USB: "Nazionalizzare è l'unica strada e non è neanche tanto rivoluzionario"
Roma, 05/11/2014
"COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA - TITOLO III - RAPPORTI ECONOMICI - Art. 43. A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale."
Da anni affermiamo che l'intervento diretto dello Stato nell'Economia, il controllo e la nazionalizzazione di aziende che si ritengono strategiche per il paese o che sono fortemente in crisi e mettono in discussione migliaia di posti di lavoro, è l'unica soluzione ad una crisi che ormai sta distruggendo non soltanto le tasche e la salute dei cittadini, lavoratori, pensionati e disoccupati, ma l'intero sistema economico italiano.
Questa è la risposta strutturale alle tante crisi che si susseguono da anni: dall'acciaio di Taranto a quello di Terni, dalle ali dell'Alitalia a quelle di Meridiana, tanto per fare qualche esempio!
Sino a pochi anni fa ci prendevano per matti, folli rivoluzionari che non avevano compreso quanto fosse bello il mercato e il privato, che non c'era bisogno di regole perché la globalizzazione avrebbe messo in condizione il mercato di autoregolarsi. Poi piano piano la crisi ha fatto cambiare idea a molti ed oggi sentiamo parlare di nuova IRI, di nazionalizzazioni a tempo, di intervento dello Stato.
Certo tutto è sempre finalizzato al mercato, a quell'entità che si vorrebbe far passare come ideologica e immateriale, ma dietro alla quale si cela invece il profitto di pochi, le borse che salgono mentre la gente non riesce a curarsi. I più, infatti, vorrebbero un intervento dello Stato a tempo, tanto per risanare i debiti dei privati, farli ricadere sulla collettività e poi, tra qualche anno, ridare ai soliti noti aziende in buona salute e senza debiti.
Questa è la posizione della parte più “avanzata” della Cgil ed anche della Fiom che poco tempo fa, nella vertenza ILVA, parlava di acquisizione dello Stato a tempo determinato.
E' lo stesso meccanismo che ha salvato migliaia di banche ed i loro azionisti in tutto il mondo, riempiendo i loro caveau di dollari e euro abbondantemente elargiti da stati e strutture sovrannazionali come la BCE e il FMI. Tutto ciò sempre a danno dei cittadini che pagano profumatamente per rimettere in piedi banche che poi invece di impegnare questi regali inaspettati per finanziare progetti produttivi che creano ricchezza e lavoro, investono in “buoni del tesoro” emessi dagli stessi Stati che li hanno sovvenzionati e ne ricavano ulteriori profitti.
Noi invece pensiamo che la nazionalizzazione non debba essere uno strumento economico temporaneo, ma l'inizio di una trasformazione dello stato in termini sociali.
Nulla di rivoluzionario se lo prevede anche la nostra Costituzione, ma sicuramente un qualche cosa che fa funzionare le aziende per creare ricchezza e per costruire lavoro, tutelando al tempo stesso la salute e l'ambiente.
Perché il lavoro non si crea riducendo i diritti e aumentando precarietà e età pensionabile come qualcuno vorrebbe farci credere, ma con progetti produttivi seri e concreti.
Non è eticamente, sindacalmente, socialmente e politicamente accettabile che aziende come la Fiat che sono vissute e hanno intascato profitti immensi con i soldi dello Stato sotto forma di ammortizzatori sociali, incentivi e sovvenzioni varie, possano di punto in bianco abbandonare il Paese e costruire un impero multinazionale, continuando a sottrarre lavoro in Italia.
Questo è il frutto di politiche asservite ai grandi gruppi industriali e finanziari nazionali ed internazionali, ammantate di una ideologia da quattro soldi e che tradotta vuol dire maggiore sfruttamento e una forbice sempre più ampia ed incolmabile tra ricchi e poveri.
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Oggi l'unica "Nazionalizzazione" che si vuole fare è quella che vogliono anche settori padronali, ex presidenti del consiglio come Lamberto Dini (proprio quello che regalò l'Ilva a Riva), sindacati confederali, non solo la Fiom ma ora anche la Uil, affinchè lo Stato si accolli i debiti, rimetta su la fabbrica e la riconsegni ai padroni.
Certamente questo tipo di nazionalizzazione "non è tanto - noi diciamo niente affatto - rivoluzionaria" (come scrive l'Usb). Ma per avere oggi uno STATO CHE ESPROPRI PADRON RIVA e metta la fabbrica al servizio della collettività, a difesa degli interessi degli operai e delle masse popolari, del lavoro non sfruttato e della salute, che impedisca che i padroni facciano profitti sulla pelle dei lavoratori DEVI FARE ECCOME LA RIVOLUZIONE, PERCHE' SOLO IL POTERE PROLETARIO PUO' FARE QUESTO.
E per cominciare a lottare per questa prospettiva una condizione è che i sindacati non dicano chiacchiere ai lavoratori, per farli diventare "partigiani" di "soluzioni" sempre antiproletarie e antipopolari; invece di chiamarli a lottare per una difesa strenua dei loro interessi di lavoro e salute.
QUAL'E' LA REALTA' CHE L'USB NASCONDE:
(dal Corriere della sera) - "Per entrare nel capitale dell'Ilva sono in campo, almeno informalmente due ipotesi: la prima fa capo al colosso indiano ArcelorMittal e la seconda al gruppo italiano Arvedi in alleanza con i brasiliani di Csn. La siderurgia europea è affetta in questo momento da sovracapacità produttiva e tutte le mosse dei grandi player vanno lette (anche) in quest'ottica.
Mittal potrebbe in linea teorica insediarsi a Taranto per evitare che vada in mano ai concorrenti ma di pari passo potrebbe anche agire cinicamente e ridimensionarlo. Il gruppo del resto possiede altri due impianti analoghi in Europa, in Francia e in Romania, anche se entrambi non si fanno preferire a Taranto quanto ad efficienza e tecnologia.".
Quindi in questa ipotesi non c'è il mantenimento così come ora dell'Ilva, nè tantomeno il suo risanamento. Lo scopo di Arcelor Mittal è quello di "fregare" la concorrenza, avere più peso nell'economia mondiale; il forte ridimensionamento è certo, anche per la sovracapacità della produzione dell'acciaio, in cui vi è anche una lotta tra i vari capitalismi per difendere le proprie quote produttive.
(dal CdS) - "Accanto a Mittal dovrebbe sbarcare in Puglia come alleato anche il gruppo Marcegaglia ma il suo impegno quantitativo non è considerato sufficiente per presidiare gli interessi nazionali. Da qui l'idea che la Cassa Depositi e Prestiti possa prendere una quota azionaria a termine per garantire il sistema Italia ovvero che Mittal non ridimensioni Taranto e completi il risanamento ambientale. L'ipotesi di un intervento della Cassa in teoria vale anche per l'ipotesi Ar-vedi ma questa seconda cordata nell'entourage di Renzi si presta a un maggiore scetticismo vuoi per l'indebitamento del gruppo Arvedi vuoi per il profilo dei brasiliani che non sembrano essere un soggetto dalle spalle così forti quanto Mittal. È chiaro che così configurato l'intervento dello Stato in IIva assomiglierebbe a una sorta di golden share (*) ma segnerebbe anche un secco ritorno al passato. Non va dimenticato poi che lo statuto della Cdp le vieta (opportunamente) di prendere quote azionarie in società che siano in perdita. E lo stesso vale per il Fondo strategico italiano.
(*) Con il termine golden share si indica l'istituto giuridico in forza del quale uno Stato, durante e a seguito di un processo di privatizzazione (o vendita di parte del capitale) di un'impresa pubblica, si riserva poteri speciali che possono essere esercitati dal governo durante il processo medesimo. Fra questi poteri si segnalano quello di riservare allo Stato stesso un certo quantitativo azionario, nonché quello di nominare un proprio membro nel consiglio di amministrazione della società oggetto di privatizzazione che, a differenza degli altri componenti dell'organo di governo dell'impresa, goda di poteri più ampi.
Arcelor Mittal e/o Arvedi, Marcegaglia, nessuno vuole (o può) accollarsi i debiti dell'Ilva, Vogliono acquisire, eventualmente, la fabbrica ma senza zavorre miliardarie.
A liberarli di queste "zavorre", compresi le problematiche ambientali e i lavoratori in esubero a fronte del ridimensionamento, ci dovrebbe pensare lo Stato. Quindi, l'intervento dello Stato, a scanso di ogni illusione che i fautori della "nazionalizzazione" tentano di alimentare, non sarebbe affatto a garanzia della collettività (lavoratori e popolazione di Taranto), ma a garanzia dei nuovi padroni.
Nessuno poi risolve il "rebus" del fatto che i Riva sono ancora proprietari dell'Ilva e non intendono farsi espropriare l'azienda di famiglia. E che i governi, compreso Renzi, per quanto decreti abbiano fatto e facciano, non ne fanno uno per espropriare i Riva e requisire i miliardi di profitti, fatti con il sudore e sangue dei lavoratori, che hanno provocato malattie e morte di tanti cittadini e bellamente sottratti al fisco,
MA TUTTI SALGONO SUL CARRO DELLA "NAZIONALIZZAZIONE".
La "nazionalizzazione", l'"intervento dello Stato"- uno Stato che, non dimentichiamo mai, è al servizio solo e soltanto dei padroni, e Renzi, quasi più di Berlusconi, ce lo sta ogni giorno ben ricordando... - sembrano ormai diventate delle parole che mettono d'accordo tutti.
Dall'USB che ne fa la soluzione auspicata di tutti i mali dell'Ilva, alla FIOM che chiede al governo di "assumere un ruolo diretto nella ricapitalizzazione, nella definizione dei nuovi assetti proprietari, nella gestione implementando il commissariamento, attingendo alle risorse del Fondo strategico nazionale".
Ma non solo. Ora questi sindacati possono dire di essere in buona compagnia. Vi sono, infatti, i "nuovi arrivi": dalla Uil che ora per bocca del segretario regionale, Pugliese, auspica la nazionalizzazione; al vecchio Lamberto Dini (vedi chi si risente...) che certamente se ne intende di operazioni del tipo "aggiusto la fabbrica con i soldi dello Stato e poi la svendo a un nuovo padrone", visto che fu proprio lui, nel 1995, da presidente del consiglio, a regalare l'allora Italsider a Riva; infine allo stesso Renzi che da qualche giorno parla di "proposta nuova per l'Ilva" alludendo a un intervento più concreto dello Stato.
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