Seconda e ultima parte
Ma facciamo un passo indietro sulle operazioni finanziare che hanno al centro soprattutto i profitti realizzati all’Ilva di Taranto.Nell’inchiesta emersa a maggio 2013 della GdF di Milano su mandato della Procura milanese è risultato che tra il 1995 (anno dell’acquisizione dell’Ilva di Taranto) e il 2006, la famiglia Riva, con a capo Emilio Riva, il vero patron, ha portato all’estero 1,2 miliardi di euro sottraendoli alle casse della Riva Fire, e occultandoli in otto trust domiciliati nel paradiso fiscale di Jersey. Fondi, per buona parte frutto dell’attività delle industrie siderurgiche – in primis l’Ilva di Taranto e di finte compravendite di rami delle stesse aziende del loro impero – per cui vendevano a loro stessi percentuali societarie a prezzi gonfiati e poi, tramite i trust, facevano transitare il denaro sui propri conti anzicchè su quelli delle aziende (che quindi avevano bilanci falsati) e senza pagare le tasse
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Questo è avvenuto con tre operazioni societarie, fra cui la cessione dell’11,75% dell’Ilva Spa nel luglio 2003. Le tre operazioni hanno permesso ai due fratelli di generare una provvista complessiva di 1,39 miliardi di euro, dei quali 1,18 sono stati “rimpatriati giuridicamente” (il patrimonio è stato cioé regolarizzato ma è rimasto all’estero) con lo scudo fiscale del 2009 voluto da Tremonti.
«In tutte e tre le operazioni – scrive il gip – il corrispettivo della cessione di partecipazioni societarie... veniva fatto lucrare da società veicolo allocate in paesi a fiscalità privilegiata e riconducibili ad Adriano ed Emilio Riva e, da ultimo, fatto confluire nei trust (l’istituto dei trus è l’affidamento di beni ad un terzo affinché li gestisca per un certo tempo per poi restituirli) costituiti in un paese non collaborante nel contrasto al riciclaggio (il Jersey)». Quindi, un sistema di cessioni di partecipazioni infragruppo finalizzato, da una lato all’evasione fiscale a vantaggio della holding del gruppo Riva, dall’altro alla creazione di disponibilità finanziarie a favore delle persone di Adriano ed Emilio Riva». Non solo. «È comprovata – afferma ancora il giudice di Milano – non solo la creazione di provviste occulte all’estero formate integralmente con denaro di pertinenza di società di capitali depauperate in modo definitivo e non reversibile, ma anche la esclusiva destinazione di tali somme al perseguimento di fini estranei agli interessi sociali».
Nel 2009 Adriano ed Emilio Riva decidono di scudare i beni custoditi nei trust dell’isola di Jersey. Ma l’operazione, secondo la procura di Milano, non sarebbe stata realizzata nel rispetto della legge perché colui che ha trasferito i beni dei trust era Adriano Riva, che è cittadino canadese residente a Montecarlo, mentre nella dichiarazione presentata alle autorità fiscali figura il nome di Emilio. Il 30 novembre 2011 Emilio e Adriano Riva sottoscrivono due dichiarazioni riservate nelle quali si rappresentava che il disponente dei trust era unicamente Emilio Riva. Dunque il condono fiscale non poteva essere realizzato.
I trust dai nomi esotici (Orion, Sirius, Venus, Antares, amministrate da Usb Fiduciaria , e Lucam, Minerva, Paella e Felgan, amministrate da Carini spa) sarebbero stati istituiti esclusivamente per celare chi fosse il reale proprietario dei beni, proprio perchè frutto di operazioni realizzate ad arte per drenare soldi dalle società del gruppo e trasferirli nella titolarità dei due imprenditori. Prima di conferirli ai trust i proventi dei reati erano ulteriormente schermati «per agevolarne il riciclaggio» e inseriti «fittiziamente» in quattro società delle isole Cayman: Jamuri Limited, Nebo Limited, Millicent Limited e Finia Limited.Il reale proprietario dell’intero gruppo è Emilio Riva, in virtù di un patto di famiglia che gli consente di «decidere da solo sulle questioni di maggiore rilevanza per la società».
Insomma, la proprietà dell’Ilva (il pezzo più importante del gruppo siderurgico fondato dagli imprenditori milanesi) è schermata da sette società o trust collocati rispettivamente in Italia, Lussemburgo, Olanda, Curaçao e Jersey.
Mentre a Roma, si prova la soluzione “politica”, negli studi dei professionisti dell’Ilva si continua a lavorare. - Se è datato 19 dicembre dell’anno scorso l’atto notarile della scissione del ramo d’azienda da Riva Fire a favore di Riva Forni Elettrici, cinque giorni dopo viene pubblicata sulla G.U. la Legge 231/12 salva-Ilva.
Dunque, a questo punto, nelle architetture societarie esistono tre poli di attrazione: l’Ilva, che di fatto è separata da tutto il resto, le acciaierie straniere, i prodotti lunghi, un segmento che nel gruppo Riva è alimentato dai forni elettrici e non dal ciclo integrato di Taranto.
Quindi mentre il governo provvedeva a tutelare gli interessi di Riva, questi portava avanti una serie di operazioni straordinarie che rendono più facile disporre del gruppo o di parti di esso, di fatto isolando Ilva e provando a proteggere il resto del gruppo industriale e finanziario da ogni iniziativa giudiziaria.
Come si vede da tutte le operazioni finanziarie fatte in tutti questi anni, l’Ilva di Taranto è dove si è fatta la produzione, dove vi è la fonte del profitto padronale, ma gli utili, le ricchezze Riva li ha subito spostate altrove. Mentre agli operai e alle masse popolari di Taranto dice che non ha soldi per pagare risanamento della fabbrica e bonifiche per la città.
Al massimo i soldi per l’Aia si devono trovare solo dentro il perimetro dell’Ilva. E, quindi, non è previsto che le vere casseforti all’estero siano intaccate.
Contemporaneamente a questo scorporo dell’Ilva, “su imput delle banche prossime finanziatrici dell’Aia (in particolare di Pier Francesco Saviotti del Banco Popolare) viene scelto quale amministratore delegato dell’Ilva spa il ristrutturatore Enrico Bondi che si è occupato in passato di ristrutturazioni di Parmalat, Lucchini – conclusesi sempre con grossi tagli di produzione e di organici - ed è stato consulente del governo Monti della ‘spending rewiew’ – che anch’essa significa molto più prosaicamente “tagli”.
Questa nomina di Bondi è stata conseguente e legata alle manovre finanziarie societarie dei Riva per rendere formalmente indipendente l’Ilva e mettere al sicuro gli utili. L’obiettivo anche all’Ilva è la ristrutturazione. Essa può avvenire anche con l’ingresso di nuovi soci, soprattutto stranieri - quelli più probabili sono Cina e India - ma soprattutto si punta a mantenere la parte “utile” che può dare effettivi profitti e a liberarsi di ciò che comporta essenzialmente costi, con una rilevante cura dimagrante tra gli operai.
E che i governi, comunque si chiamino siano al servizio della classe dominante, è ulteriormente dimostrato, allorchè Bondi, dimessosi da amministratore di Riva, viene nominato commissario dal governo, per “controllare” Riva, ma di fatto per continuare a fare gli interessi di padron Riva.
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