mercoledì 23 giugno 2021

Il Consiglio di Stato dice no alla sentenza del Tar - il resoconto della sentenza odierna dalla stampa

  - Corriere di Taranto

pubblicato il 23 Giugno 2021, 14:03

I giudici della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, come si può leggere nella sentenza che alleghiamo in fondo all’articolo, in merito al pronunciamento odierno, in prima analisi ricordano che “in linea di continuità con il consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato, qualora venga proposta una domanda di annullamento, il giudizio amministrativo abbia a oggetto lo scrutinio di legittimità del provvedimento o dell’atto amministrativo impugnato. Senza che la cognizione possa estendersi a vicende che esulano dalle motivazioni e dal dispositivo dell’ordinanza o dai relativi atti endoprocedimentali”.

Si controverte, dunque, “della legittimità dell’ordinanza contingibile e urgente n. 15, del 27 febbraio 2020, con la quale il Sindaco di Taranto ha imposto, alla società che gestisce l’impianto siderurgico “ex Ilva” e a quella che ne è proprietaria, l’individuazione e l’eliminazione delle criticità che hanno comportato le immissioni di fumi dell’agosto del 2019 e di odori del febbraio 2020, ordinando, in caso contrario, lo spegnimento dell’area a caldo, per evitarne la possibile ripetizione. Non si giudica, invece, del complessivo impatto ambientale e sanitario determinato dalla presenza sul territorio dello stabilimento siderurgico tarantino, nonché delle questioni connesse (anche oggetto di separati giudizi in separate sedi giudiziali), le quali si stagliano sullo sfondo della questione qui controversa”.

I giudici, all’interno del dispositivo della sentenza che ripercorre tutte le tappe delle vicende Ilva dal luglio 2012 da un punto di vista giudiziario ed amministrativo, hanno innanzitutto respinto “le censure di appello relative all’asserito difetto di attribuzione o all’asserita incompetenza del Sindaco a emanare l’ordinanza contingibile e urgente” avanzate da ArcelorMittal.

Statuita l’esperibilità, in astratto, del rimedio contingibile e urgente, la questione si sposta però sul versante della sussistenza dei presupposti che consentono, in concreto, il legittimo esercizio di questo potere. La pertinente disciplina individua, oltre all’autorità competente, i presupposti della “contingibilità” e “urgenza”, e l’interesse pubblico da salvaguardare.

La “contingibilità”, intesa nell’accezione di “necessità” implica l’insussistenza di rimedi tipici e nominati per fronteggiare efficacemente il pericolo oppure che quelli sussistenti non siano adeguati ad affrontare, tempestivamente, la situazione di pericolo o di danno insorta. Quanto alla “urgenza”, questa non si pone in “endiadi” (esprimere un concetto tramite due termini coordinati) rispetto al primo presupposto, sebbene sia a questo strettamente collegata. Essa consiste nella “materiale impossibilità di differire l’intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di danno a breve distanza di tempo”.

I punti salienti della motivazione dell’ordinanza (a seguito di eventi di carattere emissivo di fumi e di odori molesti, alcune “criticità” e “anomalie” dello stabilimento, le “criticità” di carattere sanitario, principio di precauzione, per giustificare l’esercizio del potere e “superare” la “situazione di incertezza sugli aspetti tecnici e sanitari legati alle vicende” scaturigini dell’intervento, al fine di tutelare la salute e la sicurezza delle persone, sia di quelle che operano all’interno della fabbrica e dei relativi impianti, sia della popolazione in generale) consentono di evidenziare diversi motivi di illegittimità secondo i giudici del Consiglio di Stato.

In merito all’immissione di fumi o miasmi “il potere d’intervento sussiste in maniera legittima unicamente se vengono rispettati anche i requisiti dell’art. 29-decies, comma 10, d.lgs. n. 152/2006: “l’inosservanza delle prescrizioni autorizzatorie” e la “comunicazione dell’autorità competente”. Diversamente, qualora si verifichino immissioni di “vapori, gas o altre esalazioni… provenienti da manifatture o fabbriche”, relativamente alle imprese sottoposte all’A.I.A., non è legittimamente possibile intervenire mediante l’esercizio dei poteri di cui all’art. 50 e 54“.

Inoltre nella sentenza viene ricordato che “il Sindaco del Comune di Taranto ha effettivamente sollecitato il Ministero a “comunicare” se vi fossero i presupposti per l’esercizio del potere. Con la nota del 23 ottobre 2019, il Ministero si è però sostanzialmente espresso in senso sfavorevole ad intraprendere il procedimento, evidenziando la carenza del presupposto costituito dall’inosservanza delle prescrizioni autorizzatorie”. A tale riguardo “va evidenziato che, qualora “l’autorità competente” non effettui la comunicazione di cui all’art. 29-decies, comma 10, d.lgs. n. 152 del 2006 oppure neghi erroneamente che sussistano i presupposti per procedervi, si assumerà evidentemente le relative responsabilità, qualora si dovesse poi inverare l’evento pregiudizievole paventato”. In definitiva, dunque, “il potere di ordinanza contingibile e urgente risulta esercitato in violazione degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/ 2000, i quali presuppongono, come detto, la comprovata inidoneità o inefficacia degli altri rimedi predisposti dall’ordinamento. Alla luce delle motivazioni sinora articolate, l’ordinanza emanata risulta illegittima e il provvedimento che ne è espressione va conseguentemente annullato”.

Il provvedimento risulta tuttavia viziato anche da eccesso di potere.

Si è detto che la tipologia di evento cui si è inteso porre rimedio è costituito dal “possibile ripetersi di emissioni di fumi o odori, ritenuti potenzialmente lesivi della salute della comunità tarantina. Il provvedimento non indica espressamente il rimedio per evitare tale accadimento: tuttavia, nella motivazione del provvedimento rimane sottotraccia, che questo rimedio possa consistere nella più sollecita installazione dei “filtri a manica” (rectius, “a maniche”). Sull’opportunità di un’installazione “anticipata” insiste, infatti, la prima parte della motivazione che riporta, testualmente, il contenuto delle note istruttorie dell’ARPA del 4 settembre 2019 e dell’ASL del 9 settembre 2019, che auspicavano, per l’appunto, oltre che il rispetto della tempistica prefissata, la sua accelerazione”.

Secondo quanto previsto dall’A.I.A. e dal Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria questa misura (unitamente ad una serie di altre opere di adeguamento dell’impianto) costituisce una delle migliorie (delle migliori tecniche disponibili) che il gestore dello stabilimento è tenuto a realizzare. Le relative modalità e le tempistiche di attuazione sono già state delibate da questo Consiglio di Stato, allorché in sede di ricorso straordinario è stata esaminata la legittimità del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, del 29 settembre 2017, di approvazione delle modifiche al Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria”.

Nelle motivazioni dell’ordinanza contingibile e urgente “non sono stati rappresentati fatti, elementi o circostanze tali da evidenziare e provare adeguatamente che il pericolo di reiterazione degli eventi emissivi fosse talmente imminente da giustificare l’ordinanza contingibile e urgente, oppure che il pericolo paventato comportasse un aggravamento della situazione sanitaria in essere nella città di Taranto, tale da dover intervenire senza attendere la realizzazione delle migliorie secondo la tempistica prefissata”.

Ciò detto, i giudici del Consiglio di Stato tengono a precisare che sia “pacifico che nella città di Taranto vi sia una problematica di carattere sanitario e ambientale, correlata all’attività industriale (anche) dello stabilimento dell’ex Ilva di Taranto. Tale dato, infatti, emerge inequivocabilmente dalla messe di decreti legge (emanati anche sotto la spinta di sviluppi investigativi di rilevanza penale, e al fine di assicurare la continuità aziendale pur in pendenza di tali vicende) ed è stato, altresì, statuito anche nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, del 24 gennaio 2019“.

Per fronteggiare questa situazione, è stata adottata la richiamata legislazione a carattere speciale che ha integrato quella del d.lgs. n. 152/2006, per rafforzare, proprio sul versante sanitario, le misure di tutela.

Con riferimento alla situazione attuale, “le misure previste dal Piano risultano in corso di realizzazione e non emergono, dagli atti endoprocedimentali o dal provvedimento gravato, particolari ritardi o inadempimenti rispetto alla loro attuazione”. Pertanto “l’avvenuta individuazione delle misure di mitigazione (fra le quali si colloca anche l’installazione dei filtri a maniche), l’inizio della loro realizzazione e la mancata rappresentazione nel provvedimento del mancato rispetto delle scadenze prestabilite inducono a ritenere non sufficientemente provata quella situazione di assoluta e stringente necessità presupposta dall’ordinanza sindacale. La sollecitata anticipazione dell’adozione di alcune di queste misure (in particolare, dei filtri a maniche), non risulta coercibile mediante l’adozione di provvedimenti “paralleli” a quelli invece preordinati alla loro pianificazione”.

In secondo luogo, i giudici difendono l’operato dei colleghi pugliesi, scrivendo che “la sentenza del T.a.r. per la Puglia, qui impugnata, risulta tutt’altro che “abnorme” o connotata da “eccesso di potere giurisdizionale”, perché “ha costituito null’altro che parte della doverosa verifica circa la sussistenza o meno dei presupposti per il legittimo esercizio del potere del Sindaco. Nondimeno, questa Sezione ritiene che gli elementi emersi dall’istruttoria processuale abbiano fornito un quadro tutt’altro che univoco sui fatti dai quali è scaturita l’ordinanza contingibile e urgente. Anzi, quanto emerso è più incline ad escludere il rischio concreto di un’eventuale ripetizione degli eventi e la sussistenza di un possibile pericolo per la comunità tarantina“.

Le ulteriori circostanze emerse nell’istruttoria processuale, evidenziano come “il potere di ordinanza abbia finito per sovrapporsi alle modalità con le quali, ordinariamente, si gestiscono e si fronteggiano le situazioni di inquinamento ambientale e di rischio sanitario, per quegli stabilimenti produttivi abilitati dall’A.I.A.”. In definitiva, l’istruttoria procedimentale e quella processuale “non evidenziano un pericolo “ulteriore” rispetto a quello ordinariamente collegato allo svolgimento dell’attività produttiva dello stabilimento industriale e gestito attraverso la disciplina dell’A.I.A. Alla luce delle motivazioni sinora articolate, il potere di ordinanza risulta, pertanto, esercitato in difetto dei presupposti di necessità e urgenza (o comunque in difetto di una sufficiente motivazione sul punto), e il provvedimento che ne è espressione risulta illegittimo anche per questi motivi”.

Il Collegio ritiene, inoltre, che il provvedimento sia viziato anche per difetto di istruttoria, per l’intrinseca contraddittorietà e per difetto di motivazione. “L’esercizio del potere di ordinanza contingibile e urgente richiede “…il rigoroso svolgimento di una compiuta e mirata istruttoria volta a riscontrare, attraverso una indagine che faccia emergere e dia adeguatamente conto della situazione di fatto da regolare, l’effettiva sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza cui si correla una situazione di effettivo e concreto pericolo per la integrità dei beni tutelati, la quale non sia fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva” (Cons. Stato, sez. III, 19 gennaio 2021, n. 571, § 8). Nel caso di specie, l’istruttoria è carente nell’individuazione delle cause che hanno comportato gli eventi emissivi presi in considerazione e che, secondo la tesi del Comune, potrebbero comportare la loro ripetizione”.

Riprendendo poi le varie relazioni di ARPA Puglia ed ISPRA in merito agli eventi emissivi alla base dell’ordinanza sindacale (di cui abbiamo riportato nel corso degli anni i vari documenti), i giudici scrivono che “il provvedimento risulta emesso senza che vi sia stata un’univoca individuazione delle cause del potenziale pericolo e senza che sia risultata acclarata sufficientemente la probabilità della loro ripetizione. Il provvedimento non ha considerato quanto evidenziato dall’Ispra, organo competente alla vigilanza, senza fornire alcuna motivazione al riguardo”.

Né le carenze istruttorie evidenziate non possono essere colmate attraverso il riferimento al principio di precauzione. Relativamente alla sua applicazione, si legge ancora nel dispositivo, “s’intende qui ribadire l’orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza. la situazione di pericolo deve essere potenziale o latente ma non meramente ipotizzata e deve incidere significativamente sull’ambiente e la salute dell’uomo. Sotto tale angolazione il principio di precauzione non consente ex se di attribuire ad un organo pubblico un potere di interdizione di un certo progetto o misura; in ogni caso il principio di precauzione affida alle autorità competenti il compito di prevenire il verificarsi o il ripetersi di danni ambientali ma lascia alle stesse ampi margini di discrezionalità in ordine all’individuazione delle misure ritenute più efficaci, economiche ed efficienti in relazione a tutte le circostanze del caso concreto”.

Facendo applicazione di questi principi al caso di specie, “è conseguenziale rilevare come sia mancata una previa valutazione scientifica del rischio direttamente riconnesso agli eventi emissivi di cui si teme la ripetizione. Né risulta parimenti accertata la sussistenza di un possibile rischio che non risulti fronteggiabile con gli strumenti tipici predisposti dalla disciplina. Alla luce delle motivazioni sinora articolate, il potere di ordinanza non risulta suffragato da un’adeguata istruttoria e risulta, al contempo, viziato da intrinseca contraddittorietà e difetto di motivazione“.

Dall’annullamento dell’ordinanza sindacale discendono due conseguenze. La prima è la sopravvenuta carenza d’interesse all’esame dell’appello del ministero dell’Ambiente, poiché la riforma della sentenza di primo grado elide quindi annulla in radice le criticità contestate con il gravame incidentale proposto dall’amministrazione. La seconda è la caducazione (perdita di efficacia degli atti giuridici) della nota n. 173, del 29 marzo 2020, del Comune di Taranto, trattandosi di un atto strettamente conseguenziale al provvedimento impugnato, per il quale vale il principio simul stabunt simul cadent (insieme staranno oppure insieme cadranno)”.

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