mercoledì 17 luglio 2019

Capitanata - interviste ai migranti braccianti - Se questa è vita...

Stralci da Flore M. Yovanovitch

"Sai dove si può cambiare un dente?». E’ la prima domanda che mi viene rivolta, sull’ex pista aeroportuale di Borgo Mezzanone, un tarmac occupato da casupole di plastica che serviva da casa a 1500-2000 persone in alta stagione, ma dove ora, dopo il quarto sgombero attuato dalla polizia la scorsa settimana, trovano posto si e no un centinaio di migranti.
Guardo le mani dell’uomo che mi ha parlato, mani coperte di fango, distrutte dal lavoro nei campi. Basterebbe un buon paio di guanti, ma sono una rarità fra i migranti che lavorano come braccianti nei campi del Foggiano. Pomodori in questa stagione. Sveglia alle ore 4,30 – 5, una giornata di lavoro può durare fino a 10/12 ore, la paga giornaliera è nella maggior parte dei casi di 3 euro, 3 euro e mezzo l’ora. Non ti pagano mai allo stesso modo.
QUANDO ANCORA c’erano gli asparagi ti davano 5 euro l’ora, qualche volta solo 4. Dipende dal mercato. Dai prezzi fissati dalla grande distribuzione. In una giornata di dodici ore, tipiche della stagione di raccolta del pomodoro, invece, un lavoratore guadagna circa 30/40 euro. Da questa cifra va però sottratto i soldi pagati ai caporali per il trasporto. Tutti ripetono la stessa cosa: «Non voglio rimanere seduto a non fare niente. Mi affatico a raccogliere pomodori, 8 ore al giorno». Ibrahim: «Se
non lavori, qua non puoi sopravvivere. Non voglio dare disturbo agli altri, rubando o mendicando, ma vedi come sopravviviamo qui».
Una costellazione di baraccopoli, teli e tubi di plastica. Niente accesso idrico e reti fognarie, di elettricità, sistema di smaltimento di rifiuti, e di forme di riscaldamento sicure. In realtà, tra Borgo Mezzanone, il Gran Ghetto e Poggio Imperiale, l’area della Capitanata, è una costellazione di assembramenti informali e masserie abbandonate, sperdute e abitate da varie categorie vulnerabili; una specie di enorme «porto», auto-organizzato dal quale lavoratori senza documenti partono e ritornano da tutta Italia.
Prima dell’ultimo sgombero sulla pista di Borgo Mezzanone era nata una specie di «città» con trattorie, bar, bordelli, bande di finti poliziotti e negozi alimentari.
ALCUNI AVREBBERO DIRITTO alla protezione internazionale; chi ha perso i documenti nell’ultimo incendio, chi non li ha mai avuto, chi è stato buttato per strada alla chiusura del sistema di accoglienza, chi non riesce a rinnovare il permesso di soggiorno senza una dichiarazione di ospitalità o senza la residenza (anche fittizia); iscrizione anagrafica, richiesta di documentazione non prevista, assenza di adeguata informativa legale… Profughi vengono trattati come pacchi nel circolo burocratico: senza permesso di soggiorno niente contratto regolare, di conseguenza vengono costretti ad una condizione di irregolarità e sfruttamento. Ci sono persone con problemi sanitari che avrebbero diritto a una qualche forma di protezione umanitaria, altri potrebbero essere considerati rifugiati. E poi una parte consistente di ragazzi tra i 18 e i 21 anni arrivati in Italia quando erano ancora minorenni, una presenza che rivela una sconfitta per i percorsi destinati alla tutela dei minori.
Mi viene avanti un giovane somalo, capelli irsuti e parlantina veloce. «In Europa persone di provenienza diversa vivono insieme. Perché in Italia, no? Qua non vogliono che ci mescoliamo. Ci danno documenti validi per 5 anni ma poi veniamo confinati. C’è la segregazione qua. Voglio tornare in Africa e sposarmi». Channel trattiene a stento le lacrime sulle sue ciglia finte. Stringe uno zaino pieno di documenti dal quale non si separa mai, nemmeno durante la visita medica. Sui fogli è possibile leggere «Questura», «Procura»… addosso porta ancora le tracce dell’ultima parte di quel viaggio che come per tante altre nigeriane comincia nelle zone più povere della Nigeria e finisce lungo qualche strada. Per lei sulla Domitiana.
DAI DATI emersi dalle interviste ai circa 3.000 migranti venuti in contatto con la clinica mobile di Intersos e dai questionari socio-sanitari su un campione di circa 300 intervistati, il 58.4% dichiara di non avere assegnato un medico di medicina generale, e, fra gli aventi diritto, solo il 10.6% dichiara di averne uno nella provincia di Foggia. Mentre una consistente parte afferma di avere o aver avuto un medico di riferimento, in genere fornitogli dal centro di accoglienza, ma di non avere coscienza del significato e del ruolo di questa figura.
IN ASSENZA DI INFORMAZIONI da parte delle istituzioni, spesso per i migranti l’unico modo per sapere come fare a curarsi in caso di bisogno è il passaparola. Non è raro che queste persone vengano dimesse da un pronto soccorso senza che qualcuno si assicurari che abbiano un medico curante. Nei ghetti il diritto alla salute è ancora largamente negato. «Sono colpito da quanto sia facile per un migrante “smettere di esistere”», spiega Sergio Cotugno, medico che lavora nella clinica mobile di Intersos. «Qui a Foggia si ha l’impressione che la gente sia persa, come se il naufragio continuasse… L’ideale è allora creare un piccola ancora, un luogo sicuro, dove essere ascoltato e da dove ripartire», prosegue il medico. «In tutti gli insediamenti informali è però difficile fare orientamento alla salute, perché servirebbe tranquillità: dove c’è grande precarietà lavorativa e abitativa, come nei ghetti, la salute viene invece considerata secondaria, rispetto all’urgenza di guadagnare qualche euro».
«Ogni volta che mi rivolgo ad un ufficio pubblico per chiedere aiuto vengo rifiutato. Siamo neri. Non ci vogliono. Il Comune sa che esistiamo. Sa che viviamo qui», racconta. «Siamo lavoratori, non delinquenti. Dovrebbero tutelarci». In un lampo M. conclude «We live in darkness. Am I not living in darkness?». E non si riferisce certo al mancato allaccio alla luce.

Nessun commento:

Posta un commento