lunedì 15 giugno 2015

Parliamo con riferimento al mobbing




Alla luce di una importante sentenza della Corte di Cassazione civile (n. 1037 del 2015) che, da un lato ha dato per acquisite alcune modalità per il riconoscimento del mobbing (anche sotto il profilo risarcitorio) e, dall’altro, ha stabilito che la responsabilità del datore di lavoro non viene meno quando a mettere in atto le azioni mobbizzanti siano stati colleghi di lavoro del mobbizzato.

Ma andiamo per gradi e rileggiamo cosa dice il 2087 c.c. (Tutela delle condizioni di lavoro): “ L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.".
Visto il quadro generale di riferimento,  vediamo ora cosa prevede nello specifico la sentenza della Cassazione civile, sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037. 
La Cassazione civile è intervenuta con la propria decisione  sulla legittimità della sentenza  emessa dalla Corte di Appello dell’Aquila che condannava in solido il Comune di Colonnella e C.E.G. a risarcire il danno alla salute e professionale in favore della dipendente D.M.A. quale conseguenza di un comportamento mobbizzante. 
Le risultanze istruttorie confermavano: “ la sottrazione delle mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all’altro, l’umiliazione di essere subordinati a quello che prima era un proprio sottoposto, l’assegnazione ad un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare, così rendendo ancor più cocente la propria umiliazione”.
Prosegue ancora la sentenza nel sottolineare che "Nel caso di specie si era riscontrata la presenza contestuale di tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing, per cui la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal Comune contro il risarcimento richiesto. "

Sette i parametri per l'accertamento del mobbing  individuati nel metodo per la valutazione e la quantificazione dello specifico danno  secondo il metodo inventato dallo psicopatologo Harald Ege che consente sia il riconoscimento (o meno) della presenza del mobbing, sia il calcolo del grado di lesione risarcibile riportata dal soggetto mobbizzato.  (H. Ege,  La valutazione peritale del danno da mobbing, Ed. Giuffrè, Milano, 2002).


Questi  i sette parametri considerati e la cui presenza deve essere contestuale:
1. L’ambiente lavorativo: il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro (meglio sarebbe parlare di occasione di lavoro ndr);
2. la frequenza (le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese);
3. la durata (i conflitti devono essere in corso da almeno 6 mesi);
4. il tipo di azioni (le azioni devono appartenere ad almeno 2 delle categorie del Lipt Hege, questionario elaborato del 1950 da H. Ege);
5. il dislivello tra antagonisti (la vittima deve trovarsi  in posizione costante di inferiorità);
6. l’andamento secondo fasi successive (la vicenda ha raggiunto almeno la II° fase del modello H. Ege);
7. l’intento persecutorio (nella vicenda deve essere riscontrabile un disegno vessatorio coerente e finalizzato… un obiettivo conflittuale… una carica emotiva e soggettiva…).

Con la stessa sentenza la Corte di Cassazione  ha affermato che "la circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all'art. 2049 cc, ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo".
Né secondo la Corte del merito "il Comune poteva essere scriminato dal danno arrecato alla lavoratrice giacché la circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all'art. 2049 c.c., ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo".  (Art. 2049 c.c.: “I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.).

Per questi motivi la Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi presentati con la conferma delle condanne inflitte dal giudice di merito e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. 

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