lunedì 21 gennaio 2013

Assemblea Nazionale Rete Sicurezza - 4° Parte Intervento di Ciccio Maresca

CICCIO MARESCA – SINISTRA CRITICA EX OPERAIO E DELEGATO ILVA

Ringrazio i compagni della Rete per l’invito. Spero di riuscire a dare un quadro della situazione, perché parlare dell’Ilva in questo periodo non è molto semplice, dato che ci confrontiamo oggi e ci scontriamo con due posizioni radicalmente opposte.
Una è la posizione strumentale, promossa principalmente dall’azienda che ha mobilitato le sue truppe nella prima fase della mobilitazione, partita il 30 marzo scorso in occasione dell’udienza preliminare che avrebbe messo sotto processo i vertici Ilva. È seguita poi una seconda fase in cui per contestare i provvedimenti della Magistratura sono scese in campo le organizzazioni sindacali.
Contro questa, l’altra posizione si è manifestata in forma eclatante il 2 agosto, quando un gruppo di operai Ilva, più alcuni, che chiamiamo genericamente cittadini, tanto per non fare polemica con nessuno, si costituiscono in Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti e riescono a mobilitare parecchio, e da allora in poi hanno realizzato numerose e partecipate manifestazioni.
I problemi emergono ogni qual volta il Comitato deve prendere delle decisioni, quello che possiamo chiamare genericamente “programma”, cioè: su che cosa ci battiamo? Chiediamo genericamente a Riva di fare investimenti o presentiamo proposte che mettono in discussione il da farsi?
Per tutta una fase ho seguito da vicino la vita del Comitato e posso dire che il problema vero è che al suo interno si è scatenata la parte più conseguentemente e irriducibilmente per la chiusura dello stabilimento. E attualmente all’interno del Comitato è ancora prevalente questa posizione, anche se ufficialmente la posizione del Comitato è che Riva deve mettere mano al portafoglio e pagare le ristrutturazioni per la messa a norma degli impianti. Perché dico che la posizione per la chiusura è di fatto quella che prevale? Perché aggiungono, dato che già sappiamo che Riva non vuol cacciare un centesimo è certo che lo stabilimento chiude.
Secondo me, invece, uno stabilimento come quello, per quante disgrazie possano capitare, non può essere chiuso per mille motivi, da ultimo, in ordine cronologico per il recente decreto del Governo.
Un provvedimento che ritengo di una gravità assoluta, e il perché lo spiegherò più avanti. Dunque i problemi nel Comitato nascono da questo tipo di posizione, cui ovviamente si attengono tutte le organizzazioni ambientaliste - che i compagni dello Slai cobas hanno definito in un determinato modo, che secondo me avrebbero potuto evitare.
Questi pensano che la chiusura dell’Ilva determinerà un cambiamento strutturale della crescita produttiva. Detto in termini schematici: il passaggio a una crescita centrata sulle cozze, la piscicoltura, l’agricoltura, la pastorizia, ecc. E in più ci sarebbe la valanga di soldi necessaria per le bonifiche.
È stato veramente inutile sgolarsi per mesi per dire: “guardate, amici e, se qualcuno non si offende, compagni, che questa è la strada peggiore, è la strada che già è stata percorsa in altre situazioni.
Vogliamo parlare della Sardegna, dove le aziende chiudono a catena e non succede niente? Dove gli operai devono abbarbicarsi nella difesa della Alcoa, addirittura delle miniere, che sono dieci volte peggiori della siderurgia?”
Niente da fare: si insiste a proporre questa strada, annunciando in modo un po’ favolistico che arriveranno miliardi per bonificare Taranto. Inutile è stato spiegare che se, per ipotesi, l’Ilva chiudesse non arriverebbe neanche un centesimo come, per fare un esempio più vicino a noi, non è arrivato un centesimo a Bagnoli, dove dal 1993 si promettono bonifiche che ancora nessuno ha realmente visto. Tirano poi in ballo, a sproposito, l’esempio della chiusura dell’area a caldo di Genova, frutto di presunte grandi mobilitazioni di cittadini, quando in realtà i nostri compagni che a Genova vivono e operano ci hanno confermato che a suo tempo ci furono mobilitazioni di circoli ristretti rispetto alla dimensione della città, un po’ come è avvenuto anche qui a Taranto per tutto un lungo periodo in cui non è che ci sia stata chissà che mobilitazione prima degli ultimi mesi di esplosione della questione e di crescita del Comitato. È vero che a Genova Riva ha chiuso l’area a caldo ma nessuno vuole ammettere che per farlo Riva ha beccato un sacco di milioni. Nel '98, quando io ero ancora in fabbrica Riva fece un accordo che discutemmo in consiglio di fabbrica, dove ci raccontarono la barzelletta che sarebbe stata spostata a Taranto la produzione di altri due milioni di tonnellate quando già la produzione, che allora era su cinque altiforni, aveva raggiunto il suo massimo. Comunque sia, nel '98 si fa quell’accordo ma l’area a caldo è stata chiusa solo nel 2005. Se si considera che un altoforno ha una campagna produttiva da 5 a 8 anni, dopo i quali l’altoforno va rifatto. Dunque nel 2005 Riva aveva l’alternativa: spendere 15, 20, qualcuno dice 30 milioni per rifare l’unico altoforno ancora attivo a Genova, o incassare i 50 milioni che lo Stato e la Regione gli offrivano per chiuderlo, più la gestione per 50 anni dell’area demaniale del porto? Secondo voi Riva che cosa poteva scegliere? Perché gridare alla vittoria, quando, nel migliore dei casi, è una vittoria di Pirro? E che vittoria è? È vero che la gente che abitava vicino l’impianto ha ottenuto un grande miglioramento, ma non la spacciamo per una vittoria generale.
Vittorie sono quelle che tu riesci a determinare con le tue forze, cosa impossibile finché i rapporti di forza restano a vantaggio della borghesia e dei padroni, quindi anche di Riva.
Altro esempio che tirano in ballo è quello di Dusseldorf, dove lo stabilimento è stato chiuso e ricostruito in altro sito con tutte le più nuove tecnologie, ovviamente sempre nell’interesse dei padroni. Ma al di là della questione chiusura sì chiusura no, il punto è che si deve dare all’opinione pubblica un’informazione quanto meno accertabile. Alcuni compagni sono andati a visitare questo nuovo stabilimento ed effettivamente raccontano che la produzione è “pulitissima”. I parchi minerari, quelli che come tutti sanno sono maggiormente sotto accusa, li hanno collocato a 300 km dallo stabilimento e dall’abitato, spostano settimanalmente dai parchi solo il quantitativo di minerale necessario per una settimana di produzione, 10 giorni al massimo, col risultato di avere cumuli molto bassi. Bene, ma dov’è il grosso dei parchi? Sul Reno! Ed è questa una soluzione? È una soluzione come quella che ho sentito proporre nel Comitato: spostiamo l’Ilva verso Massafra … e che a Massafra sono più scemi? Ancora peggio, ho sentito dire: lasciamo fare queste produzioni ai paesi in via di sviluppo, detto da gente che non si rende conto del suo razzismo strisciante: come se si dicesse, i cinesi sono un miliardo e mezzo, più di un miliardo sono gli indiani, lo stesso Brasile è i forte crescita, possono permettersi di far morire qualcuno, mentre noi che siamo in decrescita è bene che ci salvaguardiamo. Come si fa a ragionare così? È un ragionamento reazionario, una posizione che va battuta. Si può anche essere per la chiusura dell’Ilva, ma non è accettabile che si pensi che si possa spostare altrove, dove gli altri sono inferiori a te.
La mia opinione, e parlo a titolo personale, non per la mia organizzazione, è che oggi ci sono tecnologie di produzione, dette corex e finex, avanzate al punto che azzerano il danno dato dallo stoccaggio e passaggio di minerale dalle cockerie agli altiforni, utilizzando un minerale agglomerato che non produce diossina in quanto annulla la sinterizzazione, che avviene all’interno dell’agglomerato. Se esistono queste tecnologie perché produrre tutti a Taranto gli 8 milioni di tonnellate previste dalla nuova AIA? Non potrebbero invece restare a Taranto due, massimo tre altiforni dotati di queste tecnologie e spostare il resto della produzione, con la stessa tecnologia in altri siti siderurgici?
Ma su questo pesa il macigno, e qui torno a parlare a nome collettivo, dell’ultimo infame provvedimento del governo. Noi pensiamo che l’aspetto peggiore del decreto non è aver scippato il problema dalle mani della Magistratura e fermato l’inchiesta, la carognata peggiore è che hanno elevato lo stabilimento di Taranto al rango di stabilimento di rilievo strategico nazionale, il che vuol dire che tutta la produzione di qui non se ne andrà mai più né può essere cambiata se non in accordo con gli interessi strategici nazionali.
Il ritiro di quel provvedimento va chiesto per questo motivo, non perché delude chi credeva che l’Ilva avrebbe chiuso in pochi giorni, ma perché mette una pietra su qualsiasi ipotesi seria di bonifica, in nome dell’interesse strategico nazionale. Per fare un esempio: solo un cambio di tecnologia e la riduzione della scala dell’impianto può permettere la soluzione del problema dei parchi, perché non esiste al mondo sistema che permetta la copertura degli attuali 70 ettari di parchi dove operano macchinari, le cosiddette bivalenti, alte 70 metri; una copertura vasta 70 ettari e alta oltre 70 metri, vi rendete conto che è impossibile?
Ristrutturare una fabbrica come quella è possibile solo se c’è la volontà politica di governo di diffondere la produzione siderurgica. Ma questo governo non ha più niente da dire sulla politica industriale, salvo imporre l’ultimo diktat.
Solo l’entrata in campo della classe operaia potrebbe cambiare questo stato di cose. Ma purtroppo dato il livello di coscienza attuale, questa classe operaia è abbarbicata a quel posto di lavoro, ha paura di perderlo e invece di dotarla degli strumenti per comprendere qual'è il processo che andrebbe perseguito, si cerca di convincere che ormai siamo tutti morti, e perciò tanto vale che lo stabilimento chiude e tanti saluti a tutti!
Ma credo proprio che su questo avremo molto da dire nei prossimi giorni!

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