giovedì 20 giugno 2013

2° PARTE - L'IMPERO ECONOMICO DEI RIVA


Mentre la magistratura va avanti, Riva riorganizza le sue società.

Alla fine del 2012, in piena bufera giudiziaria, le società lussemburghesi dei Riva sono state oggetto di alcune operazioni che hanno modificato l’assetto del controllo dell’Ilva.
Fino allo scorso anno il 25,38% dell’Ilva era controllato dalla Stahlbeteili Gungen - che oltre alla quota nell’Ilva e al 25% della Riva Energia, controlla gli impianti dei Riva in Canada, Belgio, Spagna, Germania e Francia. Amministratore della Stahlbeteili è Fabio Riva, colpito da mandato di arresto europeo per associazione per delinquere e disastro ambientale e in attesa di essere estradato da Londra, dove si era rifugiato (data la collocazione della “testa” dell’impero Riva nelle isole britanniche - è evidente come l’Inghilterra sia un posto sicuro!).
Il 26 luglio ‘13 l’acciaieria di Taranto viene sequestrata e il fondatore del gruppo, l’ottantaseienne Emilio, finisce agli arresti domiciliari. Lo stesso provvedimento tocca al figlio Nicola e a sei dirigenti… La famiglia Riva, il cui business dipende per i due terzi dall’Ilva, sceglie come presidente un uomo delle istituzioni, del tutto digiuno di acciaio e di impresa, come l’ex prefetto di Milano Bruno Ferrante.
Proprio quel giorno, il 26 luglio, nelle stanze ovattate di uno studio notarile lussemburghese, prende il via il progetto di fusione fra la StahlbeteiliGungen Holding Sa e la Parfinex Sa, una società lussemburghese dei Riva creata per l’occasione. Razionalizzazione prevista da tempo? La coincidenza della data è casuale?
Il 5 ottobre – quando è in corso lo scontro tra magistratura e governo sull’Aia e sul sequestro degli impianti e prodotti - in Lussemburgo, prende il via lo scorporo dalla Stahlbeteili Gungen Holding Sa del 25,38% dell’Ilva che viene conferito alla Siderlux, l’altra società controllata al 100% da Riva fire. Mentre nella Stahlbeteili Gungen restano soprattutto le attività estere dei Riva.
Come conseguenza di questi movimenti, l’Ilva è controllata per il 61,62% dalla Riva Fire, per il 25,38% dalla Siderlux - posseduta a sua volta dalla stessa Riva Fire – per il 10,05% dalla Valbruna Nederland, società olandese della famiglia Amenduni, e per il 2,95% dalla Allbest, un’altra società lussemburghese (che aveva nel 2007 acquistato la sua quota proprio dagli Amenduni e che ha la sede legale negli uffici della Utia) dove per un intreccio di società tra gli azionisti compare la famiglia Ligresti.
Dunque, l’Ilva è controllata per l’87% del capitale dalla Riva Fire, la quale, risalendo negli intrecci delle società, è posseduta per il 39,9% dalla Luxpack di Curaçao attraverso le società lussemburghesi e la holding olandese. Ma a chi è intestato il restante pacchetto del 60,1% della Riva Fire? Dietro c’è sempre la famiglia milanese, ma la proprietà è stata schermata da una società fiduciaria. Infatti il 35,1% della Riva Fire è nelle mani della Stahlbridge Srl, ma se vi va a vedere di chi è questa società si scopre che la totalità del capitale è intestata fiduciariamente alla Carini società fiduciaria di amministrazione e revisione di Milano. La stessa Carini fiduciaria controlla anche il restante pacchetto del 25% della Riva Fire. Una quota nei paradisi fiscali, un’altra dietro il paravento di una fiduciaria.
Nell’inchiesta emersa a maggio delle GdF di Milano su mandato della Procura milanese è risultato che tra il 1995 (anno dell’acquisizione dell’Ilva di Taranto) e il 2006, la famiglia Riva, con a capo Emilio Riva, il vero patron, ha portato all’estero 1,2 miliardi di euro sottraendoli alle casse della Riva Fire, e occultandoli in otto trust domiciliati nel paradiso fiscale di Jersey (isole del Canale). Fondi, per buona parte frutto dell’attività delle industrie siderurgiche – in primis l’Ilva di Taranto e di finte compravendite di rami delle stesse aziende del loro impero – per cui vendevano a loro stessi percentuali societarie a prezzi gonfiati e poi, tramite i trust, facevano transitare il denaro sui propri conti anzicchè su quelli delle aziende (che quindi avevano bilanci falsati) e senza pagare le tasse.
Questo è avvenuto con tre operazioni societarie. La prima, del dicembre 1995, riguarda la cessione di quote della società olandese Oak. La seconda è relativa alla vendita di una holding lussemburghese, la Stahlbeteiligungen Holding Sa, avvenuta nel maggio 1997. La terza riguarda invece la cessione dell’11,75% dell’Ilva Spa nel luglio 2003. Le tre operazioni hanno permesso ai due fratelli di generare una provvista complessiva di 1,39 miliardi di euro, dei quali 1,18 sono stati “rimpatriati giuridicamente” (il patrimonio è stato cioé regolarizzato ma è rimasto all’estero) con lo scudo fiscale del 2009 voluto da Tremonti.
«In tutte e tre le operazioni – scrive il gip – il corrispettivo della cessione di partecipazioni societarie... veniva fatto lucrare da società veicolo allocate in paesi a fiscalità privilegiata e riconducibili ad Adriano ed Emilio Riva e, da ultimo, fatto confluire nei trust (l’istituto dei trus è l’affidamento di beni ad un terzo affinché li gestisca per un certo tempo per poi restituirli) costituiti in un paese non collaborante nel contrasto al riciclaggio (il Jersey)». Quindi, un sistema di cessioni di partecipazioni infragruppo finalizzato, da una lato all’evasione fiscale a vantaggio della holding del gruppo Riva, dall’altro alla creazione di disponibilità finanziarie a favore delle persone di Adriano ed Emilio Riva». Non solo. «È comprovata – afferma ancora il giudice di Milano – non solo la creazione di provviste occulte all’estero formate integralmente con denaro di pertinenza di società di capitali depauperate in modo definitivo e non reversibile, ma anche la esclusiva destinazione di tali somme al perseguimento di fini estranei agli interessi sociali».
Nel 2009 Adriano ed Emilio Riva decidono di scudare i beni custoditi nei trust dell’isola di Jersey. Ma l’operazione, secondo la procura di Milano, non sarebbe stata realizzata nel rispetto della legge perché colui che ha trasferito i beni dei trust era Adriano Riva, che è cittadino canadese residente a Montecarlo, mentre nella dichiarazione presentata alle autorità fiscali figura il nome di Emilio. Il 30 novembre 2011 Emilio e Adriano Riva sottoscrivono due dichiarazioni riservate nelle quali si rappresentava che il disponente dei trust era unicamente Emilio Riva. Dunque, il condono fiscale non poteva essere realizzato.
I trust dai nomi esotici (Orion, Sirius, Venus, Antares, amministrate da Usb Fiduciaria , e Lucam, Minerva, Paella e Felgan, amministrate da Carini spa) sarebbero stati istituiti esclusivamente per celare chi fosse il reale proprietario dei beni, proprio perchè frutto di operazioni realizzate ad arte per drenare soldi dalle società del gruppo e trasferirli nella titolarità dei due imprenditori. Prima di conferirli ai trust i proventi dei reati erano ulteriormente schermati «per agevolarne il riciclaggio» e inseriti «fittiziamente» in quattro società delle isole Cayman: Jamuri Limited, Nebo Limited, Millicent Limited e Finia Limited.
Il reale proprietario dell’intero gruppo è Emilio Riva, in virtù di un patto di famiglia che gli consente di «decidere da solo sulle questioni di maggiore rilevanza per la società».
Il 17 ottobre 2012 - l’assemblea di Riva Fire sancisce la cessione del ramo di azienda che produce e commercializza i prodotti lunghi a favore della controllata Riva Forni Elettrici, a cui peraltro passano anche riserve per 320,6 milioni di euro di Riva Fire. A quest’ultima resta, quindi, il business dei laminati piani a freddo e a caldo.

Mentre a Roma, si prova la soluzione “politica”, negli studi dei professionisti dell’Ilva si continua a lavorare.  

Se è datato 19 dicembre dell’anno scorso l’atto notarile della scissione del ramo d’azienda da Riva Fire a favore di Riva Forni Elettrici, cinque giorni dopo viene pubblicata sulla G.U. la Legge 231/12 salva-Ilva.
Dunque, a questo punto, nelle architetture societarie esistono tre poli di attrazione: l’Ilva, che di fatto è separata da tutto il resto, le acciaierie straniere, i prodotti lunghi, un segmento che nel gruppo Riva è alimentato dai forni elettrici e non dal ciclo integrato di Taranto.
Quindi mentre il governo provvedeva a tutelare gli interessi di Riva, questi portava avanti una serie di operazioni straordinarie che rendono più facile disporre del gruppo o di parti di esso, di fatto isolando Ilva e provando a proteggere il resto del gruppo industriale e finanziario da ogni iniziativa giudiziaria.

Tutti soldi per l’Aia si devono trovare dentro il perimetro dell’Ilva. Dunque, non è previsto che le casseforti lussemburghesi siano intaccate.
Ferrante dichiara: “I Riva restano sempre i proprietari, i maggiori azionisti con l’87% del capitale sociale, ma “non gestiscono più la società... c’è una gestione manageriale e autonoma che risponde all’azionista” - poi continua - “Al momento... nessuna ipotesi di vendita, la volontà della famiglia è di tenere ben salda la proprietà. Che poi ci possano essere delle cessioni parziali, questo appartiene al futuro”  -

Contemporaneamente a questo scorporo dell’Ilva, “su imput delle banche prossime finanziatrici dell’Aia (in particolare di Pier Francesco Saviotti del Banco Popolare) viene scelto quale amministratore delegato dell’Ilva spa il ristrutturatore Enrico Bondi che si è occupato in passato di ristrutturazioni di Parmalat, Lucchini – che si sono concluse sempre con grossi tagli di produzione e di organici - ed è stato consulente del governo Monti della ‘spending rewiew’ – che anch’essa significa molto più prosaicamente “tagli”. 
Questa nomina di Bondi era conseguente e legata alle manovre finanziarie societarie dei Riva per rendere formalmente indipendente l’Ilva e mettere al sicuro gli utili. L’obiettivo anche all’Ilva è la ristrutturazione. Essa può avvenire anche con l’ingresso di nuovi soci, soprattutto stranieri - quelli più probabili sono Cina e India - ma soprattutto si puntava mantenere la parte “utile” che può dare effettivi profitti e a liberarsi di ciò che comporta essenzialmente costi, con una rilevante cura dimagrante tra gli operai.

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