mercoledì 30 gennaio 2013

ilva - le donne denunciano

Ilva, la parola alle donne

Dopo anni di silenzio, Taranto mesi fa è tornata agli onori delle cronache grazie al disastro ambientale e occupazionale dall'Ilva, il colosso dell'acciaio che ora rischia di chiudere. I sigilli posti dalla magistratura il 26 luglio del 2012 per disastro ambientale hanno finalmente portato l'attenzione sulla situazione in cui da anni versa la città dei due mari, vittima in passato di amministrazioni sbagliate e oggi costretta a "scegliere" tra diritto alla salute e diritto al lavoro. L'impianto, un tempo statale e dal 1995 di proprietà del Gruppo Riva, è infatti stato costruito in mezzo alla città, a ridosso del quartiere Tamburi, che attualmente ospita oltre 10.000 abitanti e dove ogni famiglia conta almeno un malato di cancro. Stando al Rapporto Sentieri del Ministero della Salute, che ha analizzato l'aria della provincia dal 2003 al 2009, Taranto è una delle città più inquinate d'Italia, con indici di mortalità in crescita impressionante. Ma la salute non è il solo problema di Taranto. Qui il tasso di disoccupazione è altissimo e se l'Ilva chiudesse andrebbero in fumo circa 12mila posti di lavoro. Scegliere tra diritto alla salute e diritto al lavoro è possibile? Quali sono le priorità e chi le stabilisce? Ne abbiamo parlato con le donne della città, da mesi impegnate, con il comitato "Donne per Taranto" e altre realtà similari, a dar voce a una battaglia che si è purtroppo trasformata in una guerra tra poveri. Da una parte chi ha in casa una persona malata o che non vuole che si ammali, dall'altra chi vive con un marito o un figlio lavoratore e non vuole perdere l'unica fonte di sopravvivenza.

Rossella Carrer, 33 anni: "La mia famiglia è stata decimata dal cancro"
La madre di Rossella è morta di tumore al cervello pochi giorni fa. Questa intervista è stata fatta a Taranto tre giorni prima che se ne andasse. Rossella ha deciso che la testimonianza che ci aveva "regalato" era troppo importante e ha voluto che la pubblicassimo lo stesso. "Mia madre l'ho persa quel giorno, il 17 agosto 2012, quando i medici le hanno diagnosticato un tumore al cervello. Ora non parla più, è ridotta a un vegetale, ma io comunico con lei ogni giorno, le racconto quello che faccio, le sussurro all'orecchio i modi buffi in cui ci chiamavamo. So che può sentirmi". Rossella è una bella ragazza di 33 anni, laureata in psicologia a Roma, dove si è rifugiata ai tempi dell'università proprio per scappare da Taranto, città a cui vuole bene ma che le è sempre stata stretta. Lo scorso novembre è stata costretta a tornarci, lasciando lavoro, ragazzo, casa e amici, per assistere sua madre, che ora è diventata sua figlia. "È stata una decisione difficile, ma mi sento una privilegiata a poter trascorrere questi ultimi mesi con lei. I medici hanno detto che non c'è più niente da fare e io voglio starle vicino fino alla fine. Mia madre è tutto per me". Come tante altre persone nella sua condizione, Rossella è convinta che a provocare la malattia siano stati i fumi dell'Ilva. "Ma non tutti i medici che ho incontrato a Taranto la pensano come me. Qui sono molto attaccati al mito del lavoro, non come realizzazione professionale ma come sacrificio. Il lavoro viene prima di tutto, anche prima della salute. Io so che la mia famiglia è stata decimata dal cancro. Mia cugina è stata operata al seno a 45 anni e tutte e due le cugine di mia madre sono morte di tumore ai polmoni a 50 anni, pur non avendo mai fumato. In questa città mi sento in pericolo: a volte di notte mi alzo, mi affaccio alla finestra e respiro. Sento forte nei polmoni l'odore del metallo, ho paura". Rossella ha già detto che, appena potrà, tornerà a Roma, la città che l'ha accolta e dove "ti basta fare una passeggiata in centro per sentirti fortunato". "Ai tarantini vorrei dire che non vale la pena sacrificare la salute per un posto di lavoro. Non si può vivere con la prospettiva di ammalarsi, anche perché qui per curarsi non esistono le strutture adeguate. Io non farei mai un figlio a Taranto. A me e alla mia famiglia ho deciso di dare un'altra possibilità".

Ilva, la parola alle donne
Marcella De Bartolomeo, 38 anni: "Grazie all'Ilva ho potuto studiare e laurearmi"
Sorriso brillante, battuta sempre pronta, Marcella è una ragazza dalla simpatia contagiosa. Lavora a Taranto come direttrice di una casa famiglia per bambini con situazioni problematiche e pur non avendo bisogno dell'Ilva per vivere ne ha avuto bisogno per studiare. "Mio padre ci ha lavorato come operaio per 22 anni. Senza quel posto sicuro, con uno stipendio dignitoso, non avrei mai potuto studiare, perché la mia è sempre stata una famiglia modesta. E invece i miei, grazie a quel lavoro, sono riusciti a mantenermi a Lecce all'università per quattro anni. Oggi mio padre ha una pensione che permette a tutti e due i miei genitori di vivere tranquilli. Devo essere sincera: io all'Ilva devo la mia realizzazione professionale e la serenità della mia famiglia". Marcella però crede anche nell'importanza della tutela della salute. E ha in mente un progetto preciso per la città che ama e dalla quale, giura, non se andrà mai: "Io credo che l'impianto debba essere smantellato e ricostruito a norma e che questa operazione debba essere fatta utilizzando proprio la forza lavoro che con la chiusura rischierebbe il posto. L'Ilva è una vera e propria città, io l'ho visitata, e i lavori di bonifica sono necessari ma richiederebbero, se ben fatti, anni di interventi. Ce n'è abbastanza per dare lavoro a tutta la popolazione disoccupata. Perché aspettare che arrivi qualche miliardario cinese o arabo a comprare tutto? Lo Stato, se vuole davvero aiutarci, che lo faccia con convinzione e senza costringere la popolazione a scegliere, dolorosamente, tra salute e lavoro. Taranto è una città che poteva vivere di turismo e ora ha perso anche le sue pregiatissime cozze. Ci sono allevatori a cui hanno ammazzato le pecore perché producevano latte contaminato. La mia città ha già perso tutto, non merita di sprofondare nel baratro perdendo anche gli ultimi posti di lavoro".

Marianeve Santoiemma, 43 anni: "Mia figlia non respira più. Se non la porto via morirà"
La vita di Marianeva ha un nome. Si chiama Giulia. Giulia è sua figlia, una bambina di 7 anni malata di asma cronica che l'ultimo Natale l'ha passato in un centro di cura specializzato a Misurina, in mezzo alle Dolomiti, dove l'aria pizzica i polmoni per quanto è pura. Oltre a una incredibile quantità di medicine, Giulia da 7 anni assorbe anche la vita della madre, che a fatica si divide tra lei, l'altro figlio (anche lui asmatico) e un lavoro da educatrice professionale. "Ogni anno chiedo le ferie e porto, a mie spese, mia figlia in montagna. Un mese in estate e due settimane in inverno. Quando sta qui soffre, non respira, ha crisi continue. Appena la porto a Misurina rinasce, in pochi giorni i valori tornano normali e passano le crisi. Se non avessi trovato quel centro di cura per l'asma infantile (www.misurinasma.it) mia figlia sarebbe morta. Qui a Taranto centri di cura per asmatici non ce ne sono". Marianeve è convinta che l'asma di sua figlia si sia cronicizzata a causa dell'inquinamento prodotto dall'Ilva e che anche la malattia sia stata indotta dal fatto di aver respirato diossina e benzopirene durante la gravidanza, avendo lei lavorato nelle vicinanze dello stabilimento. "Sono sostanze genotossiche, che modificano il dna. Non è un caso che sia io che i miei figli soffriamo della stessa malattia. Quando porto Giulia a Milano lei sta benissimo, eppure anche Milano è piena di smog: non è un problema di semplice inquinamento, qui si parla di sostanze mortali". Marianeve è talmente sensibile alla questione che aggiorna, sul sito di un importante quotidiano nazionale, il blog "L'Ilva da fuori", denunciando in diretta la situazione di inquinamento in cui i tarantini vivono da anni. "Nei "wind day", così li chiamiamo a Taranto i giorni di vento, quelli che trasportano la polvere di minerale dappertutto, io e mia figlia non usciamo di casa. La polvere velenosa si deposita dappertutto, non solo nel quartiere Tamburi. Il pavimento della Villa Peripato è rosso di minerale. Eppure nella cartella clinica di mia figlia Giulia non c'è una spirometria: perché? Per anni i responsabili hanno cercato di insabbiare tutto e i tarantini sono stati inconsapevoli dei rischi che correvano. Ora l'aria sta cambiando". Il decreto salva-Ilva, però, ha indebolito fortemente le speranze di Marianeve e se l'industria non chiuderà lei non avrà scelta: dovrà andarsene. "È l'unico modo per dare un futuro a mia figlia. Non c'è speranza per lei, se continua a vivere sotto i fumi dell'Ilva". 

Elvira Vene, 45 anni: "Mio marito lavora all'Ilva, mio figlio è disoccupato. Se chiude che ne sarà di noi?"

Elvira è donna dal sorriso sgargiante di amore per la propria famiglia e la propria città. Ha due figli, uno di 26 anni che lavora a Milano, e uno di 21, che prima lavorava a progetto in un call center e ora è disoccupato.  Suo marito è un impiegato dell'Ilva, nel settore dedicato al trattamento dell'acqua, uno dei più importanti di tutta l'industria. "Mio marito non è più un ragazzino. Se lo stabilimento chiude, come faremo? Lui sa perfettamente che non troverebbe un altro lavoro, per noi sarebbe la fine. Per questo non voglio assolutamente che chiuda. Tra diritto alla salute e diritto al lavoro, in questo caso, scelgo quello al lavoro, perché senza lavoro ci si ammala". Elvira non è certo una persona insensibile ai problemi ambientali ed è convinta che la situazione debba comunque essere modificata e che non si possa andare avanti così. "Ho amici che sono morti di cancro, certo che mi preoccupo del problema delle emissioni. I responsabili dovrebbero chiudere un reparto alla volta e sistemarlo. Lo Stato dovrebbe farsi carico del problema. Mi sembra impossibile che non si riesca a trovare una soluzione ragionevole per tutti. L'Ilva non può chiudere, non si può fermare. Per noi è una fonte di lavoro di primaria importanza. Se chiude la città intera finirà in ginocchio".

Maria Pignatelli, 50 anni: "Vivo ai Tamburi, sotto le ciminiere. Non ce la faccio più"
Per capire qualcosa della vita di Maria e suo marito Gianfranco, bisogna aprire i cassetti della loro camera da letto. Maglie, camice, mutande, tutto è avvolto in tovaglioli bianchi e pulitissimi. "In tanti anni, è l'unico modo che ho trovato per impedire al minerale di penetrare nei tessuti". Maria non vive infatti in un quartiere "normale". Lei abita nel rione Tamburi, quello a ridosso dell'Ilva, chiamato così per via del rumore che l'acqua un tempo faceva scorrendo lungo l'acquedotto romano che lo costeggia. Oggi quell'acquedotto, mai valorizzato, è un lugubre corridoio di sassi corrosi dall'inquinamento e ha il colore rossastro del minerale che l'acciaieria sputa fuori ogni giorno. Tutto il quartiere, a dire il vero, ha quel colore. Le lapidi che i residenti hanno affisso su un paio di palazzine, ricordando le morti per cancro e la difficoltà di vivere e respirare ogni giorno quell'aria, sono diventate un triste feticcio per turisti. Ma Maria non si arrende e ogni giorno aggiunge alla propria vita una nuova tecnica di sopravvivenza, una nuova strategia, un nuovo trucco per evadere la forza invasiva del minerale. "Abbiamo fatto ricoprire le pareti del palazzo di mattonelle lavabili, per evitare che i panni stesi ad asciugare sbattessero contro il muro e si sporcassero. Abbiamo messo doppi infissi dappertutto. Ma non basta. la casa si riempie di polvere rossa in continuazione, per noi è un incubo". Questo, di giorno. Ma è di notte che arriva il peggio. "Ho registrato i rumori che l'azienda fa nelle ore notturne. Non so che combinino là dentro, ma è un frastuono assordante, indecifrabile". Il tasto play del registratore riproduce un rumore profondo, frastornante e continuo. Impossibile immaginare di dormire anche solo un'ora con un sottofondo del genere. "Ma per noi ormai queste cose sono diventate la normalità", spiega Maria. Alla domanda "Perché non ve ne andate?", la donna dà una risposta talmente ovvia da mettere in imbarazzo l'interlocutore: "per andarcene dovremmo vendere. E in queste condizioni questa casa, chi vuol che la compri?". Maria e il marito hanno fatto causa all'Ilva per svalutazione dell'immobile e sono seguiti da un pool di avvocati che fa parte del movimento "Taranto respira" (www.tarantorespira.it). Al balcone di casa hanno appeso un lenzuolo bianco con la scritta "Non morirò di Ilva". Sullo sfondo, le ciminiere. E la sensazione, remota, che qualcosa stia finalmente cambiando.

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