martedì 22 gennaio 2013

Assemblea Nazionale Rete Sicurezza - 5° Parte Intervento di Leo Corvace (Legambiente)

LEO CORVACE - LEGA AMBIENTE

Sono della Lega Ambiente di Taranto, ma in passato sono stato anche operaio dell’indotto Ilva e rappresentante sindacale. Quindi diciamo che sono un ambientalista ma sono stato anche diversi anni in fabbrica e ho condiviso anche l’esperienza operaia.
In generale Taranto è un emblema dello sfruttamento capitalistico nel nostro paese. È stata terreno degli interventi per lo “sviluppo” del Meridione negli anni ’50, quella industrializzazione forzata del Meridione, che a distanza di 50 anni possiamo vedere che ha prodotto reddito ma non ha creato sviluppo, in quanto intorno a queste fabbriche non si è creato un indotto, queste fabbriche non sono state moltiplicatrici di altre esperienze industriali o artigianali, ma hanno prodotto soprattutto inquinamento e anche disoccupazione negli altri settori.
Possiamo definire questo tipo di sviluppo come interno a una divisione del lavoro preesistente agli anni ’50 e ’60 per cui le produzioni più nocive si collocavano nel Sud del mondo, e, nel nostro caso, nel Sud dell’Italia.
Questa industrializzazione ha comportato un pesante sfruttamento della forza lavoro, soprattutto negli anni ’60 e ’70, perché le lotte sindacali di allora se sono riuscite a ottenere alcune conquiste, non sono riuscite a spezzare la catena della micro parcellizzazione degli appalti, responsabile anche di tante morti in fabbrica. A metà anni ’70 si avevano qualcosa come 500 micro aziende attive nell’appalto e subappalto, che moltiplicavano anche i problemi di sicurezza.
Oggi Taranto, grazie soprattutto alla grande mobilitazione delle varie associazioni e comitati ambientalisti, è finalmente diventata questione di rilievo nazionale, un obiettivo che da tanto tempo ci eravamo prefissi. E la questione Taranto negli ultimi tempi ha contribuito a riproporre a livello nazionale la questione del rapporto tra industria e ambiente. Una questione negli ultimi anni completamente assente nel dibattito nazionale. Il valore nazionale della questione Taranto sta proprio nel risollevare con forza la questione di questo rapporto.
Per noi come Lega Ambiente il problema non è mai stato anteporre la salute prima del lavoro o viceversa. Abbiamo sempre ritenuto importante la salvaguardia della salute della popolazione, cosi come la salvaguardia dei lavoratori, così come il lavoro delle persone. Abbiamo sempre ritenuto la questione ambientale strettamente legata alla questione sociale e che le due questioni dovevano essere affrontate parallelamente e intrecciate l’una all’altra.
Rispondiamo a un’altra domanda. Abbiamo affermato che oggi, per effetto di quel tipo di industrializzazione, permangono un altro livello di disoccupazione, ufficialmente intorno al 22-23% e un altissimo tasso di inquinamento. Siamo perciò di fronte a un sistema che in nessun modo possiamo considerare sostenibile né dal punto di vista ambientale, né occupazionale. Lo stanno a dimostrare la dichiarazione risalente già al ’90 e reiterata nel ’98, di Taranto come area ad elevato rischio ambientale, le ordinanze di divieto di pascolo nel raggio di 20 km dalla cintura della città, l’interdizione della mitilicoltura nelle acque del Mar Piccolo, quella che era stata un’icona di eccellenza.

Taranto non è strategica solo perché tale l’ha definita un decreto del governo. Taranto, la sua produzione di acciaio è strategica anche per applicare un modello di sviluppo alternativo, basta pensare un sistema di mobilità alternativo centrato sul trasporto su rotaia invece che su gomma, che richiede massiccia produzione di acciaio. Taranto è strategica perché sede del porto militare più importante del Mediterraneo, dopo quello della Nato in Turchia. È il sito delle riserve strategiche di idrocarburi della nazione, ecc.
Eppure, a fronte di questa strategicità su tanti fronti, abbiamo avuto un territorio abbandonato a sé stesso, con un industria che oltre l’Ilva conta anche la raffineria, due centrali termoelettriche per un parco complessivo di 1.100 megawatt, più le due interne alla stessa Ilva e alla Raffineria; un grande cementificio più altri più piccoli, tre inceneritori, due discariche di rifiuti solidi urbani, tre di rifiuti speciali, usate principalmente per risolvere l’emergenza rifiuti in Campania, l’80% dei rifiuti speciali stoccati in provincia di Taranto viene da fuori regione e solo il 10% proviene dalla stessa provincia, oltre alle mega discariche che, ricordate, servono per i residui della lavorazione dell’Ilva. Questo è il quadro completo del nostro territorio.

Venendo alle ultime vicende, noi abbiamo sempre sostenuto le inchieste della Magistratura. Abbiamo sempre affermato che quegli impianti andavano fermati, come disposto dai provvedimenti della Magistratura, ma chiarendo bene che per noi si tratta di fermata, non di chiusura. Abbiamo sempre sostenuto che alla fermata deve seguire il risanamento degli impianti, non la chiusura.
È ben noto che tra le varie associazioni ambientaliste ci sono posizioni diverse, c’è chi è per la chiusura senza preoccuparsi della sorte degli operai, ma questa non è la nostra posizione.
L’ultimo provvedimento del governo ha ulteriormente complicato la situazione e la domanda a cui rispondere è se esiste un qualsiasi obiettivo che legittimi che un potere, cui la Costituzione attribuisce una sua autonomia, possa essere superato da un provvedimento di un altro potere, da cui è indipendente. Già in passato abbiamo avuto violazioni dello stesso tipo, penso all’esperienza di Gela o, più di recente, ai provvedimenti del governo Berlusconi sulla riduzione dei tempi di prescrizione e di durata dei processi, con risultato di vanificare quelli che erano provvedimenti della Magistratura.
Sono segnali molto preoccupanti per la tenuta del nostro sistema democratico. Oggi pensiamo che, oltre che protestare per quanto avviene, occorre da subito agire per il risanamento degli impianti. Riteniamo abbastanza severo per l’Ilva il riesame dell’AIA appena approvato. Ci sono ancora dei punti che non ci vanno bene, soprattutto per quanto riguarda la tempistica, ci sono infatti tempi sensibilmente diversi di fermata e risanamenti, tra quelli contemplati dal riesame dell’AIA e quelli imposti dai provvedimenti della Magistratura. Altra cosa su cui non siamo d’accordo è il tetto della produzione fissato a 8 milioni di tonnellate, che lascia sostanzialmente il tetto attuale posto dall’Ilva, mentre riteniamo che questo debba essere decisamente ridotto perché per avere un’Ilva risanata, questa deve tenere un livello di produzione sensibilmente inferiore, dato che in questo stabilimento meno si produce, meno si inquina, al di là delle innovazioni tecnologiche. Non ci sta bene neanche che nell’AIA non sia prevista una fidejussione, la sola che in qualche modo avrebbe potuto garantire i Tarantini dal fallimento dell’azienda, che porterebbe invece tutti i costi di bonifica a carico delle casse dello Stato e cioè a carico della collettività.
Detto questo, riteniamo che nel complesso l’AIA sia abbastanza severa, che non ha nulla a che vedere con quella spudorata rilasciata nell’agosto 2011 sotto il ministro Prestigiacomo, e che prevede tutta una serie di interventi piuttosto interessanti, che qui non abbiamo il tempo di elencare. Cito soltanto quelli a carico della cockeria, di tutte le parti dello stabilimento che comportano emissione diffusa o sono interessate a stoccaggio di materie prime.
In sintesi possiamo dire che l’AIA comunque prevede misure abbastanza restrittive, ma pur sempre interne al mantenimento di questo tipo di procedimento tecnologico, non si impone l’innovazione tecnologica, con tecnologie che oggi sono invece utilizzate in India, Cina o Sudamerica, le tecnologie corex e finex che bypassano completamente la cockeria. Abbiamo cercato di studiare l’impatto sul nostro territorio di questo tipo di tecnologie, ma non abbiamo risposte concrete sul piano tecnico. Dunque la nostra riserva resta: sono misure severe su un processo produttivo che resta lo stesso.
Per chiudere sul punto, per poter valutare appieno il riesame dell’AIA dovrebbe essere completato da una valutazione del danno sanitario. Una valutazione prevista da una legge innovativa, anche se u pò farraginosa nell’applicazione, approvata di recente dalla Regione Puglia. Una volta approntata questa valutazione a livello regionale, questa dovrà essere applicata anche all’AIA dell’Ilva di Taranto, che dovrà essere rivalutata alla luce di essa. È un fatto importante perché tutta la vicenda Ilva ci insegna una cosa: non basta rispettare i limiti di legge, all’Ilva nessuno contesta lo sforamento dei limiti alle emissioni. Ciò che la Magistratura ha appurato è che, pur nell’osservanza di questi limiti, le inchieste epidemiologiche dimostrano che gli effetti sulla salute dei lavoratori e dei cittadini sono assolutamente intollerabili.
Il problema quindi non è solo quello di ottenere il rispetto delle norme ma dei livelli di inquinamento che minimizzino l’impatto sulla salute dei cittadini.

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