Secondo la Procura di Milano, Fabio Riva e gli altri quattro indagati avrebbero realizzato un sistema per ricevere indebitamente erogazioni pubbliche per un totale di 100 milioni di euro attraverso la legge Ossola, una norma che prevede un contributo alle società italiane che esportano e che devono fronteggiare forti dilazioni di pagamento da parte dei clienti esteri. I contributi sono erogati dalla Simest di Roma, società partecipata dalla Cassa depositi e prestiti.
L'Ilva di Taranto non avrebbe avuto i requisiti per accedere a questo tipo di contributi perché ha a che fare principalmente con Stati esteri o grandi aziende che pagano o alla consegna o al massimo con scadenze di 90 giorni. Per riuscire a ottenerli venivano quindi utilizzate le società svizzere Ilva Sa e Eufintrade, che venivano interposte tra l'Ilva di Taranto e i committenti esteri. In questo modo si faceva figurare che i pagamenti alla società italiana venivano effettuati da quelle elvetiche, che dilazionavano artificiosamente i versamenti nei tempi previsti per riuscire ad accedere ai contributi statali. Un meccanismo che avrebbe portato a realizzare una truffa da circa 100 milioni di euro.
Gli altri indagati, raggiunti da ordine di custodia cautelare, sono Agostino Alberti, dirigente di Riva Fire, Alfredo Lomonaco e Barbara Lomonaco di Ilva Sa (la società svizzera) e Adriana Lamsweerde di Eufintrade. Questa ultima società è quella attraverso la quale veniva effettuato il meccanismo che permetteva poi all'Ilva di ricevere i contributi pubblici a cui non avrebbe avuto diritto. Anche l'Ilva risulta indagata in base alla legge 231 del 2001 sulle responsabilità delle imprese.
Questo è il terzo filone dell'inchiesta aperta dai pm milanesi sulla famiglia Riva e sulla gestione del gruppo siderurgico. Nel maggio dello scorso anno, la procura di Milano aveva sequestrato 1,2 miliardi di euro (poi saliti a 1,9 con il sequestro di altri 700 milioni), accusando i fratelli Emilio e Adriano Riva di truffa aggravata ai danni dello Stato e di intestazione fittizia di beni. Secondo i magistrati, infatti, i soldi sarebbero il frutto di un'appropriazione indebita ai danni della Riva Fire.
A dicembre, infine, alcuni amministratori ed ex amministratori della Riva Fire, tra i quali lo stesso Emilio Riva, erano stati accusati di appropriazione indebita ai danni degli azionisti di minoranza dell'Ilva. Secondo i pm esisteva un sistema per prelevare dai 60 ai 100 milioni di euro all'anno dalle casse dell'Ilva. In sostanza, l'Ilva stipulava con Riva Fire alcuni contratti di servizio in base ai quali si impegnava a versare alla holding milanese l'1,3% del fatturato in caso di Mol positivo e lo 0,65% se in bilancio veniva registrato un Mol negativo. Il meccanismo consentiva di abbattere gli utili dell'Ilva e di conseguenza di diminuire i dividendi che la società tarantina versava ai suoi azionisti.
I magistrati milanesi indagano ormai a 360 gradi e starebbero sviluppando anche altri filoni d'indagine.
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