Il Corriere della Sera nell'editoriale
del 15 settembre, a firma di Panebianco, si occupa della vicenda
Ilva, per presentare tutta una serie di concetti fatti propri
dall'intero padronato e, in maniera meno esplicita, da governo,
organizzazioni sindacali, partiti borghesi.
Si tratta di un articolo che si
presenta con una veste economica, ma in realtà è ideologico,
utilizza dati reali ma li legge esclusivamente in chiave padronale.
Non facciamo citazioni letterali
dell'articolo ma ci riferiamo agli argomenti di esso.
Si dice che la vicenda Ilva è un
disastro e una tappa del processo di deindustrializzazione, lasciando
dietro di sé macerie e povertà. Si nasconde che questo disastro è
provocato dalla gestione padronale dell'industria, dall'uso della
fabbrica a fini esclusivi di profitto che ha prodotto e produce morti
sul lavoro, inquinamento, sfruttamento e poi licenziamenti, ecc.
Responsabile di tutto questo è il
capitalismo non il giudice di Taranto.
Panebianco e i suoi punti di
riferimento invertono la sostanza del problema. Siamo noi che
possiamo dire che l'Ilva nelle mani di padron Riva significa non
sviluppo industriale ma appunto disastro ambientale.
Panebianco si lamenta del processo di
deindustrializzazione nel paese, ma questo è un processo da lungo
tempo in atto per responsabilità di quei padroni che chiudono le
fabbriche, che finanzializzano l'economia e che alla ricerca del
maggior profitto delocalizzano le imprese.
Che c'entra tutto questo con
l'inchiesta di Taranto che individua reati previsti dal nostro codice
penale e li persegue?
Panebianco ricorda come “a nulla sono
valsi i tentativi dei governi di impedire il disastro, si ricordi il
braccio di ferro tra governo Monti e i magistrati tarantini”,
rendendo palese ciò che dovrebbe essere compreso da tutti. I
governi, da Berlusconi a Monti all'odierno Letta hanno un solo
obiettivo e scopo, quello di salvaguardare Riva, la proprietà di
Riva o, in caso estremo, la proprietà collettiva dei padroni
sull'Ilva (chiamiamola “commissariamento” o si potrebbe arrivare
fino a “nazionalizzazione”) per vincere il braccio di ferro coi
magistrati e imporre la continuità della produzione per il profitto
a scapito della sicurezza e della salute.
Panebianco si associa ad un altro
scribacchino padronale, come il Di Vico che fa da megafono del
presidente della Confindustria Squinzi dicendo che i concorrenti
esteri fanno salti di gioia per la crisi attuale dell'Ilva. Quindi,
si mette in luce che la gestione della fabbrica da parte di padron
Riva, a scapito della condizione operaia, dell'ambiente, è parte
della lotta e della concorrenza tra i capitalisti sul mercato, e che
per vincere in questa concorrenza sono ben sacrificabili gli operai e
i cittadini di Taranto.
Panebianco poi dice: “non si tratta
poi di difendere il gruppo Riva, le sue eventuali responsabilità
riguardano il Tribunale”. Appunto!! “Il Tribunale” sta quindi
facendo il suo dovere... Di che si dovrebbe lamentare Panebianco? Il
Tribunale dovrebbe, per caso, solo comminare sanzioni o piccole
condanne come è già avvenuto, dovrebbe lasciare in pace le
ricchezze accumulate e nascoste dai Riva eludendo tutte le leggi del
nostro paese, per non dire la Costituzione?
Poi, per favore, lo faccia la famiglia
Riva questo discorso, il cui uomo-cassa è latitante.
Panebianco aggiunge che la vicenda
doveva essere “gestita con buon senso”. Ma evidentemente ha
un'idea del “buon senso” che coincide con quella della famiglia
Riva e dei padroni. Perchè buon senso” in questo campo dovrebbe
significare mettere a disposizione tutti i fondi accumulati dalla
famiglia Riva per mettere a norma lo stabilimento, per contribuire
alla bonifica, al risanamento e al risarcimento, in un quadro in cui
gli operai dell'Ilva di Taranto e di tutti gli stabilimenti restano
al lavoro e protagonisti di questo processo. Il “buon senso” di
Panebianco, invece, coincide con quello del governo di riconsegnare
tutto in mano a Riva, tramite un suo uomo, Bondi che gestisca al
ribasso la messa a norma, utilizzi fondi pubblici e con la storia del
commissariamento tenga fuori da tutto il gioco fondi e proprietà
effettive della famiglia. Un processo che avrebbe come esito
inevitabile tagli e ristrutturazioni, e non tanto degli impianti
della 'Riva Acciai' ora sotto tiro, ma della più grande fabbrica del
gruppo Riva e conseguentemente della catena dell'Ilva di Genova e di
Novi Ligure.
Avere questo esito sarebbe “buon
senso”? Tutelerebbe lavoro e industria? Ma ci faccia il piacere...
Panebianco continua dicendo che il
declino economico del paese è inarrestabile, che il diritto penale
(evidentemente quando è usato contro i padroni) è una forma
primitiva e barbarica, che addirittura usato così diventa, secondo
Panebianco, il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, e
allora “ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio
estinzione”. Addirittura!!
Va bene stare sui 'Libri paga',
direttamente o indirettamente, dei padroni ma un minimo di contegno
ci vuole ogni tanto! Marx si sarebbe certamente divertito a leggere e
commentare un simile zelante scribacchino che per il solo fatto che
sequestrano i beni di un padrone responsabile di disastro sanitario e
ambientale, arriva a parlare di “estinzione della civiltà”. Ma
se la “civiltà” moderna è Riva, si capisce bene perchè questa
“civiltà del capitale” è giunta al capolinea e coincide con la
barbarie, a cui solo il socialismo in realtà potrà mettere rimedio.
Più insidioso è invece l'altro
argomento che usa Panebianco nel paragrafo finale dell'articolo, lì
dove parla della diffusione di una particolare sindrome, “un
orientamento antindustriale travestito da ecologismo che punta alla
decrescita, alla deindustrializzazione in quanto tale come una
minaccia per l'ambiente”. Noi, dal versante opposto a Panebianco,
condividiamo assolutamente questa frase, ma essa non c'entra con la
giusta e necessaria inchiesta della magistratura a Taranto che sta
perseguendo reati contenuti nel nostro codice di cui tutto si può
dire tranne che sia stato scritto da un “ecologista antindustriale”
visto che il sistema del capitale in questo paese e con questo codice
ha convissuto e continua a convivere bene; ma certamente Panebianco
parla degli esponenti della sua classe, borghesia, media, piccola
borghesia, che effettivamente sostengono a Taranto, come su scala
nazionale, posizioni reazionarie di questo genere, che effettivamente
cavalcano la tigre dell'inchiesta per diffondere nelle fila operaie e
popolari vecchie teorie che sono compagne di strada della fase
parassitaria e putrefatta del sistema economico imperialista. Teorie
che non hanno come bersaglio i padroni – si tranquillizzi
Panebianco – ma la classe operaia, il ruolo generale di essa e
della grande industria, la lotta per la trasformazione di questo
sistema sociale.
Ma per Panebianco non sono questi gli
avversari per cui utilizza questi argomenti, ma diventano uno
strumento per la criminalizzazione dei magistrati impegnati
nell'inchiesta nel tentativo di richiamare a sé con questi argomenti
l'alleanza neocorporativa tra padroni e operai.
Tanti saluti all'industria
La vicenda dell'Ilva è un disastro in sé e l'ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.
Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.
La vicenda dell'Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l'esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.
Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l'esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell'Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.
Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l'industria in quanto tale come una minaccia per l'ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall'inquinamento) l'ecologismo è diventato un'arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull'ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l'industria italiana. (CdS)
Tanti saluti all'industria
La vicenda dell'Ilva è un disastro in sé e l'ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.
Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.
La vicenda dell'Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l'esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.
Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l'esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell'Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.
Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l'industria in quanto tale come una minaccia per l'ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall'inquinamento) l'ecologismo è diventato un'arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull'ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l'industria italiana. (CdS)
Nessun commento:
Posta un commento