Nell’Italia dei condoni per evasori fiscali e abusivisti edilizi, lo Stato si dimostra inflessibile verso una sindacalista colpevole di aver oltraggiato un vigile urbano e quindi meritevole, secondo il Tribunale di Sorveglianza, di scontare la pena di un mese agli arresti domiciliari. Senza condizionale, senza affidamento ai servizi sociali. Agli arresti. Provvedimento in vigore dal 15 ottobre. E col cellulare che squilla a vuoto perché la condanna è accompagnata dal divieto di comunicare con l’esterno. E’ la storia di Margherita Calderazzi, sindacalista di base Slai Cobas, una delle tante parti civili nel processo Ilva, coordinatrice di 120 persone tra operai, familiari di vittime del lavoro, famiglie della zona dei Tamburi e di altri quartieri, per i quali ha messo in piedi un pool di avvocati di Torino esperti in materia, provenienti dai processi Eternit.
La signora Calderazzi è un punto di riferimento di battaglie e movimenti per il lavoro e la salute. Una compagna, nel sapore antico del termine. Anzi no: una pregiudicata alla quale negare l’affidamento ai
servizi sociali, che pure si dà praticamente a chiunque non sia clamorosamente pericoloso, perché, dicono fonti a lei vicine, “le hanno spiegato che il periodo di affidamento sarebbe troppo breve per le finalità rieducative che ne sono alla base”. Ed anche perché la signora ha altri piccoli precedenti per le sue attività di lotta (affissioni abusive, ad esempio) con i quali si è bruciata la sospensione condizionale della pena che si applica in automatico per i reati meno gravi quando si è incensurati. “Vicende concluse con esiti esigui – ricordano i sindacalisti che la assistono in questi giorni difficili – e già scontati, o ancora in corso. Motivano gli arresti persino con altri procedimenti penali successivi alla condanna o per i quali non c’è nemmeno un rinvio a giudizio, mai notificati e sconosciuti all’indagata, e che comunque non c’entrano nulla con questa storia”.
La sentenza è passata in giudicato nel febbraio 2017. A sette anni dai fatti, dopo un’assoluzione in primo grado ribaltata in Appello: nel 2010 la Calderazzi fu tra le organizzatrici di un movimento di lotta dei disoccupati organizzati tarantini e si oppose allo sgombero di una tenda montata in piazza come presidio. Una occupazione abusiva, che ebbe degli strascichi: la tenda fu smantellata con la forza, la concitata, successiva protesta sotto al Municipio e quella parola, “fascista”, pronunciata contro un esponente dei caschi bianchi. Che denunciò, dando il via al processo.
Dal febbraio 2017 all’ottobre 2018 la Calderazzi ha vissuto venti mesi nel limbo della condanna non eseguita. Con le conseguenze del caso: impossibilità di ottenere il passaporto, difficoltà nel viaggiare, nel rapporto con enti e istituzioni pubbliche. Lei non ha smesso di fare battaglie. Contro l’accordo Ilva, contro il decreto sicurezza e le politiche salviniane, contro la precarietà del lavoro. Ora deve fermarsi per un mese, come un calciatore squalificato dopo aver insultato l’arbitro. Poi, assicurano gli amici, tornerà in campo più agguerrita di prima.