di una grandezza data ossia il saggio del plusvalore, soltanto diminuendo l’altro fattore, il numero degli operai. Questa contraddizione immanente si manifesta chiaramente non appena con l’introduzione generale del macchinario in un ramo dell’industria il valore della merce prodotta con le macchine diventa il valore sociale normativo di tutte le merci dello stesso genere, ed è questa contraddizione che spinge a sua volta il capitale, senza che esso ne sia cosciente, (anche ciò verrà chiarito più avanti) al più violento prolungamento della giornata lavorativa per compensare la diminuzione del numero relativo degli operai sfruttati mediante l’aumento non soltanto del pluslavoro relativo ma anche di quello assoluto.”
“Se quindi l’uso capitalistico del macchinario crea da un lato nuovi potenti motivi di un prolungamento smisurato della giornata lavorativa e rivoluziona il modo stesso di lavorare e anche il carattere del corpo lavorativo sociale in maniera tale da spezzare la resistenza a questa tendenza, dall’altro lato quest’uso produce anche” un altro degli effetti imprescindibili del sistema capitalistico “in parte con la assunzione al capitale di strati di lavoratori in passato inaccessibili, in parte con il disimpegno degli operai soppiantati dalla macchina, una popolazione operaia sovrabbondante, la quale è costretta a lasciarsi dettar legge dal capitale. Da ciò quello strano fenomeno della storia dell’industria moderna, che la macchina butta all’aria tutti i limiti morali e naturali della giornata lavorativa. Da ciò il paradosso economico che il mezzo più potente per l’accorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo della vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale. «Se», sognava Aristotele, il più grande pensatore dell’antichità, «se ogni strumento potesse compiere su comando o anche per previsione l’opera ad esso spettante, allo stesso modo che gli artifici di Dedalo si muovevano da sè o i tripodi di Efesto di proprio impulso intraprendevano il loro sacro lavoro, se in questo stesso modo le spole dei tessitori tessessero da sè, il maestro d’arte non avrebbe bisogno dei suoi aiutanti e il padrone non avrebbe bisogno dei suoi schiavi». E Antipatro, poeta greco dell’epoca di Cicerone, salutò nell’invenzione del mulino ad acqua per la macinazione del grano, che è la forma elementare di ogni macchinario produttivo, la liberatrice delle schiave e la iniziatrice dell’età aurea!”
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