Sono della Lega Ambiente di Taranto, ma
in passato sono stato anche operaio dell’indotto Ilva e
rappresentante sindacale. Quindi diciamo che sono un ambientalista ma
sono stato anche diversi anni in fabbrica e ho condiviso anche
l’esperienza operaia.
In generale Taranto è un emblema dello
sfruttamento capitalistico nel nostro paese. È stata terreno degli
interventi per lo “sviluppo” del Meridione negli anni ’50,
quella industrializzazione forzata del Meridione, che a distanza di
50 anni possiamo vedere che ha prodotto reddito ma non ha creato
sviluppo, in quanto intorno a queste fabbriche non si è creato un
indotto, queste fabbriche non sono state moltiplicatrici di altre
esperienze industriali o artigianali, ma hanno prodotto soprattutto
inquinamento e anche disoccupazione negli altri settori.
Possiamo definire questo tipo di
sviluppo come interno a una divisione del lavoro preesistente agli
anni ’50 e ’60 per cui le produzioni più nocive si collocavano
nel Sud del mondo, e, nel nostro caso, nel Sud dell’Italia.
Questa industrializzazione ha
comportato un pesante sfruttamento della forza lavoro, soprattutto
negli anni ’60 e ’70, perché le lotte sindacali di allora se
sono riuscite a ottenere alcune conquiste, non sono riuscite a
spezzare la catena della micro parcellizzazione degli appalti,
responsabile anche di tante morti in fabbrica. A metà anni ’70 si
avevano qualcosa come 500 micro aziende attive nell’appalto e
subappalto, che moltiplicavano anche i problemi di sicurezza.
Oggi Taranto, grazie soprattutto alla
grande mobilitazione delle varie associazioni e comitati
ambientalisti, è finalmente diventata questione di rilievo
nazionale, un obiettivo che da tanto tempo ci eravamo prefissi. E la
questione Taranto negli ultimi tempi ha contribuito a riproporre a
livello nazionale la questione del rapporto tra industria e ambiente.
Una questione negli ultimi anni completamente assente nel dibattito
nazionale. Il valore nazionale della questione Taranto sta proprio
nel risollevare con forza la questione di questo rapporto.
Per noi come Lega Ambiente il problema
non è mai stato anteporre la salute prima del lavoro o viceversa.
Abbiamo sempre ritenuto importante la salvaguardia della salute della
popolazione, cosi come la salvaguardia dei lavoratori, così come il
lavoro delle persone. Abbiamo sempre ritenuto la questione ambientale
strettamente legata alla questione sociale e che le due questioni
dovevano essere affrontate parallelamente e intrecciate l’una
all’altra.
Rispondiamo a un’altra domanda.
Abbiamo affermato che oggi, per effetto di quel tipo di
industrializzazione, permangono un altro livello di disoccupazione,
ufficialmente intorno al 22-23% e un altissimo tasso di inquinamento.
Siamo perciò di fronte a un sistema che in nessun modo possiamo
considerare sostenibile né dal punto di vista ambientale, né
occupazionale. Lo stanno a dimostrare la dichiarazione risalente già
al ’90 e reiterata nel ’98, di Taranto come area ad elevato
rischio ambientale, le ordinanze di divieto di pascolo nel raggio di
20 km dalla cintura della città, l’interdizione della
mitilicoltura nelle acque del Mar Piccolo, quella che era stata
un’icona di eccellenza.
Taranto non è strategica solo perché
tale l’ha definita un decreto del governo. Taranto, la sua
produzione di acciaio è strategica anche per applicare un modello di
sviluppo alternativo, basta pensare un sistema di mobilità
alternativo centrato sul trasporto su rotaia invece che su gomma, che
richiede massiccia produzione di acciaio. Taranto è strategica
perché sede del porto militare più importante del Mediterraneo,
dopo quello della Nato in Turchia. È il sito delle riserve
strategiche di idrocarburi della nazione, ecc.
Eppure, a fronte di questa strategicità
su tanti fronti, abbiamo avuto un territorio abbandonato a sé
stesso, con un industria che oltre l’Ilva conta anche la
raffineria, due centrali termoelettriche per un parco complessivo di
1.100 megawatt, più le due interne alla stessa Ilva e alla
Raffineria; un grande cementificio più altri più piccoli, tre
inceneritori, due discariche di rifiuti solidi urbani, tre di rifiuti
speciali, usate principalmente per risolvere l’emergenza rifiuti in
Campania, l’80% dei rifiuti speciali stoccati in provincia di
Taranto viene da fuori regione e solo il 10% proviene dalla stessa
provincia, oltre alle mega discariche che, ricordate, servono per i
residui della lavorazione dell’Ilva. Questo è il quadro completo
del nostro territorio.
Venendo alle ultime vicende, noi
abbiamo sempre sostenuto le inchieste della Magistratura. Abbiamo
sempre affermato che quegli impianti andavano fermati, come disposto
dai provvedimenti della Magistratura, ma chiarendo bene che per noi
si tratta di fermata, non di chiusura. Abbiamo sempre sostenuto che
alla fermata deve seguire il risanamento degli impianti, non la
chiusura.
È ben noto che tra le varie
associazioni ambientaliste ci sono posizioni diverse, c’è chi è
per la chiusura senza preoccuparsi della sorte degli operai, ma
questa non è la nostra posizione.
L’ultimo provvedimento del governo ha
ulteriormente complicato la situazione e la domanda a cui rispondere
è se esiste un qualsiasi obiettivo che legittimi che un potere, cui
la Costituzione attribuisce una sua autonomia, possa essere superato
da un provvedimento di un altro potere, da cui è indipendente. Già
in passato abbiamo avuto violazioni dello stesso tipo, penso
all’esperienza di Gela o, più di recente, ai provvedimenti del
governo Berlusconi sulla riduzione dei tempi di prescrizione e di
durata dei processi, con risultato di vanificare quelli che erano
provvedimenti della Magistratura.
Sono segnali molto preoccupanti per la
tenuta del nostro sistema democratico. Oggi pensiamo che, oltre che
protestare per quanto avviene, occorre da subito agire per il
risanamento degli impianti. Riteniamo abbastanza severo per l’Ilva
il riesame dell’AIA appena approvato. Ci sono ancora dei punti che
non ci vanno bene, soprattutto per quanto riguarda la tempistica, ci
sono infatti tempi sensibilmente diversi di fermata e risanamenti,
tra quelli contemplati dal riesame dell’AIA e quelli imposti dai
provvedimenti della Magistratura. Altra cosa su cui non siamo
d’accordo è il tetto della produzione fissato a 8 milioni di
tonnellate, che lascia sostanzialmente il tetto attuale posto
dall’Ilva, mentre riteniamo che questo debba essere decisamente
ridotto perché per avere un’Ilva risanata, questa deve tenere un
livello di produzione sensibilmente inferiore, dato che in questo
stabilimento meno si produce, meno si inquina, al di là delle
innovazioni tecnologiche. Non ci sta bene neanche che nell’AIA non
sia prevista una fidejussione, la sola che in qualche modo avrebbe
potuto garantire i Tarantini dal fallimento dell’azienda, che
porterebbe invece tutti i costi di bonifica a carico delle casse
dello Stato e cioè a carico della collettività.
Detto questo, riteniamo che nel
complesso l’AIA sia abbastanza severa, che non ha nulla a che
vedere con quella spudorata rilasciata nell’agosto 2011 sotto il
ministro Prestigiacomo, e che prevede tutta una serie di interventi
piuttosto interessanti, che qui non abbiamo il tempo di elencare.
Cito soltanto quelli a carico della cockeria, di tutte le parti dello
stabilimento che comportano emissione diffusa o sono interessate a
stoccaggio di materie prime.
In sintesi possiamo dire che l’AIA
comunque prevede misure abbastanza restrittive, ma pur sempre interne
al mantenimento di questo tipo di procedimento tecnologico, non si
impone l’innovazione tecnologica, con tecnologie che oggi sono
invece utilizzate in India, Cina o Sudamerica, le tecnologie corex e
finex che bypassano completamente la cockeria. Abbiamo cercato di
studiare l’impatto sul nostro territorio di questo tipo di
tecnologie, ma non abbiamo risposte concrete sul piano tecnico.
Dunque la nostra riserva resta: sono misure severe su un processo
produttivo che resta lo stesso.
Per chiudere sul punto, per poter
valutare appieno il riesame dell’AIA dovrebbe essere completato da
una valutazione del danno sanitario. Una valutazione prevista da una
legge innovativa, anche se u pò farraginosa nell’applicazione,
approvata di recente dalla Regione Puglia. Una volta approntata
questa valutazione a livello regionale, questa dovrà essere
applicata anche all’AIA dell’Ilva di Taranto, che dovrà essere
rivalutata alla luce di essa. È un fatto importante perché tutta la
vicenda Ilva ci insegna una cosa: non basta rispettare i limiti di
legge, all’Ilva nessuno contesta lo sforamento dei limiti alle
emissioni. Ciò che la Magistratura ha appurato è che, pur
nell’osservanza di questi limiti, le inchieste epidemiologiche
dimostrano che gli effetti sulla salute dei lavoratori e dei
cittadini sono assolutamente intollerabili.
Il problema quindi non è solo quello
di ottenere il rispetto delle norme ma dei livelli di inquinamento
che minimizzino l’impatto sulla salute dei cittadini.
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