martedì 12 novembre 2019

Speciale ArcelorMittal - 1 - Apparenza e sostanza nella visita di Conte alla AM e a Taranto

Tarantocontro da oggi dà vita a uno SPECIALE on-line sull'ArcelorMittal/Ilva - Taranto
con l'obiettivo di orientare, organizzare, mobilitare operai e masse popolari su posizioni di classe contro Padroni/Governo e Stato dei padroni/sindacati confederali e sindacalisti non confederali pro chiusura della fabbrica/ambientalismo piccolo borghese, per affermare sul campo l'autonomia operaia/la lotta di classe/ l'anticapitalismo e la conseguente piattaforma alternativa di operai e masse popolari che si basi su questi presupposti.


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ArcelorMittal Taranto
  
Apparenza e sostanza

Tutti gli avvenimenti meritano di essere decifrati. Chi li cavalca così come appaiono deforma la realtà, nasconde la natura reale del conflitto e obiettivamente contribuisce alla “tempesta perfetta fase 2”.
Cominciamo dalla giornata del 8 novembre. È cominciata presto innanzitutto, e non alle 17 del pomeriggio davanti ai riflettori delle televisioni, quando è arrivato il Presidente Conte.
E’ cominciata alle 4,30 del mattino – per usare le parole di uno dei delegati dell’appalto - quando vi era lo sciopero indetto inizialmente solo da Uilm e Fiom, a cui si era aggregata poi la Fim che aveva fatto un proprio sciopero il giorno 6 novembre di netto stampo aziendalista, per difendere capi e quadri dall’eliminazione dello scudo penale.
Mentre all’appalto i delegati bloccano i cancelli, alzandosi appunto presto e ponendo quindi in condizione i lavoratori di poter scioperare massicciamente e di riempire con migliaia di operai il piazzale della portineria imprese, i delegati dell’ArcelorMittal sono “rimasti a casa”, lasciando i cancelli liberi e non svolgendo alcun ruolo per la partecipazione allo sciopero né prima, né durante. E lo avevano fatto apposta, nessuno lo nasconde, sulla base di una linea esplicitata, quelli della Fim perché “avevano già dato”, quelli della Uilm e della Fiom perchè avevano teorizzato lo “sciopero silenzioso”, affidato alla buona volontà di ogni singolo operaio. Per chiunque conosce minimamente le fabbriche e gli operai sa bene che fare così significa solo contribuire all’indebolimento dello sciopero.
Un velo pietoso va steso su l’Usb che alle recenti roboanti dichiarazioni su nazionalizzazione o chiusura ha fatto seguire una scomparsa dalla scena, che poi di fatto è uno stare allineato e coperto dietro la posizione di governo/M5S e Istituzioni locali e regionali.
Spuntare l’arma dello sciopero ai lavoratori è quello che voleva ArcelorMittal innanzitutto.
Operai silenti in attesa e ambientalismo strillante è la miscela che produce “tutto il potere” ai padroni, “tutto il potere” ai loro governi.
Altra realtà c’era nella postazione di migliaia di operai delle Ditte dell’appalto, certo prime vittime dell’azione di ArcelorMittal, che con la loro presenza massiccia in qualche misura ponevano con forza la loro opposizione ai licenziamenti, cassintegrazione che già i padroni di alcune ditte hanno annunciato come immediati.
Cancellare la classe operaia e le sue lotte, assediarla e ricattarla come fanno i padroni è non certo mettere fine all’orrore senza fine delle morti sul lavoro e da inquinamento, ma significa voler cancellare l’arma fondamentale del cambiamento, che solo la lotta di classe e di massa, che solo l’autonomia operaia può realizzare e che oggi deve significare battersi sulla base di una piattaforma che raccolga effettivamente le rivendicazioni degli operai e delle masse dei quartieri inquinati, come quella proposta dallo Slai cobas per il sindacato di classe ben prima della grave crisi di questi giorni.
Ma la miscela perversa della difensiva operaia, della delega alla cosiddetta politica e al governo, che aveva già prodotto il voto ai 5stelle, del sindacalismo complice o confuso dell’Usb - passato dalla nazionalizzazione dei primi giorni alla firma dell’accordo del 6 settembre 2018, alla posizione della chiusura della fabbrica; a cui si aggiunge l’assedio dell’ambientalismo della “chiusura della fabbrica”, amplificato dai mezzi di comunicazione che praticano la TV del dolore a corrente alternata; tutto questo rende difficile l’affermarsi delle posizioni di classe in fabbrica e in città.
Il resto chiaramente lo ha fa comunque la crisi mondiale dell’acciaio che i padroni, che ne sono i responsabili, scaricano sulla pelle dei lavoratori sotto ogni latitudine.
Boccia presidente della Confindustria dà voce a questi padroni, non addolcendo assolutamente le cose: “Se c’è una crisi non si può pretendere che le imprese mantengano i livelli di occupazione; bisogna che il governo gestisca questa fase. Come? Cassintegrazione (o peggio) per i lavoratori, sostegno alle imprese con misure precise assecondando il ciclo”. In concreto, difendere i profitti dei capitalisti, e permettere loro di licenziare.
E se il governo ‘vorrebbe ma ancora non può’ e c’è divisione al suo interno, fuori dal governo Salvini, col suo compagno di merende Renzi/Bellanova, dice Sì, sbrighiamoci...
La venuta del presidente Conte, in nome di un populismo buono, all’”avvocato del popolo”, ha in qualche maniera amplificato l’apparenza delle cose, tra i 200 di area ambientalista e le loro mille buone ragioni nella denuncia dell’Ilva di Riva e ora di ArcelorMittal, e i 200 delegati rinchiusi nel consiglio di fabbrica.
Le cronache e le immagini dei due incontri – tumultuoso quello alla portineria, obiettivamente plaudente dentro il consiglio di fabbrica – non hanno certo portato le esigenze della classe e delle masse, ma hanno confermato la delega al governo; al governo della borghesia gestito da rappresentanti della piccola borghesia, alla ricerca di un’impossibile conciliazione tra interessi delle masse – che per loro sono interessi elettorali – e le ragioni dei padroni dell’acciaio e dei padroni nel loro insieme.
Gli operai attaccati da Mittal e dai padroni in generale, dal governo, si trovano schiacciati tra due cappe.
Da un lato l’ambientalismo antioperaio, diretto ed egemonizzato dalla piccola borghesia, benchè al suo interno vi siano sia donne, giovani del popolo, dei quartieri più inquinati ma anche più disastrati in termini di disoccupazione, sanità, scuole, ecc., sia qualche operaio ex Ilva, lavoratori che ragionano come il piccolo borghese o come il sottoproletario; dall’altro l’aristocrazia operaia, ben rappresentata dai sindacati confederali in ogni stabilimento Ilva, ma quasi da manuale, in tutte e in ogni caratteristica, dalla Fiom di Genova.
Nel primo caso sembra quasi di assistere a un “teatro” già visto nella storia della lotta di classe: la piccola borghesia strilla, impone sulla scena i suoi tempi e modi di protesta, impone le sue sole ragioni, i suoi obiettivi illusori e perdenti, contrapponendoli a quelli degli operai, che non si nominano o vengono giudicati col criterio se stanno dalla sua parte o meno, e chi non si fa “pentito” di aver lavorato in quella fabbrica, si trova accusato, pressato, offeso.
La seconda cappa pestifera, l’aristocrazia operaia, sfodera tutto il suo corporativismo. Emblematiche sono le dichiarazioni di Genova: alla fine, Genova può anche staccarsi dalla sorte di Taranto, può continuare a produrre facendo arrivare l’acciaio da lavorare da altri siti di ArcelorMittal; che 15mila operai possano andare in malora non gli interessa (chiaramente l’aristocrazia operaia è cieca e si illude – senza la forza del numero degli operai di Taranto, sarebbe una vittoria di Pirro, momentanea). Oggi questi lavoratori sono i migliori rappresentanti dell’aziendalismo; tutte le denunce sono contro il governo che non ha dato quello che la Mittal chiedeva, in primis l’immunità penale. Chiaramente le dichiarazioni dei rappresentanti di Genova, le forme di lotta usate in passato, influenzano parte degli operai di Taranto, perchè guardano all’apparenza e non alla sostanza che è: “mors tua vita mea”.
Il risultato di questo scenario è che gli operai senza autonomia e organizzazione di classe si mettono sulla difensiva, sono preoccupati ma sfiduciati attendono di vedere cosa farà il governo. E così perdono comunque.
Lo sciopero degli operai, il presidio permanente della fabbrica, una forza operaia che invade la città e raccolga le larghe masse è l’opposto ed è l’unica sostanza che può cambiare le cose e ripristinare la vera contraddizione che è quella tra capitale e operai, che mette in luce i veri interessi inconciliabili che non sono quelli tra la difesa del lavoro degli operai e la salute dei cittadini, ma quelli tra profitto dei padroni e lavoro, salario, salute diritti di operai e masse popolari.

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