Sull'acciaio la Ue pronta a seppellire la globalizzazione
- stralci da Claudio Conti - contropiano
Nei giorni scorsi la banca svizzera Credit Suisse ha pubblicato un suo preoccupato studio sulla “fine della globalizzazione”, provando a disegnare ...possibili scenari per l'evoluzione della situazione. Il più ottimistico – “la globalizzazione prosegue” - non è comunque rose e fiori, delineando di fatto una stagnazione senza infamia e senza lode.... numerosi “segnali” che spiegono verso i due scenari alternativi: un mondo più multipolare e l'inquietante fine della globalizzazione. ...Uno scenario che andrebbe evitato, dunque, muovendosi con passi felpati nella ricostruzione di un "clima" internazionale meno teso e "più collaborativo".
E invece cosa ti sta per combinare la Ue?
Un esempio clamoroso di “aumento del protezionismo”, che ha per terreno di battaglia la produzione di acciaio.
Lunedì si riunisce il Consiglio Europeo per decidere se “concedere alla Cina lo status di economia di mercato” ...La riunione è stata chiesta dal governo inglese, il cui settore siderurgico è decisamente in crisi e teatro di pesanti licenziamenti. Ma è solo la punta dell'iceberg, oggi in europa viene prodotto solo il 10% della produzione mondiale di acciaio. Nel 2001 era il 22% e all'inizio della crisi, nel 2007, era il 16%. ....
Che relazione c'è tra la “concessione” alla Cina del riconoscimento di “economia di mercato” e difesa dell'acciaio europeo?
Semplice. Se si dice ok – come era stato deciso nel 2001, rinviando però la verifica al 2016 – i paesi europei produttori d'acciaio non potranno più elevare dazi alle importazioni cinesi di questa “materia prima lavorata”, quindi la concorrenza del Celeste Impero diventerà ancora più invincibile. Oltre al prezzo imbattibile, infatti, c'è stato in questo quindicennio un innalzamento continuo degli standard qualitativi dell'acciaio cinese, tanto da non temere più confronti con quello europeo (a parte alcuni “acciai speciali”, peraltro utilizzati in settori ancora più strategici e quindi di fatto militarizzati).
È abbastanza chiaro che non esiste più alcuna ragione politica per non riconoscere alla Cina quello status. Mentre ce ne sono di ottime sul piano industriale ed economico. La decisione è comunque politica e i paesi europei, in vista del Consiglio, sembrano orientati prevalentemente verso il “no”. Soprattutto quelli – come l'Italia e la Germania, oltre Francia e Gran Bretagna - che ancora producono acciaio. L'Italia, per esempio, invierà alla riunione Carlo Calenda, vice ministro dello Sviluppo economico, che negli ultimi mesi ha usato ogni occasione pubblica per ribadire un fermissimo “niet” a modifiche nella normativa vigente in materia. Supportato peraltro dalla lobby-associazione dei produttori europei - Aegis Europe – che si sentono minacciati di fallimento a breve.
La motivazione portata avanti dai paesi produttori europei è “ le imprese cinesi godono di sussidi pubblici”, ma se guardiamo cosa ha fatto fin qui l'Italia con l'Ilva o la Germania con ThyssenKrupp: qualcuno può seriamente sostenere che l'aborrito “pubblico” non abbia fatto di tutto e di più per sostenere l'industria nazionale? Qualcuno può alzare il dito e dire “da noi le industrie dell'acciaio campano solo del loro fatturato”?
Dunque l'acciaio diventa occasione di guerra commerciale. Non certo per difendere l'occupazione (i nostri governanti europei raccomandano di licenziare a più non posso, per “flessibilizzare” il mercato del lavoro), ma “soltanto” per mantenere un margine di autonomia produttiva in un settore che non sembra subire le stesse dinamiche di altre merci. Inevitabile attendersi contromosse cinesi, sotto le mille forme che la diplomazia commerciale saprà individuare...
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