Stralci da Flore M. Yovanovitch
"Sai dove si può cambiare un dente?». E’ la prima domanda che mi viene
rivolta, sull’ex pista aeroportuale di Borgo Mezzanone, un tarmac
occupato da casupole di plastica che serviva da casa a 1500-2000 persone
in alta stagione, ma dove ora, dopo il quarto sgombero attuato dalla
polizia la scorsa settimana, trovano posto si e no un centinaio di
migranti.
Guardo le mani dell’uomo che mi ha parlato, mani coperte di fango,
distrutte dal lavoro nei campi. Basterebbe un buon paio di guanti, ma
sono una rarità fra i migranti che lavorano come braccianti nei campi
del Foggiano. Pomodori in questa stagione. Sveglia alle ore 4,30 – 5,
una giornata di lavoro può durare fino a 10/12 ore, la paga giornaliera è
nella maggior parte dei casi di 3 euro, 3 euro e mezzo l’ora. Non ti
pagano mai allo stesso modo.
QUANDO ANCORA c’erano gli asparagi ti davano 5 euro
l’ora, qualche volta solo 4. Dipende dal mercato. Dai prezzi fissati
dalla grande distribuzione. In una giornata di dodici ore, tipiche della
stagione di raccolta del pomodoro, invece, un lavoratore guadagna circa
30/40 euro. Da questa cifra va però sottratto i soldi pagati ai
caporali per il trasporto. Tutti ripetono la stessa cosa: «Non voglio
rimanere seduto a non fare niente. Mi affatico a raccogliere pomodori, 8
ore al giorno». Ibrahim: «Se
non lavori, qua non puoi sopravvivere. Non
voglio dare disturbo agli altri, rubando o mendicando, ma vedi come
sopravviviamo qui».
Una costellazione di baraccopoli, teli e tubi di plastica. Niente
accesso idrico e reti fognarie, di elettricità, sistema di smaltimento
di rifiuti, e di forme di riscaldamento sicure. In realtà, tra Borgo
Mezzanone, il Gran Ghetto e Poggio Imperiale, l’area della Capitanata, è
una costellazione di assembramenti informali e masserie abbandonate,
sperdute e abitate da varie categorie vulnerabili; una specie di enorme
«porto», auto-organizzato dal quale lavoratori senza documenti partono e
ritornano da tutta Italia.
Prima dell’ultimo sgombero sulla pista di Borgo Mezzanone era nata una
specie di «città» con trattorie, bar, bordelli, bande di finti
poliziotti e negozi alimentari.
ALCUNI AVREBBERO DIRITTO alla protezione
internazionale; chi ha perso i documenti nell’ultimo incendio, chi non
li ha mai avuto, chi è stato buttato per strada alla chiusura del
sistema di accoglienza, chi non riesce a rinnovare il permesso di
soggiorno senza una dichiarazione di ospitalità o senza la residenza
(anche fittizia); iscrizione anagrafica, richiesta di documentazione non
prevista, assenza di adeguata informativa legale… Profughi vengono
trattati come pacchi nel circolo burocratico: senza permesso di
soggiorno niente contratto regolare, di conseguenza vengono costretti ad
una condizione di irregolarità e sfruttamento. Ci sono persone con
problemi sanitari che avrebbero diritto a una qualche forma di
protezione umanitaria, altri potrebbero essere considerati rifugiati. E
poi una parte consistente di ragazzi tra i 18 e i 21 anni arrivati in
Italia quando erano ancora minorenni, una presenza che rivela una
sconfitta per i percorsi destinati alla tutela dei minori.
Mi viene avanti un giovane somalo, capelli irsuti e parlantina
veloce. «In Europa persone di provenienza diversa vivono insieme. Perché
in Italia, no? Qua non vogliono che ci mescoliamo. Ci danno documenti
validi per 5 anni ma poi veniamo confinati. C’è la segregazione qua.
Voglio tornare in Africa e sposarmi». Channel trattiene a stento le lacrime
sulle sue ciglia finte. Stringe uno zaino pieno di documenti dal quale
non si separa mai, nemmeno durante la visita medica. Sui fogli è
possibile leggere «Questura», «Procura»… addosso porta ancora le tracce
dell’ultima parte di quel viaggio che come per tante altre nigeriane
comincia nelle zone più povere della Nigeria e finisce lungo qualche
strada. Per lei sulla Domitiana.
DAI DATI emersi dalle interviste ai circa 3.000
migranti venuti in contatto con la clinica mobile di Intersos e dai
questionari socio-sanitari su un campione di circa 300 intervistati, il
58.4% dichiara di non avere assegnato un medico di medicina generale, e,
fra gli aventi diritto, solo il 10.6% dichiara di averne uno nella
provincia di Foggia. Mentre una consistente parte afferma di avere o
aver avuto un medico di riferimento, in genere fornitogli dal centro di
accoglienza, ma di non avere coscienza del significato e del ruolo di
questa figura.
IN ASSENZA DI INFORMAZIONI da parte delle
istituzioni, spesso per i migranti l’unico modo per sapere come fare a
curarsi in caso di bisogno è il passaparola. Non è raro che queste
persone vengano dimesse da un pronto soccorso senza che qualcuno si
assicurari che abbiano un medico curante. Nei ghetti il diritto alla
salute è ancora largamente negato. «Sono colpito da quanto sia facile
per un migrante “smettere di esistere”», spiega Sergio Cotugno, medico
che lavora nella clinica mobile di Intersos. «Qui a Foggia si ha
l’impressione che la gente sia persa, come se il naufragio continuasse…
L’ideale è allora creare un piccola ancora, un luogo sicuro, dove essere
ascoltato e da dove ripartire», prosegue il medico. «In tutti gli
insediamenti informali è però difficile fare orientamento alla salute,
perché servirebbe tranquillità: dove c’è grande precarietà lavorativa e
abitativa, come nei ghetti, la salute viene invece considerata
secondaria, rispetto all’urgenza di guadagnare qualche euro».
«Ogni volta che mi rivolgo ad un ufficio
pubblico per chiedere aiuto vengo rifiutato. Siamo neri. Non ci
vogliono. Il Comune sa che esistiamo. Sa che viviamo qui», racconta.
«Siamo lavoratori, non delinquenti. Dovrebbero tutelarci». In un lampo
M. conclude «We live in darkness. Am I not living in darkness?». E non
si riferisce certo al mancato allaccio alla luce.
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