lunedì 20 gennaio 2014

Corte d’Appello di Lecce "Quel tumore è causato dalla diossina dell’Ilva"


di FULVIO COLUCCI

TARANTO - L’operaio dell’Ilva combatte ancora la malattia, ma per lui, per la sua storia, parlano, ormai, solo le carte processuali. E una sentenza, che oggi dice finalmente una cosa: non solo il suo tumore è colpa dell’inquinamento, ma tra le sostanze-killer c’è la diossina. È la prima volta che la diossina - madre di tutte le battaglie ambientaliste - sale sul banco d’accusa senza troppi giri di parole: «Lo ritengo un dato importante perché il riconoscimento arriva con la sentenza dell’otto gennaio scorso da un organo «terzo» come la Corte d’Appello di Lecce rispetto a giudici, diciamo, più vicini geograficamente alle questioni ambientali, di salute e sicurezza» spiega il difensore dell’operaio, l’avvocato Massimiliano Del Vecchio.

Il lavoratore, brindisino, si è rivolto alla Fiom Cgil chiedendo il riconoscimento della malattia professionale e l’indennizzo all’Inail. Del Vecchio ha seguito la tormentata vicenda.Dopo una perizia medica, il tribunale di Brindisi, nella sentenza del processo di primo grado che risale all’ottobre 2009, non ha ritenuto decisivo il ruolo degli agenti inquinanti in fabbrica. Il «tumore desmoide retro peritoneale», cioè il sarcoma dei tessuti molli, che ha spezzato in due la vita del dipendente Ilva, presentatosi all’inizio come tumore del colon (adenocarcinoma del colon retto) era, per i giudici di Brindisi, «di origine genetica». Nessun diritto, quindi, al beneficio economico.

Lavorava nella zona dei forni a pozzo dello stabilimento siderurgico l’operaio che non si è arreso. Oggi, nelle note in cui si parla della sua condizione, della sua vicenda, dell’esito del processo d’appello a Lecce per ottenere il riconoscimento della malattia professionale, sembra quasi di vederlo combattere, corpo a corpo, con «le polveri di ossido di ferro, di silice cristallina, di amianto, Ipa (Idrocarburi policlici aromatici, ndr) e diossine». Il tumore lo ha colpito allo stomaco come una fucilata. Non si è arreso. L’operaio non si è mai arreso. Sapeva quanto lungo poteva essere il cammino per raggiungere il campo della giustizia. Lungo, anche molto lungo. E periglioso, ricco d’insidie.

«Abbiamo presentato ricorso alla Corte d’Appello di Lecce - ricorda l’avvocato Del Vecchio - insistendo sul fatto che la malattia del lavoratore non avesse un’origine genetica, ma industriale, derivante cioè dall’esposizione agli agenti inquinanti». L’operaio ha affrontato con coraggio un nuovo processo, sempre al tribunale di Brindisi, per un altro tumore: «Causa vinta - spiega Del Vecchio - e si trattava di un cancro polmonare».
Troppe le ferite inferte dalla trincea di fabbrica, ma l’operaio ha continuato a combattere. Ha affrontato una seconda perizia medica. Il consulente tecnico d’ufficio, nominato dalla Corte d’Appello di Lecce, è uno specialista in oncologia. Nella sentenza è scritto chiaramente che il medico: «Ha accertato essere la patologia neoplastica eziologicamente collegata all’attività lavorativa espletata presso lo stabilimento Ilva di Taranto». Il lavoratore, insomma, si è ammalato lavorando all’Ilva.

Diversi sono stati i punti chiariti dal consulente della Corte d’Appello: l’operaio ha svolto la sua attività in ambienti, i forni a pozzo, dove erano presenti numerosi agenti inquinanti; il tumore contratto può presentarsi come malattia legata a problemi genetici solo se l’ammalato ha sindromi quali la Fap (polipi nel colon) o la Sindrome di Gardner, ma il dipendente dell’Ilva non ne era affetto e quindi la patologia non poteva essere conseguenza di fattori genetici. Infine, ed è l’argomento più interessante, il perito oncologo si è soffermato sulla diossina.

Nella sentenza il punto è decisivo: la diossina, alla quale è stato esposto l’operaio «presenta potenzialità oncogenica (fa sorgere il tumore, ndr) come riconosciuto da tutti i consulenti tecnici nominati nel corso del giudizio».Non solo, ma «sulla base delle deduzioni precedenti» i giudici ritengono che sia provato come «l’attività lavorativa svolta dall’appellante ha esposto quest’ultimo all’azione di sostanze irritanti (in particolare la diossina definita scientificamente Tcdd, ndr) che hanno avuto un ruolo concausale nell’insorgenza e nella cronicizzazione della patologia denunciata » . «In particolare la diossina», come causa del tumore dell’operaio Ilva, è la svolta citata dall’avvocato Massimiliano Del Vecchio. Accolto l’appello, al lavoratore brindisino spetta «una rendita per danno biologico corrispondente al 30 per cento di invalidità permanente» secondo legge. L’Inail viene «condannata al pagamento delle prestazioni previdenziali».

«La sentenza - aggiunge l’avvocato Del Vecchio - va inanellata in una serie di giudizi sul riconoscimento di malattie professionali all’Ilva, dal tumore al polmone al tumore alla prostata, in cui è stato accertato che, le sostanze inquinanti hanno più fattori oncogenici, causano cioè più tumori negli operai. Per esempio, l’amianto provoca il tumore al polmone e il tumore alla prostata». «Tutto ciò è rilevante dal punto di vista del diritto e, ripeto, il fatto che sia riconosciuto un ruolo specifico alla diossina è decisivo. Qualche giorno fa - ricorda Del Vecchio - per un lavoratore dello stabilimento siderurgico morto a causa di un tumore, la Corte di Cassazione ha concesso alla vedova la rendita per il decesso, legandola alle emissioni inquinanti e non al fumo di sigaretta.
Ricordate la polemica sollevata dalle dichiarazioni di Bondi la scorsa estate? I giudici di Cassazione hanno stabilito che le sostanze cancerogene della fabbrica determinano i tumori e che il fumo delle sigarette può, al massimo, elevare un rischio già alto».

Gli operai dell’Ilva hanno, quindi, troppi nemici da fronteggiare nella trincea di fabbrica. La «plurioffensività» delle sostanze inquinanti, il loro poter generare più tumori, è come avere tanti fucili puntati contro in questa «guerra sporca». «Le fibre di amianto - spiega ancora l’avvo - cato Del Vecchio - sono così piccole da diventare vettori di altre sostanze pericolosissime come le polveri sottili. Non ci sono dosi minime di agenti inquinanti, non ci si può ritenere in nessun caso al riparo da conseguenze dannose per la salute. Più sono gli inquinanti e più la salute è a rischio». Ecco perché il pericolo continua a incombere in fabbrica e in città. A Taranto e non solo. Un destino comune, assurdo distinguere. Il responsabile nazionale dei problemi della salute e della sicurezza della Fiom, Maurizio Marcelli, commentando la sentenza, parla di «conclusione positiva» e di «strada da perseguire all’Ilva e in altri territori per tutelare i lavoratori con patologie di cui si può e si deve dimostrare la correlazione con l’attività in fabbrica». Mai arrendersi, l’operaio «ferito » dalla diossina nei forni a pozzo non lo ha fatto. Per lui ora parlano le «carte». Preziose testimoni di coraggio e verità.

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