Per tutti questi anni Franca Caliolo, moglie
dell'operaio, ha condotto una
dura battaglia per raccontare la vicenda, mobilitare le
coscienze, ha
partecipato prima alla fondazione dell'associazione 12
giugno familiari
vittime del lavoro dell'Ilva
in seguito, ha contribuito ed è stata protagonista della
fondazione della
rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro, la
quale ha organizzato
diversi eventi per fare di questa morte una battaglia
per la vita degli
operai contro i profitti del capitale e di padron Riva,
compreso una
riuscita manifestazione nazionale a Taranto il 18 aprile
2009.
In questa occasione pubblichiamo ancora una volta, il
racconto di Franca
Caliolo, che rendono ben viva questa morte e un grido di
rabbia e ribellione
contro il capitale che uccide
rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro
sede di Taranto
347-1102638
La svolta di Francesca Caliolo
Il giorno in cui misi piede per la prima volta come
operaio nel cantiere
Ilva di Taranto, fui preso dallo sconforto, come mai mi
era accaduto nella
mia lunga esperienza lavorativa. Difficile arrivare alla
fine di quella
giornata.
Trovare quel lavoro non era stato facile: dopo mesi di
mobilità e decine di
domande inoltrate a ditte del settore, un contratto a
due mesi mi aveva dato
respiro. Conoscevo già il cantiere per averci lavorato
in trasferta qualche
anno prima.
Quella sensazione che avevo ora però, era di definitiva
appartenenza a quel
luogo e questo mi infondeva pessimismo per il futuro.
Dovevo avere un'espressione molto avvilita se, tornato a
casa, mia moglie mi
abbracciò forte dicendosi sicura che presto avrei
trovato qualcosa di
meglio.
Invece restai in quella ditta per due anni, passai in
un'altra come
caposquadra per altri due, per poi tornare alla prima
divenendo
vice-capocantiere circa tre anni dopo. Questo scatto di
livello mi
gratificò, gravandomi al tempo stesso di una grande
responsabilità a causa
di lavori molto impegnativi che eravamo chiamati a fare.
Ciò che restava immutato era il paesaggio.
Contro un cielo velato dai fumi, si stagliavano bizzarre
architetture: come
cattedrali futuriste consacrate alla grande economia,
svettavano numerose
ciminiere attorniate da condutture metalliche che
percorrevano in lungo e in
largo la città-cantiere, trasportando enormi quantità di
gas, per arrivare
ai potenti altiforni capaci di ridurre i metalli in lava
incandescente.
A fumi e vapori si aggiungeva il 'polverino'come lo
chiamavano qui, che si
sollevava dalle nere colline di carbone dei parchi
minerali, in una sorta di
moderna rivisitazione dell'Inferno dantesco. Di tanto in
tanto,
paradossalmente,il tutto era avvolto dalle note
dell'"Inno alla gioia" di
Beethoven, diffuse dagli altoparlanti per sottolineare
il momento culmine
della "colata". A questo scenario pian piano non ci feci
più caso se non per
il fatto che gradualmente contribuiva ad aggravare la
mia allergia.
La prima estate che affrontai in Ilva fu una delle più
calde in assoluto,
toccò i 40°e a noi toccò ristrutturare un altoforno
ancora caldo situato
vicino a un altro in funzione, a 1.800°. In seguito
bisognò revisionare dei
silos contenenti residui oleosi che impregnavano le
nostre tute rendendole
inutilizzabili; condutture buie e fuligginose che ci
rendevano
irriconoscibili come minatori a fine turno; strutture
poste ad altezze
irraggiungibili da chi non avesse una qualche capacità
funambolica.
Difficile raccontare questo stato di cose a chi non
conosceva
quell'ambiente.
E infatti non lo raccontavo. Non lo raccontavo ai
conoscenti, non lo
raccontavo ai parenti. Non lo raccontavo agli storici
amici insieme ai quali
avevo condiviso battaglie sociali: col tempo le nostre
vite erano cambiate,
dal punto di vista del lavoro però, la mia vita era
cambiata più delle loro.
Lavoratori per lo più"di concetto", li ritenevo teorici
idealisti, lontani
anni luce dal mondo cui accennavo loro con battute
ironiche.
Mia moglie era l'unica a conoscere nei dettagli la mia
realtà lavorativa.
Quasi ogni mattina mi chiamava per un rapido saluto che
mi rincuorava e poi,
una volta a casa, mi martellava di domande per conoscere
tutto della mia
giornata.
Benché restio a raccontare aspetti poco rassicuranti per
lei, mi ritrovavo
poi a farle un resoconto completo anche di dettagli
tecnici. Questo suo modo
di essermi vicina era parte integrante di una
condivisione totale della
nostra vita e aveva in effetti il potere di alleviare
tante giornate
difficili, così come mi aiutava il bellissimo, profondo
legame con i nostri
figli.
Ma anche al lavoro mi aiutavano i contatti umani. Ci
tenevo a stabilire
rapporti di amicizia prima che professionali; una
risata, una battuta,
qualche aneddoto ci faceva superare le giornate più
pesanti. Avevo buoni
rapporti con tutti o quasi e avevo rispetto per i
superiori come per
l'ultimo
arrivato: in passato avevo subito troppe vessazioni solo
per essermi opposto
a delle ingiustizie da parte di capi tesi ad affermare
il proprio ruolo, per
non nutrire rispetto per chi avevo di fronte. Oltretutto
lavoravo quasi
sempre al fianco dei miei operai per condividere rischi
e fatica.
Era nel periodo delle"fermate", vale a dire il blocco
produttivo di un
settore del cantiere che permetteva a noi di
intervenire, che divenivo duro
ed esigente, preoccupato che tutto andasse per il
meglio.
Ad ogni modo, odiavo quel lavoro. Non lo lasciavo perché
volevo mettere un po' di risparmi da parte per avviare una attività
indipendente, magari nella
ristorazione. Cosa non facile con una famiglia
monoreddito e due figli in
crescita. D'altro canto, per quanto ancora avrei potuto
svolgere un lavoro
così usurante con due vertebre schiacciate,un menisco
lesionato e una
tendinite al braccio destro? E comunque sognavo un
lavoro che mi lasciasse
più tempo per vivere insieme alla mia famiglia e
programmare finalmente
delle ferie in estate, seguire il calcio, la politica,
fare passeggiate
senza sentirmi stanco e stressato.
E se la stanchezza era dovuta alla manualità del lavoro,
lo stress derivava
dal carico di responsabilità per l'esecuzione tecnica
secondo precisi
parametri e tempi sempre troppo limitati, dettati da
gare al ribasso, che ci
imponevano turni impossibili, arrivando a volte a
lavorare per 16 e
addirittura 24 ore di seguito! Nel contempo bisognava
fare attenzione che
nessuno si facesse male e, a dire il vero, la frequenza
degli incidenti in
tutta l'Ilva non lasciava ben sperare.
A fine giornata pareva un bollettino di guerra, con
incidenti di tutti i
tipi: ustioni, intossicazioni, fratture e, qualche volta
si moriva anche. Le
morti ci lasciavano attoniti a pensare all'esagerato
tributo da pagare in
cambio di un lavoro di per sé duro e alienante. Eroi,
martiri del lavoro?
Nessuna medaglia, non funerali di stato.
E credo che nessuno di quegli uomini avesse voglia di
immolarsi a un dio che
chiedeva sacrifici in nome di interessi economici e non
si prodigava ad
attuare migliori misure di sicurezza, definendo"morti
fisiologiche" quelle
2-3 che in media si verificavano per anno in un cantiere
dove operavano
circa 20.000 persone.
Ci sentivamo impotenti, rassegnate formiche al cospetto
di un colosso;
protestavamo e poi, dovendo continuare a lavorare,
cercavamo di scongiurare
la morte cercando di non pensarci.
D'altronde nella nostra ditta non era mai morto nessuno.
Sono passati ormai quasi nove anni dal mio ingresso in
Ilva e sono ancora
qui, alle prese con un'ennesima"fermata"che si presenta
particolarmente
complicata e che mi ha caricato di tensione già da
qualche settimana.
Neppure questa pausa pasquale è servita a ricaricarmi,
neppure la giornata
di ieri passata in campagna respirando aria pura, cosa
non comune per me.
Ho avuto da ridire con mia moglie anche prima di andare
a dormire, col
pretesto che non aveva sistemato bene la piega del
lenzuolo. Lei ci è
rimasta male perché era stanca, ma io ero nervoso e
intrattabile e non ci
siamo neppure dati la buonanotte. Più tardi appena avrò
un po' di tempo la
chiamerò per scusarmi, tanto ormai lo sa che se non
termina la fermata non
torno sereno.
E questo lavoro ci dà già delle noie, un'operazione che
non va per il verso
giusto, ci tocca smontare e rimontare.
Siamo a venti metri da terra per sostituire delle
valvole di un enorme tubo
che è stato svuotato, così ci hanno assicurato, del gas
che trasportava.
Indossiamo maschere collegate a bombole d'aria perché
potrebbero esserci
residui di gas, non è la prima volta che torno a casa
con nausea e mal di
testa da scoppiare.
E infatti verso le dieci ho soccorso un ragazzo che si è
sentito male.
Questo gas è inodore e insapore, perciò più insidioso;
un paio di noi hanno
il rilevatore ma ormai è certo che da qualche parte c'è
una perdita,
comincio ad avere mal di testa.
Comunque noi siamo abituati ad operare così, né la ditta
né l'Ilva si
possono permettere di bloccare i lavori ogni volta che
qualcosa non va, non
gli conviene. A noi scegliere poi se ci conviene
rischiare o non lavorare
più.
Meno male almeno che i turni ora sono regolari, in fondo
non è la prima
volta che respiro questo maledetto gas, mi dà
nausea,vertigini, mal di
testa, ma una volta a casa mi riprendo, devo resistere
fino ad allora.
Intanto il cellulare continua a squillare, sono quelli
dell'altra squadra ed
io per rispondere e richiamarli devo togliere la
maschera, non posso ogni
volta scavalcare questo tubo che ha 3m di diametro per
raggiungere la
postazione di sicurezza, perderei troppo tempo. Anche la
scala di accesso è
dall'altra parte, così mi allontano del massimo che mi è
consentito.
Stiamo lavorando come forsennati, vorrei che Gabriele
fosse qui e ci
vedesse, capirebbe perché insisto tanto sul fatto che
studi; ultimamente
sono stato anche un po'duro con lui, ma non vorrei mai
che si trovasse
costretto un giorno a fare questo.
Ora non ce la faccio proprio più, mi sento mancare le
forze.
Mi allontano verso l'ufficio, vorrei chiamare Franca ma
si accorgerebbe che
qualcosa non va, non voglio preoccuparla.
Nella mente mi scorrono delle immagini, mi rivedo
ragazzino a bottega dal
fabbro, durante le vacanze estive, mentre i miei amici
giocano nel cortile
dell'oratorio vicino. Ma io ho perso mio padre a nove
mesi e son dovuto
crescere in fretta. Mia madre, contadina, ha dovuto
tirare su cinque figli
da sola.
Con un diploma professionale, non ho trovato di meglio
da fare che il
muratore, stringendo i denti per la fatica eccessiva per
un fisico esile
come il mio. Qualche anno dopo sono diventato un bravo
venditore di
macchinari per falegnameria, con i cui proventi ho
potuto costruire la mia
casa.
Dopo nove anni il mercato ristagna, torno così alla
condizione di operaio
stavolta metalmeccanico, nel Petrolchimico di Brindisi.
Dopo altri nove anni
la ditta ci impone la condizione di trasferisti; non ce
la faccio ad
allontanarmi dalla mia famiglia e rifiuto, ritrovandomi
così in mobilità.
Fino ad oggi ho trascorso quasi nove anni qui in Ilva e
chissà, forse la mia
vita avrà una nuova svolta.
Non cerco di dare un senso a questa mia vita di fatica e
sacrifici. Il senso
è già tutto negli affetti. D'altronde la felicità non è
una condizione
continua, se non nelle fiabe. Noi dobbiamo accontentarci
delle piccole cose
e vivere intensamente i momenti di felicità che ci
capitano, come dice mia
moglie, che sa restituirmi la gioia di vivere. Ora devo
tornare al lavoro,
non mi sento ancora bene.
Qualcuno mi sconsiglia di risalire, non ho un
bell'aspetto, dice.
Non posso, siamo una squadra e io ne sono anche
responsabile. Infatti i
problemi non sono ancora risolti; insistiamo,
ricominciano le telefonate.
Cambia il turno, mi sollecitano a lasciare ad altri il
completamento del
lavoro. Non posso, ci sono quasi riuscito, è un lavoro
pericoloso, meglio
completarlo.
Stasera a casa voglio abbracciare Franca,Gabriele e
Roberta, dire loro
quanto li amo, proporgli di fare una crociera, è tanto
che ci penso e poi
voglio cambiare lavoro, non ce la faccio più, sono
stanco, stanco, così
stanco che all'improvviso ho voglia di dormire, mi si
chiudono gli occhi,
squilla il cellulare, dormo.
Amore mio, è passato un anno da quando non ci sei più.
Quante volte mi sono
chiesta se non sentivi lo squillo della mia chiamata, se
proprio in quel
momento cadevi, se pensavi a noi.
Di quel giorno posso ricordare tutto, posso anche
rivivere lo straziante
dolore di una realtà dura da accettare, così dura da far
crescere in un
attimo i nostri ragazzi, proiettati improvvisamente
davanti alla morte,
quella del loro adorato papà.
Voglio credere che quel giorno il Signore ti abbia fatto
cadere tra le sue
braccia, per portarti a vivere una felicità mai provata
prima.
Voglio credere che tu sia qui tra noi, che continui a
proteggerci col tuo
amore e la tua tenerezza.
Dev'essere così, altrimenti non saprei spiegarmi perché
continuo ad amarti
tanto e ad avere la forza di vivere senza di te.
Franca Caliolo
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