La sesta sezione penale della Cassazione ha reso note le motivazioni
con cui il 20 dicembre del 2013 ha ribaltato il provvedimento dei
giudici del Riesame di Taranto ed annullato il sequestro di beni e conti
di Riva Fire ed altre società del gruppo che gestisce l’Ilva di Taranto
per più di otto miliardi di euro, stabilito il 22 maggio del 2013 dal
gip Patrizia Todisco. Per i giudici della Suprema Corte quel sequestro
per equivalente, ai fini della confisca in caso di condanne definitive,
non si poteva fare. L’errore di fondo del provvedimento, secondo la
Cassazione, è quello di considerare profitto dei reati ambientali
contestati agli indagati (fra questi ci sono anche Riva Fire e Riva
Forni elettrici), il risparmio ottenuto evitando di aggiornare gli
impianti dal 1995 ad oggi. Nel caso del gruppo Riva, il gip ha ritenuto
profitto dei reati ambientali il mancato investimento sull’aggiornamento
degli impianti, prolungato negli anni, in danno di ambiente e salute di
cittadini ed operai. Per la Cassazione il denaro risparmiato da Ilva e
di conseguenza dalla holding che la controlla (Riva Fire) non solo non è
un profitto ma andava calcolato in maniera più precisa, tenendo
presente la data di commissione dei reati ed escludendo quelli
associativi precedenti al 2009 e quelli ambientali precedenti al 2011.
Solo nel 2011, infatti, col decreto 121, la responsabilità
amministrativa delle società è stata prevista anche per i reati
ambientali. Per spiegarlo, i giudici della Cassazione citano ad esempio i
reati fiscali.
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