Il decreto è una autorizzazione all’Ilva a produrre come ha fatto finora, lasciando la gestione della produzione nelle mani dei Riva, vale a dire di chi è incriminato; è un decreto, quindi, fatto per l'unico scopo di difendere il profitto - e non la messa a norma della fabbrica, visto che per questa vi era già l’Aia che stabilisce prescrizione, tempi e di conseguenza interventi sanzionatori; anzi è CONTRO una messa a norma che metta in discussione la libertà di produrre.
Ciò che il decreto stabilisce è di fatto un lavoro forzato sotto padron Riva e sotto controllo dello Stato, in una fabbrica resa franca da norme e diritti, e non un lavoro sicuro mettendo a norma l'Ilva, come richiesto negli ultimi tempi da operai e comitati cittadini.
IL DECRETO nella maggior parte dei punti in premessa sembra che debba avere per oggetto “il risanamento ambientale e la riqualificazione del territorio di Taranto”, la “più rigorosa protezione della salute e dell’ambiente”, “la piena attuazione delle prescrizioni dell’Aia, volte alla immediata rimozione delle condizioni di criticità esistenti che possono incidere sulla salute, conseguendo il sostanziale abbattimento delle emissioni inquinanti”.
Ma, dopo, dopo aver fatto anche una presentazione dell’Aia falsata (visto che essa è sia nel merito e soprattutto nei tempi totalmente insufficiente rispetto alle necessità di messa a norma), arriva alla vera ragione del decreto “la continuità del funzionamento produttivo dell’Ilva”che “costituisce una priorità di interesse nazionale”.
L’AIA viene resa legge. E’ la prima volta che questo avviene. Il suo essere legge impedisce non solo l’intervento della magistratura ma anche modifiche migliorative frutto della lotta e dell’iniziativa dei lavoratori. Tant’è che l’art. 1 punta proprio a blindare l’Aia, affermando che “le misure volte ad assicurare la prosecuzione dell’attività produttiva… in quanto in grado di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecnologie disponibili, sono esclusivamente e ad ogni effetto quelle contenute nell’Aia”.
Affermato questo, il decreto mette in secondo piano la stessa Aia, e scrivere che la prosecuzione dell’attività può essere fatta subito, “salvo che sia riscontrata l’inosservanza delle prescrizioni dell’Aia”, è un bluff, dato che il 2° comma stabilisce che già prima che si avviino gli interventi previsti, dalla entrata in vigore del decreto l’Ilva“è immessa nel possesso dei beni dell’impresa ed è in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al c. 1, alla prosecuzione dell’attività produttiva e della conseguente commercializzazione dei prodotti per tutto il periodo di validità dell’Aia”, vale a dire 6 anni.E questo - scrive il decreto - deve essere consentito “in ogni caso” al di là dei “provvedimenti di sequestro e gli altri provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria”; così il sequestro può formalmente restare ma perde ogni efficacia preventiva e deterrente.
D’altra parte come si concilia il via libera all’attività produttiva sempre e comunque, e nella piena gestione dei vertici aziendali con una seria messa a norma che necessariamente prevede il fermo temporaneo degli impianti da mettere in sicurezza e una riduzione della quantità di produzione di acciaio?
Che tutto questo sia posto spudoratamente a riaffermazione che l’unico diritto che va tutelato è quello della proprietà dei padroni, all’art. 2 il decreto afferma pertanto che, non solo l’Ilva può produrre liberamente ma “rimane in capo ai titolari dell’Aia (cioè ai Riva incriminati) la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti dello stabilimento”.
Lo Stato riaffida gli impianti industriali posti sotto sequestro perché hanno causato e causano tra i lavoratori e la popolazione malattie e morte, ad una società i cui vertici sono o agli arresti domiciliari o latitanti. Il decreto diventa così una sorta di condono ai Riva.
Né è in contrasto con questo la nomina di un Garante fatta all’art. 3,“incaricato di vigilare sulla attuazione delle disposizioni del presente decreto”, per tre anni. Una persona che dovrebbe avere competenze giuridiche, siderurgiche, chimiche, epidemiologiche (ma questo è un mostro di scienza non una persona!), che comunque deve solo segnalare al presidente del consiglio e ai ministri competenti “eventuali criticità” e al massimo fare proposte, ma non ha alcun potere interdittivo o di prescrizione. Una persona che verrà ben pagata, 200mila euro lordi l’anno.
E non si spiega perché una persona, quando esistono gli Enti di controllo e di intervento preposti: Asl, Ispettorato del Lavoro…
Infine il decreto, né l’Aia, nulla dice sui livelli di produzione record dello stabilimento Ilva di Taranto. Il grado di ipersfruttamento degli impianti, la maggiorparte già vecchi nel ’95, presi da Riva senza rinnovarli fino ad esaurimento, il “tirare al massimo” che hanno portato al record di 10milioni medi di t/a di produzione, con conseguente supersfruttamento degli operai che hanno dovuto lavorare con ritmi intensi, in condizioni di insicurezza e di rischio per la salute e la vita, ha un nesso dimostrato con i livelli di inquinamento – vedi area Parchi in cui più si fa movimentazione, più si sollevano polveri di minerali nell’aria, o l’area Acciaieria, dove il fenomeno dello slopping (come è scritto nella sentenza del Riesame) che “si verifica con frequenza e ordinariamente, vuol dire che è sicuramente collegato alla intensità delle operazioni lavorative”. Pertanto la riduzione della produzione è un intervento che dovrebbe far parte del piano di bonifica e messa in sicurezza, ma di questo non si parla.
Anzi, no, uno ne parla. Si tratta di Bersani, e per dirlo afferma il falso: “si tratta – ha dichiarato - di un decreto che a prezzo di una riduzione dell’attività produttiva (?) consente l’intervento ambientale, il presidio e il monitoraggio della salute”.
Secondo Clini, Passera e Monti, dovrebbe dare garanzia, la minaccia contenuta nel decreto, art. 3, di un’eventuale adozione di provvedimenti di amministrazione straordinaria, anche in considerazione degli art. 41 e 43 della Costituzione”. Ma Passera poi spiega che “le norme di amministrazione controllata potrebbero togliere enorme valore alla proprietà, il suo bene si depaupera e si arriva fino al punto di perderne il controllo”. Certo Riva potrebbe perdere la proprietà dell’Ilva ma lo stabilimento che lascerebbe sarebbe “depauperato” e quindi con un valore quasi nullo. Chi se lo prenderebbe a questo punto? Bene che vada sarebbe svenduta, insieme ai lavoratori.
Per tutto questo il decreto salva-Ilva è da respingere! Fermo restando che non finisce qui. Perchè il ricatto di padron Riva continua, finora ha ben funzionato con il governo, e non si accontenta neanche di questo decreto.
Ma occorre aggiungere un’altra conseguenza negativa, forse quella più importante dal punto di vista della classe operaia e della sua lotta. Lo abbiamo detto all’inizio di questo articolo: il decreto stabilisce di fatto un lavoro forzato sotto padron Riva e sotto controllo dello Stato, in una fabbrica resa franca da norme e diritti. Ci mancherà poco – diceva un operaio dell’Ilva – che entri l’esercito in fabbrica per garantire la libertà di produzione. In nome di questa “libertà” verranno impediti sia interventi della magistratura, ma anche lotte, scioperi, proteste degli operai; in fabbrica decide Riva e lo Stato. Gli operai sono fantasmi se lavorano e non pretendono; sono un “problema di ordine pubblico” (come scrive in premessa il decreto), se protestano e rivendicano diritti in contrasto con la legge a difesa della libertà di produzione. Questa situazione inevitabilmente non farà che peggiorare il clima di insicurezza tra gli operai, che in uno stabilimento come l’Ilva, si traduce immediatamente in insicurezza della propria salute e vita. Sarà un caso (ma non lo è), in meno di un mese due operai giovani sono morti! E gli operai dicono che oggi, molto più di prima, vanno a lavorare con la paura.
I Sindacati confederali si sono subito schierati a sostegno del decreto.
Il segretario della Fim ha dichiara: “il decreto è una giusta soluzione che affronta l’intera questione… L’azienda è nelle condizioni di affrontare queste spese e diluirle nell’arco di due-tre anni. E’un grande gruppo che ha le giuste garanzie…”.Il segretario della Uilm: “io lo considero un passo avanti… credo che occorra dare tempo a questa o a un’altra azienda per ottemperare alle prescrizioni…”.
Il segretario della Fiom, che sembra fare dello spirito ad un funerale: “L’Ilva non avrà più scusanti, i lavori per il risanamento ambientale potranno essere finalmente realizzati e nel più breve tempo possibile. Il tempo delle chiacchiere è finito…. Il governo è stato messa a dura prova, perché chiamato a risolvere una situazione certamente delicata”.
E il cerchio padroni, governo, Stato, sindacati confederali si chiude…
Nei fatti il decreto riconsegna la fabbrica in mano ai sindacati confederali, il cui impegno principale sarà inevitabilmente quello di vigilare sulla sua “piena attuazione”, contrastando tutto ciò che lo ostacola, in primis l'opposizione degli operai e dei sindacati e organismi di base.
Il No operaio alla chiusura dell’Ilva e il ricatto produttivo di Riva e del Governo Monti sono due cose opposte, e servono interessi opposti.
Quando gli operai dicono che l’Ilva non deve chiudere, che gli impianti non si devono fermare senza prima un piano che garantisca il lavoro e il salario a tutti gli operai, di fatto impediscono che l’Ilva diventi una mega Bagnoli senza riconversione lavorativa, senza risanamento dell’ambiente, e in mano alla speculazione privata e della criminalità; gli operai dicono NO alla cancellazione di una classe operaia di ben 20mila lavoratori, unica forza che può imporre con la lotta una reale messa a norma dell’Ilva. Sono gli operai dell’Ilva che negli anni passati hanno lottato, quasi sempre da soli, per la difesa della salute, della sicurezza, dell’ambiente, che oggi, quando lottano, sono la “garanzia” per gli abitanti di Taranto. Riva e governo dicono invece che: l'azienda deve continuare a fare profitti, altri profitti, se volete gli interventi previsti dall’Aia, se volete che l’azienda metta soldi.
Riva con la serrata di fine novembre è riuscito nel suo intento: dare un forte segnale/richiamo al governo per imporre il suo diktat a difesa della libertà di produrre; ottenere la fine di fatto del sequestro degli impianti (che comunque finora non gli aveva impedito di produrre), e la vanificazione dell’azione della magistratura; lanciare ora con il decreto salva-Ilva un messaggio rassicurante verso le imprese committenti; non mettere soldi già incassati negli anni passati per la messa a norma.
Il decreto, a premessa, parla di presa d’atto della disponibilità dell’Ilva e del piano operativo presentato in attuazione dell’Aia, ma nulla dice sul fatto che questo piano dell’Ilva anche in termini di soldi è assolutamente inadeguato. Dare copertura di legge ad una politica padronale che lega i soldi della messa a norma alla nuova produzione e a nuovi utili, vuol dire stare sempre sotto ricatto, senza alcuna certezza di interventi e tempi di bonifica; ogni problema di mercato, ogni momentanea riduzione dei profitti, potrà essere usata da Riva per procrastinare gli interventi di messa a norma.
Il decreto, inoltre, sorvola bellamente sul fatto che vi è un'inchiesta parallela sulla corruzione che ha accompagnato l'attività di inquinamento dell'Ilva. Chi ha già violato, chi ha fatto azioni criminose, e ne ha goduto in termini anche economici in questi anni, deve pagare! Ma con Riva, il governo invece di perseguirlo lo premia; è come se ad un ladro che deve restituire ciò che ha rubato, gli si consenta di continuare a rubare per fare i soldi necessari alla restituzione del malloppo.
Gli operai il 27 novembre quando hanno occupato lo stabilimento e invaso la direzione aziendale, con i dirigenti di Fim, Fiom e Uilm che stavano dentro e non con gli operai, gli operai del Mof con il lungo sciopero e presidio, isolati e contrastati dai sindacati confederali, gli operai degli altri reparti che hanno scioperato al fianco dei loro compagni rischiando il posto di lavoro, hanno nei fatti posto una parola decisiva a questa situazione, sia pur ancora tutta da consolidare:
- la lotta per difendere il lavoro, salute, sicurezza, la fanno gli operai autorganizzati e mobilitati fuori e contro i sindacati confederali - autorganizzazione che oggi all'Ilva attraversa vari percorsi ma che, come si batte lo slai cobas per il sindacato di classe, deve unirsi e costruire il sindacato di classe; - la lotta per salute e lavoro a Taranto si può fare solo con gli operai contro Riva e lo Stato dei padroni;
- questa lotta all’Ilva non può essere “normale”ma può e deve anche ora assumere i caratteri di rivolta, della ribellione continua al lavoro forzato e insicuro.
Hanno anche posto in embrione, gridando: “I padroni della fabbrica siamo noi”, la questione storica e strategica che “il potere deve essere operaio”. Ma questo nei fatti dice che non ci può essere una vera compatibilità tra lavoro salariato e salute/ambiente senza rovesciare il sistema capitalista e che serve un potere operaio, per il quale, però, non bastano slogan e speranze illusorie di qualche benpensante, ma occorre opporre alla guerra dei padroni e del loro Stato la guerra di classe, la rivoluzione proletaria per abbattere il potere dei padroni.
Calderita
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