(da USB)
31/12/2013
In memoria di
Stefano Delli Ponti, operaio dell'ILVA venuto a mancare domenica scorsa
a causa della grave patologia contro cui aveva con grande coraggio
combattuto, pubblichiamo l'articolo comparso oggi 31 dicembre sul
Corriere della Sera a firma di Giusi Fasano.
Alla sua famiglia giunga il senso del nostro profondo cordoglio e della nostra solidarietà attiva, Federazione Nazionale USB.
«Se chiuderò gli occhi...». Stefano Delli Ponti
non diceva mai «se morirò». Quasi che quella parola -- morte -- per lui
non esistesse. «Può capitare che io chiuda gli occhi» aveva confidato
all'amico Francesco una sera di qualche mese fa. «E se capitasse...
quando ci penso il dolore più grande non è per me che non ci sarò più ma
è per la mia famiglia. Come farà mia moglie con due bambini piccoli?
Che succederà ai miei figli?». Stefano aveva un bimbetto di 8 anni e una
piccolina di 3, operaio all'Ilva di Taranto dal 1999, anni e anni al
reparto acciaieria finché, nel 2011, un tumore l'ha costretto a cambiare
settore, vita, aspettative. Ha «chiuso gli occhi» ieri, a 39 anni.
Ora: chi non ha mai sentito o vissuto da vicino la
storia di qualcuno malato di cancro? Chi non ha un dolore da raccontare
legato alla propria o all'altrui malattia incurabile? Eppure quella di
Stefano è una storia speciale. Che si porta dietro migliaia di altre
piccole storie e ciascuna ha il nome e il cognome di un operaio
dell'acciaieria più grande d'Europa.
Stefano è diventato il simbolo del buon cuore della
gente comune, lavoratori come lui che un bel giorno hanno deciso di
regalargli il loro tempo: ore di ferie o di lavoro per aiutarlo a far
fronte alla malattia che richiedeva viaggi continui a Milano e medicine
costosissime. Loro hanno messo sul piatto le ore che potevano, l'Ilva le
ha trasformate in soldi e accrediti per Stefano.
Era stata l'Unione sindacale di base a proporre
quella strana forma di solidarietà. Alla fine tutti i sindacati avevano
sottoscritto un documento per donare novemila ore lavorate o di ferie al
collega in difficoltà. Sulle prime un gruppo di lavoratori aveva dovuto
occupare una saletta nella direzione dello stabilimento per convincere
l'azienda ad autorizzare la colletta ma alla fine i nodi si erano
sciolti e il metodo era passato. «Da maggio ad ora abbiamo raccolto per
lui più di 60 mila euro» racconta in lacrime Francesco Rizzo, Usb.
«Doveva andare in America a farsi curare ma poi ha scoperto che le
stesse cure erano possibili in Italia e ha fatto la spola fra Milano e
Taranto per provare a salvarsi. Per noi era diventato un orgoglio
poterlo aiutare e adesso proporremo subito una raccolta di fondi per i
suoi figli. All'Ilva siamo più di 11 mila, bastano poche ore a testa e
si può fare tantissimo per quei due bambini».
Gli amici raccontano che Stefano si vergognava di
accettare quei soldi, perché sapeva bene che ciascun'ora regalata era un
sacrificio, una rinuncia per uno dei suoi compagni di lavoro. Un giorno
un amico gli disse: «Chiedimi che cosa farei io al posto tuo». Stefano
glielo chiese e lui rispose: «Pretenderei di essere aiutato perché avere
colleghi che vogliono farlo non può essere tradotto in un' umiliazione.
E perché io al posto tuo lo vorrei per i figli». Fu quella volta che si
convinse ad accettare gli accrediti.
E comunque ha lavorato fino all'ultimo granello di
energia, finché ha potuto arrivare con le sue forze al suo posto di
lavoro, fra i suoi compagni. Francesco ha gli occhi lucidi quando
racconta che ogni tanto compariva sull'uscio dell'Usb e che domenica
sera ha detto ai suoi: «Per favore preparatemi la sedia a rotelle,
domattina. Vorrei andare in sede».
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