Ilva sul filo dell'equilibrio finanziario
La superficie di accesso all'altoforno cinque è sconnessa. Falsi piani,
dislivelli, scale, piccole discese, pozze d'acqua. I piedi di tutti
procedono con prudenza. Le teste sono custodite dai caschetti.
L'altoforno cinque è uno degli snodi nevralgici di quel delicato
organismo industriale e umano che è l'Ilva di Taranto. Mentre cala la
sera uno degli ultimi bastioni del capitalismo italiano - ferro e fuoco,
uomini e macchine - con i suoi fischi e i suoi rumori, le sue scintille
e la ruggine delle sue strutture restituisce il senso di una storia
novecentesca che, piaccia o no ai retori della cultura anti-industriale,
è la nostra, non di altri.
L'altoforno cinque, però, non è
soltanto una testimonianza del passato, come desidererebbero gli
ambientalisti e i sindacalisti radicali, i magistrati ignari dei
funzionamenti minimi di un'impresa e gli amministratori convertitisi
all'autoparalisi per espiare la sottomissione psicologica ai Riva e agli
Archinà. Tutti inconsapevoli che la chiusura dell'area a caldo
sancirebbe la morte dell'Ilva e la trasformazione di Taranto in una
nuova Bagnoli.
L'altoforno cinque è anche una delle poste in palio -
produttive e tecnologiche - maggiori della partita a dadi con cui
l'impegno (e la fortuna) degli uomini definirà la sorte della maggiore
acciaieria europea. L'altoforno cinque è stato costruito nel 1994.
Rifatto dieci anni dopo, nel 2004, adesso sperimenterà un rifacimento
totale l'anno prossimo. Sarà svuotato dall'interno e verrà rimodulato
pezzo per pezzo con un investimento che - da progetto - varrà fra i 130 e
i 150 milioni di euro. Questo lavoro si dovrebbe svolgere dal settembre
del 2014 al luglio del 2015. Contestualmente dovrebbero essere rifatte
le batterie, le strutture dove dal carbon fossile si produce il coke,
che poi finisce negli altoforni.
Il nuovo altoforno e le nuove
batterie dovrebbero consentire miglioramenti marginali a un sistema che,
sotto il profilo della pura efficienza produttiva, ha sempre avuto
buoni rendimenti. Basti pensare che, secondo l'analisi mensile della
Wdeh (l'associazione metallurgica tedesca), nel biennio 2011-2012
l'altoforno cinque ha conteso il primo posto nella classifica dei più
efficienti in Europa al suo equivalente di IJmuiden, nei Paesi Bassi, di
proprietà degli indiani di Tata Steel. Un indicatore dell'efficienza è,
per esempio, rappresentato dai chili di coke necessari per produrre
mille chili di ghisa: 304 a Taranto, 340 nelle acciaierie tedesche.
La complessità dell'Ilva - stretta fra la dimensione dell'efficienza
industriale e la cifra della sicurezza ambientale - è ben percepibile
nella torre di controllo. Da qui i tecnici verificano che gli standard
produttivi e i livelli di emissione siano rispettati. Nella fisiologia
dell'Ilva si tratta del sistema centrale nervoso, formato da tre primi
strati di cellule rappresentati dalle procedure formalizzate, dall'audit
interno e dalle società di certificazioni incaricate di vagliare i
processi. Su di esse si sono addensate cellule provenienti dall'esterno.
E, oggi, la torretta di controllo è metaforicamente racchiusa dalle
ispezioni dell'Ispra e dell'Arpa, dai controlli dei vigili del fuoco
ogni volta che qualcosa non funziona, dai carabinieri del Noe, dai
sindacati che talvolta raccolgono informazioni per il retropensiero di
precostituirsi una posizione giuridicamente favorevole.
La natura
bifida - produttiva e ambientale, prigioniera del passato e proiettata
verso il futuro - dell'acciaieria esprime poi un punto di caduta duplice
nella quotidianità gestionale e nella prospettiva strategica. Nel
riposizionamento dalla produzione di massa e ad alta redditività con un
atteggiamento impositivo verso i clienti dell'epoca Riva all'ampliamento
della gamma di offerta con la ricerca di un migliore rapporto fra
qualità e prezzo della nuova gestione Bondi, l'Ilva deve confrontarsi
con un mercato sempre più competitivo. Gli spread ottenibili sono di
pochi punti sopra il costo delle commodity. I magazzini, assai pingui
quando c'era la famiglia lombarda, vengono gestiti con grande
oculatezza. Quando possibile, si operano dei destoccaggi. Il risultato,
nella complessa dialettica fra conto economico e stato patrimoniale, è
quello di una posizione finanziaria stabile. Dunque, di certo la
situazione, per quanto ancora delicata, non è più paragonabile al dramma
sperimentato da gennaio ad aprile, quando ogni mese l'Ilva bruciava
intorno ai 50 milioni di euro. Anche se l'Ebitda è ancora negativo. Allo
stesso modo, un'impostazione meno padronale all'esterno (verso i
clienti) è coerente con un maggiore dialogo interno (per esempio, nei
processi decisionali con Genova e con Novi Ligure).
Il sentimento
di paura per il futuro e la fatica fisica di ogni minuto vissuti da chi
lavora nelle cokerie e negli altiforni, nelle batterie e ai nastri
trasportatori fanno il paio con l'impegno nervoso e la tensione
quotidiana di chi - fra il management, nella palazzina blu dell'Ilva -
deve intrecciare l'oggi con il domani, come fanno i pescatori con i loro
cestini di vimini nella città vecchia di Taranto. Prendiamo il problema
del piano industriale, affidato a McKinsey. La sua calibratura
definitiva dipenderà dalla versione finale del piano ambientale. Nel
prossimo futuro, andrà in Consiglio dei Ministri per trovare la forma
del decreto. Dopo la firma del decreto Bondi, avrà trenta giorni per
redigere un piano industriale, che andrà prima comunicato ai Riva
(proprietari dell'impresa) e quindi approvato dal Mise.
L'ingegnerizzazione finanziaria e la curvatura strategica del piano
industriale non potranno non dipendere dall'entità delle cose da fare
contenute nel piano ambientale. A quel punto si porrà la questione delle
risorse. Martedì il Governo ha scelto di consentire al Commissario di
utilizzare quelle sequestrate per reati fiscali e valutari ai Riva. (Sole24h)
Ed ecco, a seguire, dopo gli attacchi a testa bassa ai nemici del
"progresso" ecco la favola della "brava gente al lavoro", dell'eroe
pianista e degli orchi cattivi con la toga sporca:
L'Ilva del futuro punta sul prodotto
Sentinella, a che punto è la notte? Non chiedetelo, per favore, a chi
lavora all'Ilva. Hanno facce serie e impaurite. I loro profili sono
contratti. Sembrano avere assorbito l'ostilità autoassolutoria e la
distanza inquisitoria che li circonda quando timbrano il cartellino di
uscita alla fine del turno. Una freddezza assimilabile al vento
inospitale che, alle quattro del pomeriggio, batte sull'altoforno
cinque, sulla palazzina direzionale blu e sulle colline minerali.
Qui lavorano in dodicimila. Ingegneri, operai, tecnici. Non fanno finta.
Non sono assassini, anche se capita che ai loro figli alle recite
scolastiche assegnino la parte delle ciminiere. Sono un pezzo di Italia
industriale che - fra dramma ambientale, minorità della politica,
unilateralità della magistratura - rischia di scomparire, contribuendo a
consegnare il Paese alla fisionomia della piccola impresa: se va bene
un destino da subfornitori di lusso, se va male un futuro da terzisti o
da camerieri a basso costo della manifattura internazionale. Fabbricano
acciaio. E si dedicano a due lavori: la produzione, perché senza di essa
la fabbrica chiude, e la trasformazione dell'acciaieria secondo le
prescrizioni dell'Aia, in mezzo a mille ritardi e resistenze
regolamentari, nessuno che fuori dall'acciaieria firma nulla, e se poi
tocca a me dimostrare di avere fatto tutto correttamente, meglio stare
fermi, io in galera per quelli non ci finisco.
Tutto questo accade in una fabbrica più moderna - nella parte
prettamente industriale - del rottame ultra-inquinante dell'Iri. Una
acciaieria che, però, negli tempi è stata lasciata andare dai Riva, da
sempre molto concentrati su una produttività industriale di grana grossa
e dall'ottimo rendimento economico e, dall'agosto del 2012, più
impegnati a difendersi che a gestire la fabbrica. Fuori, intanto, il
gioco d'ombre smuove le acque morte, mescola nell'aria elementi diversi,
provoca immagini distorte. Lo Stato ha imposto come commissario
straordinario Enrico Bondi, il Mister Wolf del capitalismo italiano che -
bene o male, lo giudicheranno gli storici - dai tempi di Ferfin e di
Parmalat risolve problemi? No, ma lui era un uomo dei Riva, che lo
avevano chiamato come amministratore delegato per cinquanta giorni. Non
importa che i Riva si sentano espropriati e che ogni loro uomo di
fiducia - dai gradi intermedi alle funzioni di responsabilità - sia
stato allontanato. E che Bondi abbia chiesto agli acciaieri 484 milioni
di euro di danni, imputandogli di avere trasformato l'Ilva in un
gigantesco bancomat da cui hanno attinto per diciassette anni - secondo
l'analisi di PricewaterhouseCoopers - soldi freschi attraverso finte
consulenze infragruppo.
Dalla Taranto dolente, in cui i corpi hanno incominciato a logorarsi
negli anni Settanta dell'Italsider della mistica irrazionale del
raddoppio (da 5 a 10 milioni di tonnellate di acciaio all'anno), soffia
questo vento freddo sull'acciaieria. Dentro di essa Bondi e i suoi
collaboratori si esercitano nel difficile mestiere del pianista. Mano
destra: i lavori richiesti dall'Aia. Mano sinistra: la gestione
industriale. Lo spartito si suona con entrambe. Musica, sui lavori
richiesti dall'Aia, ne è stata già eseguita. L'Ilva, da quando Bondi è
arrivato a Taranto, ha realizzato opere o ha emesso ordini per 495
milioni di euro. Qualche esempio. I parchi delle materie prime? 115
milioni, 99 milioni dei quali per il parco minerale (la commessa alla
Cimolai). Per gli altiforni, 35 milioni. Una cinquantina di milioni
nelle cokerie. Una novantina per l'agglomerato. Nell'acciaieria, 15
milioni. Il problema è che, alla mano che sta suonando lo spartito
dell'Aia, in alcuni casi è stato richiesto un ritmo furibondo e
illogico: i sessanta chilometri di nastri trasportatori da coprire in
tre mesi sono sempre sembrati fuori dalla logica del buonsenso; finora
questo impegno è stato ottemperato al 26%, con una spesa di 36 milioni
di euro. In altri casi, le dita vanno a vuoto perché qualcuno gioca a
fare scomparire i tasti. A luglio l'Ilva ha presentato i primi quattro
progetti per i parchi minerali. Da allora la conferenza dei servizi -
nell'agile composizione di Comune di Taranto, Provincia, Arpa, Asl,
Vigili del Fuoco, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero
dell'Ambiente, Ispra e perfino Capitaneria di Porto - si è già radunata
due volte e dovrà farlo una terza, forse prima di Natale, per consegnare
le autorizzazioni. Almeno a Taranto, fra richieste di precisazioni e
rimandi al Ministero dell'Ambiente, l'Ilva che deve costruire ha trovato
degli interlocutori. Non altrettanto nel vicino Comune di Statte: alla
richiesta delle autorizzazioni per coprire con legno lamellare dei
semplici cumuli di pietre (tecnicamente il calcare 1 e 2) nessuno, negli
ultimi tre mesi, ha risposto.
L'altra mano, quella che suona la musica della riorganizzazione
industriale, prova intanto a muoversi sulla tastiera dell'organizzazione
e della strategia, della finanza di impresa e della finanza
straordinaria. Bondi sta attuando un riposizionamento strategico. La
cultura industriale e manageriale dei Riva è sempre stata fondata sulla
produzione di massa e su un controllo occhiuto dei costi, un dramma in
acciaieria se si perdeva un chilo (un chilo!) di ghisa. Una cultura da
price-maker. Da monopolista, in grado di riempire i magazzini e di
sopportarne il peso sui bilanci.
Ora, invece, all'Ilva provano a lavorare sulla qualità del prodotto.
Sulla molteplicità dell'offerta. Andando a cercare i clienti, uno a uno.
Anche se, questo, non è semplice. Perché il caos innescatosi
nell'agosto del 2012 (e i comportamenti dei Riva, uno dei quali è ancora
latitante in Inghilterra) ha contribuito a delineare una immagine di
scarsa affidabilità dell'azienda, difficile da sradicare anche
nell'attuale gestione. In particolare, l'obiettivo potenziale di vendita
di 700mila tonnellate al mese non è mai stato raggiunto. La nuova
posizione di competitor che insegue la concorrenza e cerca i clienti è
resa fragile dalla neutralità ostile della pubblica amministrazione,
dallo sbandamento dell'assetto proprietario e dalle ambiguità dei
sindacati che, dopo anni di collusione con i metodi neo-coloniali dei
Riva, anziché contribuire alla ristrutturazione dell'Ilva scelgono una
vigilanza questurina. Il tutto con la spada di Damocle della
magistratura. (Sole24h)
domenica 8 dicembre 2013
Reportage del sole 24 ore sull'ILVA - li commenteremo in seguito. Ma da subito possiamo dire che questo reportage di Paolo Bricco (giornalista sempre apertamente filo padronale) vuole accompagnare e mettere in "bella copia" il passaggio, divenuto necessario per il capitale, da una produzione di massa dei Riva a una "produzione di qualità" del periodo aperto dal commissariamento a Bondi; un "riposizionamento dalla produzione di massa e ad alta redditività con un atteggiamento impositivo verso i clienti dell'epoca Riva all'ampliamento della gamma di offerta con la ricerca di un migliore rapporto fra qualità e prezzo della nuova gestione Bondi, l'Ilva deve confrontarsi con un mercato sempre più competitivo". In sostanza significa "ristrutturazione"/tagli alla produzione (politica industriale ed economica dove Bondi è appunto esperto); e quindi un rapporto tra piano ambientale e piano industriale che accompagni questa ristrutturazione, in cui il piano ambientale con i suoi costi e con i suoi tempi deve servire il piano industriale, non essere di ostacolo ai profitti. Cosa significa tutto questo per gli operai in termini di difesa del lavoro per tutti, del salario, della sicurezza e salute non compare, e non deve centrare, nei reportage, in cui gli operai al massimo appaiono come "ombre".
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