Il mio primo intervento in fabbrica, allora c’erano ancora le commissioni ambiente dei CdF e la partecipazione era ‘libera’ fondata sull’impegno individuale in collegamento con i delegati, riguardò una postazione di lavoro dove un’operaia con una saldatura a stagno doveva fissare un cappellotto di metallo sulla parte sommitale di un grosso isolatore di ceramica.
Il tecnico dell’Asl sollecitato ad intervenire rilevò la mancanza di un impianto di aspirazione funzionante fatto che metteva l’operaia nella condizione di respirare pericolosamente ed inutilmente i fumi della saldatura. Nella parte anteriore alla zona di saldatura venne attivata una cappa di aspirazione, tutto sommato un intervento minimo. Il risultato fu che nel giro di tre mesi le analisi del sangue dell’operaia dettero risultati completamente diversi. Le tracce di piombo erano sparite, quel tipo di lento avvelenamento, in quel caso era stato contrastato.
La salute degli operai per i padroni non vale nemmeno poche migliaia di lire, e il tecnico dell’Asl, all’epoca premuroso ed agguerrito interventista nelle fabbriche a difesa della salute e sicurezza, oggi è ai vertici della struttura provinciale e non perde occasione di fronte agli incidenti mortali, nel ricordare a mezzo stampa, la componente di responsabilità degli operai negli infortuni in fabbrica, operai che non rispettano le prescrizioni per la sicurezza.
L’anno scorso in un reparto di TenarisDalmine, la più grossa fabbrica della provincia di Bergamo,
siderurgica, principalmente produttrice di tubi petroliferi, fu trovato amianto in un reparto, dopo oltre 20 anni dalla messa fuorilegge e dalle bonifiche nei reparti.
Lo Slai Cobas ne viene a conoscenza, si fa promotore della denuncia, coinvolge gli operai del reparto ed inizia una combattuta battaglia per la rimozione/bonifica e per evitare che tutto venga insabbiato.
Perché amianto in fabbrica vuol dire che almeno per 20 anni sono stati redatti documenti falsi sulla valutazione dei rischi nel reparto.
Lo Slai Cobas ora sta combattendo per impedire che l’iscrizione nello speciale elenco degli esposti amianto di tutti gli operai che si sono trovati esposti alle fibre killer lavorando in reparto, trasferisca il tutto sul tavolo dei medici, quando in questa vicenda non sono ancora stati scritti i nomi dei responsabili che hanno permesso l’utilizzo di forni con amianto mascherandone la presenza e tutti i soggetti a vario titolo coinvolti hanno invece una gran fretta di seppellire quanto è accaduto.
Con una lettera esposto lo Slai Cobas ha sollevato la questione ad ATS Bergamo, che si è fatta carico dei controlli degli operai del reparto dopo essere stati inseriti nello speciale elenco esposti amianto.
Ma risulta che i padroni di Tenaris, ovvero degli impianti dove è avvenuta la dolosa esposizione, siano anche i padroni della clinica dove gli operai sono stati indirizzati per accertare gli effetti dell’esposizione da amianto. Ad oggi esiste solo una burocratica risposta degli enti che nega l’esistenza di un possibile conflitto di interessi.
Per restare nella principale fabbrica della provincia, che spesso anticipa e mette alla prova sul campo interventi di ristrutturazione che poi vengono condivisi dal padronato, in occasione del nefasto accordo aziendale Tenaris Dalmine del 10.3.2017, la denuncia che lo Slai Cobas ha fatto si può riassumere in questi termini: più tubi, meno operai, sempre più precari e sempre più veloci.
Esulando dagli aspetti economici pesanti pur presenti in questo accordo chiamato ‘della flessibilità totale’, accordo che ha dato carta bianca nella gestione di turni, orari, mansioni e mobilità interna, e analizzando gli effetti di questa intesa dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, osserviamo che a premessa dell’accordo, formalmente ribadita e sottoscritta dalle parti, ci sono la produzione e il suo sviluppo come centrali ed indispensabili. In seguito a questa intesa gli operai restano fortemente indifesi, non hanno più una programmazione certa dei turni, sono esposti a trasferimenti di reparto e cambi mansione, saltano i riposi, è aumentato il numero dei precari ricattabili tra le fila operaie (questa intesa è stata preceduta da un accordo confederale che ha sancito 300 esuberi e l’assunzione di circa 150 apprendisti, in un quadro di contratti di solidarietà).
Ma svilimento della formazione (penalizzata soprattutto nell’affiancamento), rotazione incontrollata delle mansioni, aumento della componente operaia ricattabile, diminuzione degli organici, aumento dei ritmi, saturazione degli orari, sono fattori che spingono a diradare le fermate per le riparazioni rimandandole a momenti più opportuni, unitamente al mancato potenziamento e sostegno alla manutenzione che non va di pari passo con il crescere dei volumi/ora produttivi e rimane fortemente al palo negli appalti e subappalti.
Questi che sono i fattori principali che attentano alla sicurezza e alla salute degli operai al lavoro, qui li troviamo clamorosamente riuniti in un accordo sindacale di Fiom Fim Uilm come linee guida per l’organizzazione del lavoro, che consegna su di un piatto d’argento al padrone i profitti condannando gli operai ad un crescendo di condizioni potenzialmente pericolose di lavoro.
Profitto dei padroni sangue dei lavoratori aveva scritto un operaio su di un cartello diventato famoso perché fotografato e ripreso dalla stampa.
Nocività e sicurezza stanno dentro i confini dello sfruttamento capitalista, intrecciate indissolubilmente alle strutture che legittimano, sostengono o difendono l’attività industriale.
Non si può quindi parlare di difesa della salute e sicurezza senza analizzare il ruolo di tutti questi soggetti, dagli apparati sindacali come abbiamo visto, fino a quelli statali.
Ai cosiddetti enti preposti è formalmente assegnato un compito di controllo e di intervento. Numeri alla mano, secondo le statistiche ufficiali possono condurre annualmente al massimo ispezioni al 5% delle aziende. Che vuol dire che il 95% dei padroni è impunito, o si sente tale e si comporta di conseguenza.
Un ‘governo dei padroni’ significa che orienta la sua politica al servizio di Confindustria. Innanzitutto non dispone le risorse necessarie. Modifica le norme a sfavore dei lavoratori. Condiziona l’intervento degli enti preposti alla tutela dei lavoratori con le sue direttive politiche.
E l’attività ispettiva, secondo quanto ci viene restituito dalla nostra esperienza sul campo, non viene rivolta ad indagini esemplari per far fruttare le limitate risorse verso casi che rappresentino una sorta di linea guida dei controlli per la sicurezza, casi particolari capaci di provocare ricadute per l’insieme della classe lavoratrice - una sorta di un colpo ben assestato per avvisare e stimolare tutte le altre aziende – No! Troppe volte al centro dell’attività istituzionale troviamo il ‘fare cassa’ con le sanzioni o ispezioni verso le micro/piccole attività, rivoltate come calzini.
La lotta per la salate e la sicurezza deve essere quindi fondata sull’autonomia dell’azione da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni di classe. Lottando contro la rassegnazione e il fatalismo perché gli infortuni e le malattie professionali in fortissimo aumento, non sono inevitabili.
Per una vigilanza attiva ed un controllo crescente degli impianti nei reparti. Contro la monetizzazione del rischio che passa attraverso accordi sindacali infami. Per aggirare e battere il muro di gomma istituzionale e il senso di impunità dei padroni.
In questo senso va intesa, a questo serve il rilancio della Rete Nazionale per la sicurezza sui luoghi di lavoro.
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