giovedì 25 giugno 2015

GIOVEDI' ROSSI: LA GIORNATA LAVORATIVA

La produzione del plusvalore assoluto. Le lotte della classe operaia per la conquista della giornata lavorativa ridotta

Svariati sono i metodi con cui i capitalisti elevano il grado di sfruttamento degli operai, che in sintesi però riguardano tutti invariabilmente la produzione di plusvalore assoluto o quella di plusvalore relativo. Esamineremo prima la produzione di plusvalore assoluto.
L’unica fonte del plusvalore è il lavoro non pagato dell’operaio salariato. Per ottenere plusvalore, il capitalista è obbligato a protrarre il tempo di lavoro dell’operaio oltre il tempo di lavoro necessario. Solo in questo modo l’operaio può creare plusvalore per il capitalista, nel periodo di pluslavoro. In regime capitalistico dunque, la giornata lavorativa dell’operaio è sempre composta di due parti, il tempo di lavoro necessario e il tempo di pluslavoro.


Supponiamo ora che il capitalista acquisti al suo valore forza-lavoro e che per poter produrre il valore di mezzi di sussistenza necessari all’operaio per un giorno occorrono 6 ore di lavoro, per cui il tempo di lavoro necessario è uguale a 6 ore. Se la durata della giornata lavorativa è di 12 ore, la divisione fra tempo di lavoro necessario e tempo di pluslavoro potrà essere espressa con la seguente tabella:

0                                  6 ore                            12 ore
I__________________I__________________I
   tempo di lavoro                       tempo
      necessario                         di pluslavoro
Qui il tempo di pluslavoro = 12 ore – 6 ore = 6 ore;
                                   
                                                6 ore di “tempo di pluslavoro”
il saggio del plusvalore = ------------------------------------------------ =100%
                                                6 ore di “tempo di lavoro necessario”
Se su questa base si prolungasse di 3 ore la giornata lavorativa, cioè si protraesse fino a 15 ore, il tempo di pluslavoro e il saggio del plusvalore varierebbero come segue:

0                                  6 ore                            12 ore              15 ore
I__________________I__________________I___________I
             tempo                                         tempo
   di lavoro necessario                         di pluslavoro
qui il tempo di pluslavoro = 15 ore – 6 ore = 9 ore;

                                                9 ore di “tempo di pluslavoro”
il saggio del plusvalore = ------------------------------------------------ =150%
                                                6 ore di “tempo di lavoro necessario”

Risulta evidente che in una situazione in cui il tempo di lavoro necessario è dato, il grado di sfruttamento capitalistico dell'operaio si innalza in seguito al prolungamento assoluto della giornata lavorativa. Al prolungamento della giornata lavorativa corrisponde quello del tempo di pluslavoro, dunque l’innalzamento del saggio del plusvalore e l’aumento della quantità di plusvalore. Marx chiama plusvalore assoluto questo plusvalore prodotto dal prolungamento assoluto della giornata lavorativa.

Per far produrre all’operaio più plusvalore il capitalista, oltre quello di prolungare la giornata lavorativa, può anche usare il metodo di aumentare l’intensità del lavoro dell’operaio. Aumentare l’intensità del lavoro significa forzare l’operaio a lavorare più intensamente, fargli consumare più energia cerebrale e fisica di prima in un tempo di lavoro della medesima durata; non vi sono sostanziali differenze con il prolungamento della giornata lavorativa, quindi, dal punto di vista delle singole imprese, il plusvalore prodotto dell’aumento dell’intensità del lavoro è ugualmente plusvalore assoluto. Per comodità d’esposizione, nella nostra seguente analisi della produzione di plusvalore assoluto tratteremo solo il metodo del prolungamento della giornata lavorativa e non più quello dell’aumento dell’intensità del lavoro.

Poiché il grado di sfruttamento dell’operaio dipende dalla durata della giornata lavorativa, nella produzione di plusvalore assoluto il capitalista la prolunga il più possibile per impadronirsi di maggior plusvalore. Ma esiste un limite alla durata della giornata lavorativa oppure no?
In regime capitalistico non occorre fissare il limite inferiore della giornata lavorativa. Forse qualcuno riterrà che quella parte che l’operaio usa per produrre il valore della forza-lavoro, il tempo di lavoro necessario, rappresenti il limite inferiore della giornata lavorativa: è un errore. Il tempo di lavoro necessario dell’operaio, determinato dalla natura della produzione capitalistica, può essere solo una parte della giornata lavorativa, ma non tutta quanta, poiché altrimenti il capitalista non avrebbe modo di ottenere plusvalore e il capitalismo non sarebbe più quello che è. Perciò, in regime capitalistico, la giornata lavorativa non potrà in nessun caso ridursi fino a una misura equivalente al tempo di lavoro necessario dell’operaio, ma deve prolungarsi oltre questo limite.

C’è però un limite al prolungamento della giornata lavorativa, cioè il limite massimo della giornata lavorativa, che è determinato dai seguenti due fattori: primo, il fattore fisiologico. In un giorno e una notte di 24 ore, l’operaio deve avere una parte di tempo per mangiare, dormire ecc., per soddisfare le necessità fisiologiche, altrimenti non potrebbe ricostituire le capacità lavorative né continuare a lavorare per il capitalista. Secondo, il fattore morale e sociale. Nella giornata, oltre che a lavorare, a mangiare e dormire, l’operaio deve avere anche un certo tempo per leggere il giornale, divertirsi, badare ai figli, partecipare alle attività sociali ecc., in un ambito e in una quantità necessari che sono determinati dallo stato dello sviluppo economico e culturale di un determinato paese. Il limite massimo della giornata lavorativa costituito dai due suddetti fattori determina l’impossibilità per la giornata lavorativa di coincidere con la durata naturale di un giorno e una notte, cioè 24 ore. Ma poiché questi due fattori sono variabili, il limite massimo della giornata lavorativa è dotato di una grande elasticità. Questo spiega come molte siano anche le possibilità per il capitalista di prolungare sensibilmente la giornata lavorativa oltre il tempo di lavoro necessario.

Per sua stessa natura, il capitalista vuole sempre prolungare al massimo la giornata lavorativa: egli non si cura affatto della salute e della longevità dell’operaio salariato; l’unica cosa che gli sta a cuore è spremere dall’operaio quanto più plusvalore è possibile. Marx mette in rilievo che “il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici”.

Per prolungare la giornata lavorativa, il capitalista può spostare le leggi dello scambio di merci e farsene una “base” per dire che anch’egli, al pari degli altri compratori di merci, ha il diritto di consumare completamente il valore d’uso delle merci che ha acquistato; poiché ha accettato al suo valore un giorno di forza-lavoro dell’operaio, ha di conseguenza il diritto di utilizzarla completamente per un giorno. Però, sulla base della stessa legge, anche l’operaio ha tutte le ragioni per contrastare il prolungamento eccessivo della giornata lavorativa da parte del capitalista e per esigere di lavorare per la sua durata normale. Poiché la forza-lavoro risiede nel corpo stesso dell’operaio, la possibilità di venderla senza interruzione dipende dalla sua salute. Se il capitalista prolunga eccessivamente la giornata lavorativa, può rovinare la salute dell’operaio e di conseguenza accorciare il periodo in cui l’operaio può vendere forza-lavoro. Se in condizioni di durata normale della giornata lavorativa, l’operaio può avere una capacità lavorativa di 30 anni, il valore giornaliero della sua forza-lavoro deve essere in tale periodo – 1/365x30 del valore totale della forza-lavoro, cioè 1/10950. Ma a causa di un prolungamento eccessivo della giornata lavorativa, si arriva al punto che in 20 anni l’operaio vende 30 anni di forza-lavoro, cioè in media al giorno più di ½. Naturalmente, il capitalista viola le leggi dello scambio di merci quando acquista una giornata e mezzo di forza-lavoro con il valore di una giornata di forza-lavoro; sulla base di tale legge l’operaio ha il diritto di opporsi al prolungamento eccessivo della giornata lavorativa da parte del capitalista.

Sulla base dunque della legge dello scambio di merci e dei diritti del compratore (il capitalista) e del venditore (l’operaio) che ne derivano, non è assolutamente possibile fissare la lunghezza effettiva della giornata lavorativa. Sulla base di tale legge e dei diritti da essa prodotti, il capitalista vuol prolungare al massimo la giornata lavorativa, mentre l’operaio da parte sua si  oppone al prolungamento eccessivo della giornata lavorativa. Proprio come dice Marx, qui ha luogo “un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci”. Ma allora da che cosa è fissata, in regime capitalistico, la durata effettiva della giornata lavorativa? Essa è determinata dai rapporti di forza tra le classi. Quando le forze della borghesia sono ancora potenti mentre il proletariato non ha la forza di opporsi, questo sarà costretto ad accettare una giornata lavorativa più lunga; viceversa, quando le forze del proletariato si sono ormai irrobustite e hanno ingaggiato una lotta accesa con la borghesia, questa a sua volta sarà costretta ad assecondare la richiesta del proletariato di accorciare la giornata lavorativa. La storia dello sviluppo capitalistico dimostra che la situazione generale dei cambiamenti della giornata lavorativa è esattamente questa.
Ne Il Capitale, facendo l’esempio dell’Inghilterra, Marx mise in luce con una gran quantità di fatti il crimine capitalistico di prolungare la giornata lavorativa senza curarsi delle conseguenze e di distruggere la salute fisica e mentale dell’operaio. Prima della rivoluzione industriale, poiché le tecniche produttive si basavano sul lavoro artigiano, per aumentare su vasta scala la produzione, bisognava basarsi soprattutto sull’aumento della quantità di lavoro. Il prolungamento della giornata lavorativa divenne, per quel tempo, il metodo fondamentale col quale i capitalisti elevavano il grado dello sfruttamento. Ma allora la borghesia si trovava ancora nel periodo della formazione, e “assicurava il suo diritto di assorbire una quantità sufficiente di pluslavoro non ancora mediante la pura e semplice forza dei rapporti economici, ma anche con l’ausilio del potere dello Stato”.

Perciò la caratteristica di tale periodo è il prolungamento coatto della giornata lavorativa attuato dalla borghesia tramite l’attività legislativa dello Stato. Per esempio, nel lasso di tempo compreso fra il XIV secolo e la metà del XVIII secolo, il governo inglese promulgò i più svariati decreti sul lavoro obbligando gli operai a prolungare la giornata lavorativa. La situazione mutò solo dopo la rivoluzione industriale. Il capitalista fece affidamento unicamente sulla potenza prodotta dalle grandi macchine e prolungò la giornata lavorativa in termini senza precedenti. Nel periodo che va dagli ultimi trent’anni del XVIII secolo alla prima metà del XIX secolo, la giornata lavorativa durò 12, 14, 16 ore e talvolta superò le 18 ore, e anche il numero delle donne e dei bambini in fabbrica fu eccezionale.
Il capitalista, oltre a prolungare apertamente la giornata lavorativa, aumenta anche il tempo di lavoro degli operai con ogni sorta di espedienti occulti. Per esempio, egli anticipa di qualche minuto il segnale orario che annunzia l’inizio del lavoro e ritarda di qualche minuto quello che ne annunzia la fine; inoltre, al termine del lavoro, fa ripulire agli operai il posto di lavoro, pulire il macchinario ecc. Così anche se la giornata lavorativa, nominalmente, non cambia, viene effettivamente prolungata. Se facciamo la somma dei tempi, apparentemente trascurabili, rubati ogni giorno, vediamo che con il sistema del “furto del lavoro” in un anno si possono raggiungere cifre molto considerevoli.
Facendo i conti sulla base di un caso concreto, un capitalista con questo sistema poté far fare agli operai nel corso dei dodici mesi dell’anno tredici mesi di lavoro.

L’eccessivo prolungamento della giornata lavorativa arrecò gravi conseguenze alla classe operaia. Per l’eccessivo affaticamento, gli operai ancor giovani invecchiavano precocemente e la durata della vita si accorciava; gli incidenti sul lavoro si ripetevano in continuazione provocando una massa di mutilati e di morti e in particolare la salute delle donne non era minimamente salvaguardata, la crescita dei giovani operai era gravemente messa a repentaglio. Tutto ciò insidiava l’esistenza stessa della classe operaia.
[…]
Perciò, proprio come ha messo in rilievo Marx, “con il prolungamento della giornata lavorativa la produzione capitalistica, che è essenzialmente produzione di plusvalore non produce soltanto il deperimento della forza-lavoro umana, che viene derubata delle sue condizioni normali di sviluppo e di attivazione, morali e fisiche; ma produce anche l’esaurimento e l’estinzione precoce della forza-lavoro stessa. Essa prolunga il tempo di produzione dell’operaio entro un termine dato, mediante l’accorciamento del tempo che questi ha da vivere.”
Per difendere il proprio diritto all’esistenza, la classe operaia iniziò una lotta accanita con la borghesia, s’oppose al prolungamento eccessivo della giornata lavorativa e conquistò la cosiddetta “giornata lavorativa standard” fissata per legge.

Le prime lotte della classe operaia per conquistare la riduzione della giornata lavorativa cominciarono in Inghilterra. Dall’inizio del XIX secolo in poi, la classe operaia inglese condusse una lotta durata oltre mezzo secolo, che costrinse il governo a promulgare alcune leggi di fabbrica, che limitarono successivamente la giornata lavorativa dei fanciulli, delle operaie e degli operai adulti a 12 e a 10 ore. Sull’esempio dell’Inghilterra, anche la classe operaia di tutti gli altri paesi capitalistici sviluppò in seguito una lotta per conquistare la riduzione della giornata lavorativa. Nel 1866, la classe operaia americana avanzò per la prima volta la richiesta della giornata lavorativa di 8 ore; in seguito, la Prima assemblea internazionale dei Rappresentanti di Ginevra lanciò, su proposta di Marx, la parola d’ordine di lotta per la conquista di un orario lavorativo di otto ore. Tale parola d’ordine, subito dopo essere stata lanciata, ottenne la fervida risposta della classe operaia di tutti i paesi, la quale sviluppò una lotta accanita con la borghesia per la conquista della giornata lavorativa di otto ore. Tuttavia, per la dura resistenza della borghesia, tale lotta a quei tempi non poté mai ottenere dei risultati immediati. Bisognò attendere fino alla conclusione della Prima guerra mondiale perché qualche paese capitalistico, a causa della pressione colossale e senza precedenti esercitata sulla borghesia dal movimento operaio rivoluzionario internazionale sviluppatosi vigorosamente, fosse costretto a realizzare un regime lavorativo di 8 ore.
Attualmente, il regime lavorativo di otto ore, sebbene sia ormai fissato per legge in numerosi paesi capitalisti, continua in pratica a essere ostacolato in tutti i modi dai capitalisti. In particolare, a causa del basso livello salariale, gli operai sono costretti a fare normalmente gli straordinari o un secondo lavoro, per procurarsi un poco di salario in più; nel codice vi sono inoltre articoli integrativi che permettono lo straordinario.
Perciò nei paesi capitalistici la giornata lavorativa di migliaia e migliaia di operai continua a superare le otto ore. In alcuni Stati e regioni dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, che non si sono sottratti alla dominazione coloniale, la giornata lavorativa è ancor oggi priva di un limite legale; in molti settori essa supera sempre le 12 ore e in taluni casi raggiunge le 20 ore. […]


Dal Trattato di economia politica di Xu He

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